E’ noto a tutti quanto previsto dall’art. 183 c.p.c.: il Giudice alla seconda udienza (prima udienza di trattazione) può, se richiesti dalle parti, concedere o i termini per la precisazione e modificazione delle domande o, in difetto, sempre se vi è apposita richiesta di parte, concedere i termini per il deposito di documenti e per indicare nuovi mezzi di prova.
Non vi è dubbio, stante il carattere perentorio (e non ordinatorio) dei richiamati termini, che solo in quella fase del processo il Giudicante può acconsentire alle parti di formulare le proprie richieste probatorie e/o di meglio determinare le proprie domane / eccezioni.
Orbene, nel caso in cui il Giudice dispone il “mero rinvio” della seconda udienza ad una successiva (terza) senza che le parti abbiamo fatto alcuna istanza, sotto il punto di vista meramente procedurale, possono aversi le seguenti due alternative conseguenze: 1) le parti hanno fatto salvi i loro rispettivi poteri processuali, da esercitare quindi in un secondo momento; 2) la facoltà di precisare le domande e/o di formulare istanze istruttorie si è definitivamente consumata.
E’ bene premettere come la questione all’esame, oltre ad essere assai complessa per le gravi implicazioni che comporta, non è ancora stata compiutamente affrontata e risolta in giurisprudenza, sia di merito che di legittimità.
E’ quindi necessario cercarne la soluzione attraverso il corretto impiego dei principi generali del codice di rito nonché avendo ben a mente la logica ispiratrice della recente riforma normativa del processo (oralità – concentrazione – speditezza).
Si ripropone, in pratica, l’annosa questione relativa all’efficacia degli accordi processuali, intercorsi tra le parti o tra le parti e il giudice, che rende necessaria una breve digressione[1].
Non vi è dubbio che il processo dipende dall’iniziativa di una parte nei confronti di un’altra: è l’attore – ricorrente a dare impulso all’azione giudiziale con la notifica dell’atto di citazione o con il deposito del ricorso.
Le parti, concordemente, possono decidere di sospendere il processo, comunque per un certo lasso di tempo, oppure di porvi fine con la rinuncia e a loro spetta l’iniziativa probatoria.
Il Giudice, da parte sua, può indurre la parte interessata alla prosecuzione del giudizio ad evocare in quella causa un terzo soggetto oppure può esercitare una qualche (autonoma) iniziativa probatoria o ancora convocare le parti per la conciliazione.
Vi è quindi spazio perché attore – convenuto – giudice possano discrezionalmente gestire, o meglio amministrare, alcune delle significative vicende processuali a seconda delle loro scelte.
Sarebbe, peraltro, illogico costruire un procedimento giurisdizionale dove i soggetti risultino prigionieri, contro la loro diversa volontà, della disciplina e del codice di procedura.
Vero, tuttavia, che vi sono delle regole (del gioco) che tutti, pure il guidicante, devono rispettare e che non possono essere derogate nemmeno con una concorsuale espressione di volontà.
Vi sono quindi dei momenti del processo lasciati all’iniziativa della parti e delle fasi del procedimento rigidamente predeterminate dal legislatore.
Spetta all’interprete capire quando una regola dettata dal codice appartiene all’una o all’altra categoria.
Orbene, il momento – fase del processo – in cui le parti possono chiedere che siano concessi i termini perentori, di merito e/o istruttori, costituisce una regola derogabile?
Possono quindi l’attore e il convenuto, d’accordo con il Giudice, posticipare il momento, altrimenti fissato dal codice di rito, per la dazione di quei termini.
La prima delle due soluzione proposte, ossia quella favorevole ai meri rinvii, comporterebbe il rischio (serio e grave) di acconsentire all’infinito il procrastinarsi del momento in cui il Giudice deve statuire in ordine alle richieste ex art. 183, ultimo comma ed ex art. 184, c.p.c. .
Le parti, a seguito di ripetuti concordati rinvii potrebbero di fatto paralizzare le sorti del processo.
Si ritornerebbe alla “vecchia” prassi dei procedimenti perennemente pendenti.
Facile, inoltre, osservare che il legislatore nel codice di procedura civile non ha riconosciuto, nemmeno implicitamente, alcuna facoltà di rinvio alle parti, anche al Giudice.
Anzi, dapprima per il processo del lavoro e poi per tutte le cause ordinarie, ha previsto il divieto di udienze di mero rinvio.
In sintesi, non si è in grado di rintracciare alcun appiglio normativo in favore della tesi del “mero rinvio”.
Non sarebbe nemmeno possibile “salvare” la facoltà di rinvio del Giudicante appellandosi al fatto che la necessità di una seconda (o terza o ulteriore) udienza di comparizione personale delle parti, per conciliare la causa, sarebbe incompatibile con la concessione dei predetti termini.
Non è infatti infrequente sentire nelle aule giudiziarie i difensori chiedere una nuova comparizione “salvi i termini” di legge solo perché di fatto il deposito delle relative memorie (di merito o istruttorie) impedirebbe, a loro dire, la transazione.
La giustificazione è alquanto debole.
Non vi è infatti alcun incompatibilità tra il deposito di memorie (istruttorie e di merito) e la conciliazione delle parti, che di fatto può essere tentata in ogni momento del giudizio.
L’interpretazione più severa, che appunto impedisce alla parti e al Giudice di disporre liberamente degli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., avrebbe invece il merito di rendere effettivamente (seriamente) più rapido il processo costringendo le parti al rigoroso rispetto dei tempi della causa.
Più chiaramente: chi vuole un processo più rapito non può che convenire per quest’ultima soluzione.
Si noti inoltre il testo del codice di rito, come sopra già evidenziato, laddove parla di termini “perentori” e divieto di udienze di mero rinvio è conforme a tale interpretazione piuttosto che all’altra.
Si obbietterà che sposando questa lettura della legge si corre il rischio, solo perché c’è stato un “mero rinvio”, di vedersi pregiudicato l’intero processo.
Se, infatti, le parti hanno confidato nella possibilità di far “slittare” i termini dell’art. 183 c.p.c. ad altra data, potrebbero in un secondo momento vedere punita la loro buona fede.
Ciò è vero.
E’ tuttavia giusto evidenziare che l’attuale schema di funzionamento del processo è caratterizzato dal fatto che il legislatore ha posto dei paletti che il procuratore deve rigorosamente rispettare.
Non esiste buona fede tutelabile quando si tratta di conoscere le regole del processo.
In sintesi è quindi preferibile ritenere che il mero rinvio consuma il potere delle parti che quindi non possono più essere rimesse in termini.
Infatti, “il processo civile si articola in varie fasi distinte non solo concettualmente ma anche nella loro successