1. – Premessa introduttiva
Il richiamo ai primati dell’attuale composizione della Consulta, fa riferimento, in primis, alla prima donna Presidente della Corte Costituzionale, Professoressa Marta Cartabia[1], eletta l’11 dicembre 2019 nonché al primato conseguito con la recente sentenza, la n. 150 del 24 giugno 2020 (deposita il 16 luglio 2020), firmata per la prima volte da tre donne: “Presidente la prof.ssa Marta Cartabia, come redattrice la prof.ssa Silvana Sciarra e nel ruolo di cancelliere la Dott.ssa Filomena Perrone”, come reso noto dalla stessa Corte attraverso un tweet sul proprio account Twitter ufficiale (@CorteCost), illustrando l’evento allegando anche diverse foto[2].
Mentre il riferimento alla continuità decisionale trova il suo fondamento nella medesima pronuncia n. 150/2020, con la quale è stata dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23[3], laddóve fissava l’ammontare dell’indennità in un «importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», le cui argomentazioni logico-giuridiche sono perfettamente in linea con il precipitato giuridico della precedente sentenza delle Corte, la n. 194 emessa in data 26.09.2018[4] (depositata in data 08/11/2018). Infatti, con tale ultima pronuncia è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’articolo 3, comma 1, del medesimo d. lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità dovuta per i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». La Corte ha ritenuto contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza e con la tutela del lavoro in tutte le sue forme l’analogo criterio di commisurazione dell’indennità previsto per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali.
2. La disposizione normativa censurata
Il già citato decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, è stato adottato in attuazione dell’articolo l, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n.183, che dispone misure volte a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato che, per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore, saranno assistiti da “tutele crescenti” in funzione della durata del rapporto intercorso tra le parti. Tale finalità è perseguita, in particolare:
a) semplificando, anche mediante l’accorpamento della disciplina delle condizioni di legittimità e delle sanzioni conseguenti alla loro violazione, le regole in materia di licenziamento, al fine di consentirne una chiara e univoca interpretazione e applicazione;
b) graduando le misure di tutela del lavoratore in modo crescente e senza discontinuità, in funzione della durata del rapporto di lavoro tra le parti, assicurando una tutela garantita di partenza;
c) favorendo la conciliazione di eventuali controversie tra le parti attraverso l’incentivazione, con specifici sgravi fiscali e contributivi, di una soluzione economica fondata su un meccanismo di predeterminazione legale dell’importo conciliativo e sulla sua immediata disponibilità da parte del lavoratore;
d) riservando la tutela reintegratoria per il lavoratore licenziato oralmente o per ragioni discriminatorie o in conseguenza di una contestazione disciplinare relativa ad una condotta inesistente nella sua materialità fattuale;
e) prevedendo una tutela economica per le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento intimato per motivi disciplinari e per tutte le ipotesi di illegittimità del licenziamento intimato per motivi oggettivi.
Espressione di tale ultima previsione è proprio l’articolo 4, al comma 1, del d. lgs. 23/2015, che disciplina il licenziamento inficiato da vizi formali e procedurali, prevedendo che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966[5] o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970 (Stat. Lav.)[6], il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità[7], a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3.
3. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma: i giudizi principali e le fattispecie concrete
In data 24 giugno 2020 la Corte Costituzionale ha esaminato le questioni di costituzionalità sottoposte alla stessa dai Tribunali di Bari e di Roma, entrambi in funzione di giudici del lavoro, per il tramite di due distinte ordinanze (rispettivamente: reg. ord. n. 214 del 2019 e reg. ord. n. 235 del 2019), e relativamente ai criteri di determinazione dell’indennità da corrispondere nel caso di licenziamento viziato solo dal punto di vista formale e procedurale (articolo 4 del d.lgs. n. 23 del 2015). Le motivazioni della sentenza sono state depositate il 16 luglio u. s. dichiarando incostituzionale l’inciso “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, in quanto ritenuto fissare un criterio rigido e automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio.
Ma vediamo in dettaglio le vicende dei giudizi principali nell’ambito dei quali sono state sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, comma 1, 35, comma 1, e 24 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale relativamente alla norma suindicata, introducendo il relativo giudizio di legittimità costituzionale delle leggi in via incidentale (ex art. 23 della L. 11 marzo 1953, n. 87).
Davanti ad entrambe le Autorità giudiziarie, in funzione di giudice del lavoro, pendevano giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione di licenziamenti intimati nei confronti di lavoratrici assunte dopo il 07.03.2015[8], che lamentavano, tra l’altro, la nullità/illegittimità del licenziamento per vizi formali/procedurali dello stesso, chiedendo conseguente – quale domanda principale – di reintegrazione nel posto di lavoro
e risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2 o dell’art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, nonché – quale subordinata – di declaratoria di estinzione del rapporto con condanna al pagamento
dell’indennità ex art. 3, comma 1 o art. 4, decreto legislativo n. 23/2015.
I licenziamenti sono stato, dunque, ritenuti illegittimi in quanto affetti da un vizi procedurali/formale[9], con esclusione, invece, della ricorrenza delle ipotesi di tutela reintegratoria ex art. 2 o ex art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015 (per nullità, o per insussistenza dei fatti materiali posti a base del recesso) e con esclusione, altresì, della ricorrenza dell’ipotesi di illegittimità sostanziale di cui all’art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015 (per difetto di giusta causa e/o di giustificato motivo soggettivo). Conseguentemente all’accertamento dell’illegittimità procedurale del licenziamento impugnato, è stata individuata quale tutela applicabile in favore delle lavoratrici quella apprestata dall’art. 4, decreto legislativo n. 23/2015.
A questo punto i Giudicanti, invece di procede alla quantificazione dell’indennità spettante alle ricorrenti ai sensi del menzionato art. 4, decreto legislativo n. 23/2015, hanno ritenuto che la disposizione non vada esente da censure di incostituzionalità e che, d’altro canto, non sussistevano margini per una sua interpretazione conforme a Costituzione. Così, in tali circostanze, i Giudici a quibus hanno sollevato d’ufficio le questioni di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, ritenendola penalizzante ed irragionevole nella modalità di calcolo dell’indennità, non senza illustrare le ragioni che – nell’ipotesi di accoglimento delle censure mosse – condurrebbero a riconoscere un’indennità più cospicua rispetto a quella relativa alla sola anzianità di servizio.
4. I profili di contrasto individuati in riferimento ai parametri costituzionali evocati
I Giudici rimettenti hanno entrambi precisato che mentre per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, si applica il quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, della tutela reintegratoria e di un’indennità commisurata a dodici mensilità e, applicando il quinto comma dello stesso art. 18, della tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilità; per quelli assunti dopo la predetta la tutela a essa applicabile è costituita dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 e, in particolare, dai citati comma 1 dell’art. 3 e dell’art. 4, con un’indennità inferiore oscillante tra un limite minimo di due mensilità e un insuperabile limite massimo di dodici mensilità. Dunque, non c’è possibilità di “interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto il criterio dell’anzianità lavorativa è categoricamente indicato come l’unico in base al quale modulare il risarcimento, in rapporto di una mensilità per ogni anno di servizio, sicché l’unica alternativa alla applicazione letterale della norma sarebbe la sua disapplicazione, interdetta in difetto di una pronuncia di incostituzionalità”.
Ebbene, i Giudici rimettenti muovendo da siffatto rilievo, e citando espressamente la precedente sentenza n. 194 del 2018 della Corte Costituzionale[10], con la quale è stato dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015[11], nella parte in cui determinava l’indennità per il licenziamento intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», con preciso riferimento estensivo all’art. 4 del d. lgs. n. 23/2015, hanno trasmesso gli atti processuali alla Consulta, al fine del richiesto scrutinio di legittimità costituzionale, rispetto, nel complesso delle due ordinanze, agli artt. 3, 4, primo comma, 24 e 35, primo comma, della Costituzione.
Va rilevato, a tal proposito, che i dubbi di conformità alla Costituzione della predetta disposizione riecheggiano nel contenuto sostanziale le argomentazioni svolte dai remittenti e dai Giudici delle Leggi esposte nella citata sentenza n. 194/2018[12], circa la rigidità della prevista indennità ed in forza del fondamentale valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (articoli 1, primo comma, 4, comma 1, Cost.), in funzione della piena realizzazione dello sviluppo della personalità umana e tutelandolo in tutte le sue forme e applicazioni (35, comma 1, Cost.),
Or dunque, l’art. 4, decreto legislativo n. 23/2015, secondo i giudici che hanno proposto l’incidente di costituzionalità, contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall’art. 3 Cost., nonché con gli articoli 4, comma 1 e 35, comma 1 Cost., poiché “una tutela inadeguata a fronte di un licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale è altrettanto lesiva del diritto al lavoro quanto l’analoga inadeguata tutela, ormai dichiarata incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi sotto il profilo sostanziale”. A ciò si aggiunge che “le garanzie procedurali poste dall’ordinamento a presidio di un regolare e legittimo licenziamento disciplinare sono espressione del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.”, sicché l’irragionevole modalità di calcolo dell’indennità finisce per contrastare con tale addentellato costituzionale.
Sulla base di tali assunti e della non manifesta infondatezza degli stessi, della questione è stata investita la Corte Costituzionale.
5. Il nuovo intervento della Corte delle Leggi sul d. lgs. n. 23/2015: la fondatezza dei vizi legittimità denunciati
Dunque la Consulta, nella nuova composizione di cui sopra, è tornata ad occuparsi del tema delle tutele crescenti così come previste dal d. lgs. n. 23/2015, cosiddetto Jobs Act, accogliendo le puntuali argomentazioni dei Giudici de quibus ed aderendo, expressis verbis, alle motivazioni della precedente decisione del 2018 (n. 194/2018) in quanto entrambi i rimettenti prendono le mosse dalla citata pronuncia, con la Consulta, come già detto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determinava l’indennità per il licenziamento intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Un’indennità dovuta per i vizi sostanziali del licenziamento parametrata in base ad un criterio di commisurazione automaticamente legato all’anzianità di servizio, come le fattispecie regolate dall’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, per i vizi formali e procedurali del licenziamento.
Ebbene, la Corte delle Leggi, ritenendo che “le motivazioni in punto di rilevanza non appaiono implausibili e superate, pertanto, il vaglio di ammissibilità”, riuniti i suddetti ricorsi, prendendo le mosse dalla sentenza n. 194/2018, ha deciso[13] per l’illegittimità costituzionale della disposizione alla stessa segnala.
Ma prima di addentrarci nel merito delle questioni giuridiche-legislative affrontate dalla Corte, appare giusto il caso di fare una riflessione metodologica posta in essere al fine di delineare con precisione il thema decidendum, trattandosi di una tematica molto delicata ed estremamente tecnica. Infatti, i Supremi Giudici rilevano che la parte costituita nel giudizio a quo di cui al reg. ord. n. 214 del 2019, pendente innanzi al Tribunale ordinario di Bari, ha chiesto una declaratoria di illegittimità costituzionale, dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui fissa l’indennità nell’ammontare massimo di dodici mensilità per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali, ed in via consequenziale, hanno chiesto di incrementare tale soglia massima fino alle trentasei mensilità che oggi sono stabilite, per il licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo (vizi sostanziali), di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, così come modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, cosiddetto “Decreto dignità”, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.
A questo punto, la Corte stabilisce che“la richiesta di quest’ultima, ribadita anche nel corso dell’udienza di discussione pubblica da remoto, adombra, in realtà, una diversa questione di legittimità costituzionale, che verte sul trattamento difforme, quanto alle soglie, tra vizi formali e vizi sostanziali”. Si rileva, dunque, che mentre il Tribunale di Bari non ha contestato il trattamento differenziato che il legislatore ha scelto di riservare ai vizi formali e procedurali del licenziamento rispetto a quelli sostanziali, su tale punto propone, invece, incidente di costituzionalità, la parte privata “chiedendo a questa Corte di assimilare, quanto alla tutela indennitaria, la disciplina dei vizi formali e quella dei vizi sostanziali”.
Pertanto, non sfugge ai Giudici delle Leggi la diversa prospettiva dei dubbi di costituzionalità avanzati dai Giudici e dalla parte privata, che tendendo ad ampliare irritualmente il tema del decidere, così come tracciato dall’ordinanza di rimessione, secondo la costante giurisprudenza di medesima Corte “non devono essere prese in considerazione” (fra le molte, sentenza n. 26 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto), circoscrivendo lo scrutinio di illegittimità costituzionale della norma censurata ai soli profili denunciati dai rimettenti.
Ciò rilevato in punto di rito, venendo al merito della decisione in parola, la Corte ripercorre i tratti salienti della recente evoluzione del quadro normativo in cui si colloca la disposizione censurata[14], ed in particolare all’autonoma disciplina delle conseguenze sanzionatorie dei vizi formali nonché alla modulazione delle tutele, in ragione della diversa gravità di tali vizi.
A tal riguardo, la Corte sottolinea che tali vizi formali, che il legislatore ha voluto sanzionare con la tutela indennitaria, “rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica. Nell’ambito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei principi costituzionali”.
Si dà risalto ai vincoli di forma e di procedura, anch’essi volti ad ampliare il perimetro delle tutele che circondano i lavoratori, come quelli relativi alla garanzia del “contraddittorio che «esprime un valore essenziale per la persona del lavoratore» (sentenza n. 364 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto) così anche l’obbligo di motivazione che risponde ad analoghe esigenze di tutela”. Per cui, la disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura, proprio per gli interessi di rilievo costituzionale citati dai rimettenti (artt. 4 e 35 Cost.), “deve essere incardinata nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, così da garantire una tutela adeguata”. Proprio a tal proposito, vengono richiamate numerosi precedenti giurisprudenziali della Corte stessa: sentenze n. 427 del 1989, n. 364 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto.
Fatti i predetti richiami, la Corte si incammina lungo il profilo problematico che è emerso dalla previsione legislativa di una tutela esclusivamente indennitaria/monetaria e la connessa predeterminazione dell’importo spettante al lavoratore, che dunque non prende in considerazione nessuna specificità del caso concreto[15], ma ne rifugge adottando un meccanismo rigido e uniforme.
Ebbene, la Corte ha concluso, richiamate “le ragioni della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3 del medesimo d.lgs. n. 23 del 2015 (di cui alla sentenza n. 194 del 2018) … che servono ad orientare la soluzione dell’odierno dubbio di costituzionalità”, anche per l’incostituzionalità del «rigido ed automatico meccanismo di determinazione» dell’indennità di cui all’art. 4 del citato d. lgs. 23/2015, così come fatto per l’art. 3 del medesimo con la richiamata pronuncia, ivi “ritenendo ininfluenti le innovazioni introdotte dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito, giacché esse si limitavano ad apportare correttivi alle soglie stabilite dal legislatore (innalzate da quattro a sei mensilità nel minimo e da ventiquattro a trentasei mensilità nel massimo), senza incidere sul meccanismo denunciato dal rimettente e senza mutare, pertanto, i termini essenziali delle questioni proposte”.
Cosicché, si precisa, il solo criterio sanzionatorio previsto attualmente appare non idoneo ad “esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio”. Ciò al fine di poter consentire al Giudice una valutazione non più appiattita sulla sola anzianità di servizio del lavoratore, bensì tenendo presente altri non trascurabili e non meno significativi fattori quali la diversa gravità delle violazioni ascrivibili al datore di lavoro, o i più flessibili criteri del numero degli occupati, delle dimensioni dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti valorizzati dallo stesso legislatore del ‘92 (l. n. 92/2012), in modo tale da “non determinare un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse e così entra in conflitto con il principio di eguaglianza” (Art. 3 Cost.).
Trattasi, orbene, di una riaffermazione convinta ed oramai consolidata, del decisum di cui alla pronuncia n. 194/2018, al quale si aggiunge, sotto il profilo della ragionevolezza ed adeguatezza della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro, per il futuro un più“equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco”, ciò a fortioti se si pensa che “L’incongruenza di una misura uniforme e immutabile si coglie in maniera ancor più evidente nei casi di un’anzianità modesta, come quelli esaminati nei giudizi principali. In queste ipotesi, si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della tutela indennitaria. Né all’inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge può porre sempre rimedio la misura minima dell’indennità, fissata in due mensilità. Un meccanismo di tal fatta, pertanto, non compensa il pregiudizio arrecato dall’inosservanza di garanzie fondamentali e neppure rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore di lavoro dal violare le garanzie prescritte dalla legge. Proprio perché strutturalmente inadeguato, il congegno delineato dal legislatore lede il canone di ragionevolezza”.
Così, e da ultimo, la Corte, indicata ai Giudici che dovranno determinare la misura dell’indennità in parola, di attenersi al rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, di considerare innanzitutto l’anzianità di servizio (che rappresenta la base di partenza della valutazione), ma potranno, in chiave correttiva e con apprezzamento congruamente motivato, “ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto[16]”.
Infine, la rilevanza della pronuncia in esame, si evince anche dal monito che la Corte Costituzionale rivolge al legislatore, o meglio alla responsabilità di questo, a chiusura del proprio argomentare, invitandolo “a ricomporre, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, secondo linee coerenti, una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.
6. Breve considerazioni conclusive
Il decreto legislativo n. 23/2015 costituisce l’implementazione della delega legislativa di cui all’articolo l, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n.183 che la prevede, tra l’altro, al di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione … nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali”: lett. c) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità’ di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
Orbene, essendo intervenute le pronunce di incostituzionalità della Corte Costituzionale n. 194/2018 e n. 150/2020, della richiamata previsione è stata censurato, non tanto l’intensione di fondo di ridimensionale la tutela reale/reintegrativa nel posto di lavoro ad ipotesi residuali, ma il meccanismo di predeterminazione automatico di calcolo delle indennità risarcitoria a fronte di licenziamenti dichiarati illegittimi perché affette sia da vizi sostanziali (Art. 3, comma 1, del d. lgs. n. 23/2015) sia formali/procedurali (Art. 4 del d. lgs. n. 23/2015), la cui misura, soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio non elevata, potrebbe essere molto ridimensionata.
Detto ciò, la Consulta ha risolto la questione sottopostale richiamando i fondamentali principi costituzionali a tutela della uguaglianza, ragionevolezza e del lavoro. Proprio a tal ultimo riguardo è stato puntualizzato che il predetto meccanismo di calcolo degli risarcimenti/indennizzi da riconoscere ai lavoratori in caso di licenziamenti viziati, non rendere tale rimedio coerente rispetto alla sua finalità di dissuadere i datori di lavoro dall’operare siffatti atti interruttivi del rapporto di lavoro (Sul punto del danno punitivo si veda l’interessante sentenza della Suprema Corte, a Sezioni Unite, n. 16601 del 2017).
Come non condividere il principio espresso dai Giudici delle leggi riguardo all’effettiva rispondenza della tutela risarcitoria alla sua finalità primaria, consistente nel prevedere una compensazione adegua del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato, attraverso una valutazione caso per caso e l’utilizzo di una pluralità di fattori di correlazione al danno sofferto.
Sotto altro profilo, rimandando anche alla richiesta che la Corte ha indirizzato al legislatore, la coesistenza di regimi sanzionatori, del tutto disomogenei per livelli di tutela, rischia di determinare un’irragionevole disparità di trattamento fra identiche violazioni relative a fattispecie del tutto omogenee.
Or dunque, in base alle coordinate fornite dalla Consulta, appare indubbio che dovrà essere il legislatore a mettere mano nuovamente al regime di tutela dei licenziamenti illegittimi, sia in quanto la Consulta ha rimesso – per la seconda volta – alla discrezionalità del Giudice la determinazione del quantum del risarcimento nei casi di licenziamento illegittimo (prima per vizi sostanziali ed ora anche formali/procedurali), facendo decadere la preventiva valutazione del “costo” del recesso, che, come visto, costituiva una delle principali finalità della disciplina complessiva del Jobs Act.
Ma soprattutto, perché la tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo costituisce la chiave di volta di tutto l’impianto normativo teso a garanzia delle libertà e dignità dello stesso, in contiguità con il valore costituzionale della dignità dell’individuo in ogni sua esplicazione, in particolare quella fondamentale del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Cost.), necessario ad assicurarsi un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.).
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Testi che possono essere consultati, per ogni opportuno approfondimento, tra i tanti altri che affrontano il tema della storia della Corte Costituzionale e delle sue dinamiche decisionali:
– N. TRANFAGLIA, “Storia della Corte Costituzionale”, Massari Editore, 2020;
– M. D’AMICO & F. BIONDI,“La Corte Costituzionale e i fatti: Istruttoria ed effetti delle decisioni”, Editoriale Scientifica, 2018;
– S. CASSESE, “Dentro la corte. Diario di un giudice costituzionale”, Il Mulino, 2015;
Note
[1] CARTABIA Marta Maria Carla, (San Giorgio su Legnano (MI), 14 maggio 1963), giurista, costituzionalista e professore ordinario di diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca (Dipartimento di giurisprudenza), il 13 settembre 2011 è nominata Giudice della Consulta dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, poi vice Presidente nel 2014 ed è stata la seconda donna a rivestire tale ruolo, dopo Fernanda Contri nel 2005. L’11 dicembre 2019 è stata scelta all’unanimità, con 14 voti favorevoli e una scheda bianca (la sua). È autrice e studiosa, è tra le più giovani Presidenti che la Consulta abbia mai avuto e ha un forte background internazionale. È impegnata sulla tematica dell’integrazione dei sistemi costituzionali europei e nazionali. E’ stata relatrice di importanti e controverse sentenze, tra si ricorda quella sui vaccini e quella sull’Ilva. Alla sua nomina a Presidente della Consulta, ha affermato: «Si è rotto un vetro di cristallo. Ho l’onore di essere qui come apripista … la mia elezione apra la strada per le donne …
la neo Presidente finlandese ha detto che età e sesso non contano più ma in Italia ancora un po’ contano. Spero presto di poter dire che non contano più», riferendosi, appunto, alla sua elezione con la quale per la prima volta una donna giunge a ricoprire la quinta carica dello Stato. Rimarrà in carica fino al 13 settembre 2020, quando scadrà il suo mandato di giudice costituzionale (9 anni, ai sensi dell’art. 135, comma 3, Cost.).
[2] Per la cui visione si rinvia al seguente link: https://twitter.com/CorteCost/status/1283726127991795719. Ma ad onor del vero, il giorno seguente è la stessa Corte che precisa di non trattarsi della prima volta in assoluto ma che vi è stato già un precedente: “Così, fra precedenti veri e presunti (come la sent. 132/2015 in cui Cartabia presiedeva ma in quanto vicepresidente) è emersa una pronuncia, la n. 106 depositata il 5/6/2020, con le stesse firme della sentenza n. 150 di ieri: pres. Cartabia, relatrice Sciarra, Cancelliera Perrone” (https://twitter.com/CorteCost/status/1284167019013775367).
[3] Con il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, adottato in attuazione della Legge 10 dicembre 2014, n. 183 recante “Deleghe al Governo in materia di lavoro, riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività’ ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”, cd. Riforma del lavoro ovvero cd. “Jobs Act”, sono introdotte le nuove tutele per i lavoratori illegittimamente licenziati, valide per i contratti a tempo indeterminato iniziati a partire dal 7 marzo 2015.
[4] Pronuncia firmata da: Giorgio LATTANZI, Presidente; Silvana SCIARRA, Redattore; Roberto MILANA, Cancelliere.
[5] Tale disposizione prevede che “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.
[6] L’articolo 7 della legge n. 300 del 1970, rubricato “Sanzioni disciplinari”, definisce le procedure per l’irrogazione delle sanzioni da parte del datore di lavoro.
[7] Va rilevata la differenza sostanziale di tale previsione rispetto alla precedente normativa di riferimento di cui all’articolo 18, comma 6, della legge n. 300/1970 consistente nella misura dell’indennità risarcitoria, stabilita tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità. Altra differenza nel decreto in parola è nel non prevedere tra i motivi di inefficacia del licenziamento, il mancato rispetto della procedura di conciliazione prevista dall’articolo 7 della legge n.604/1966, coerentemente con quanto previsto all’articolo 3, comma 4, che ne ha esclusa, in via generale, l’applicazione.
[8] Ai lavoratori assunti dopo tale data, la tutela ad essi applicabile è costituita dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 e, in particolare, dai comma 1 dell’art. 3 e dell’art. 4, comma unico. Invece, per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015, la tutela avverso i licenziamenti illegittimi è quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), e, in particolare: dal settimo comma dell’art. 18, «per il caso di assenza del motivo oggettivo (definito come difetto di giustificazione, manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), che richiama il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravità del vizio»; dal sesto comma dell’art. 18, «per il caso di difetto di motivazione».
[9] Le prescrizioni formali, la violazione delle quali è sanzionata la tutela indennitaria, rivestono un’essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica. Infatti, costante giurisprudenza afferma che nell’ambito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei principi costituzionali.
[10] Giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, Con ordinanza del 26 luglio 2017 (reg. ord. n. 195 del 2017).
[11] Indennità che successivamente è stata modificata dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, cd. “Decreto dignità”, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, che ha elevato a trentasei mensilità l’ammontare massimo dell’indennità per il licenziamento affetto da vizi sostanziali. Tale discrasia renderebbe ancor più irragionevole la disparità di trattamento tra le due discipline.
[12] Sono gli stessi Giudici rimettenti ad affermare: “Così sintetizzati alcuni dei profili di illegittimità costituzionale riscontrati con riferimento all’art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, si osserva che dubbi analoghi investono la conformità alla Costituzione dell’omologo criterio di quantificazione dell’indennità’ previsto dal successivo art. 4, ritenendosi che i principi affermati dalla Corte costituzionale siano estensibili anche a quella parte dell’art. 4 che ricalca fedelmente l’inciso dell’art. 3 ormai espunto dall’ordinamento in quanto incostituzionale” (Ordinanza del 18 aprile 2019 del Tribunale di Bari nel procedimento civile promosso da P. A. contro L. S.r.l.).
[13] Proprio recentemente Il Giudice costituzionale, dott. Nicolò Zanon, ha raccontato, sull’account Twitter ufficiale della Corte costituzionale italiana (@CorteCost), l’iter delle decisioni della Corte: la preparazione della causa, la discussione in udienza pubblica e, in camera di consiglio, la collegialità, le votazioni, la stesura della sentenza dove “ogni parola pesa”. Per la visione del contributo si rimanda al seguente link: https://twitter.com/CorteCost/status/1284038978103119877?cxt=HHwWisC8-bep6dEjAAAA.
[14] La legge 28 giugno 2012, n. 92, recante “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, che è intervenuta sull’art. 18, primo e secondo comma, della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori), ha previsto una tutela prettamente indennitaria, che ha carattere residuale, in quanto si applica soltanto quando il giudice non accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento. Oltre al richiamo del più volte citato d.lgs. n. 23 del 2015 che all’art. 4, applicabile agli operai, agli impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, riproduce in gran parte le disposizioni dell’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, così come novellato dalla legge n. 92 del 2012. La tutela, anche nel nuovo regime, ha carattere residuale e non si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo.
[15] Infatti, la declaratoria di illegittimità costituzionale potrebbe aver dato la stura ad una possibile valutazione di una vasta gamma di altri fattori idonei a parametrare diversamente la misura indennitaria, non legata alla sola anzianità di servizio, e, segnatamente, alle dimensioni dell’impresa convenuta in termini di fatturato e al numero di dipendenti occupati, nonché all’entità della violazione formale/procedurale commessa dal datore di lavoro ecc.
[16] Criteri già indicati, ma che qui appare opportuno esplicitare nuovamente e così come enucleati dai Giudici delle Leggi: “…. la gravità delle violazioni, enucleata dall’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, previsione applicabile ai vizi formali nell’ambito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012”.
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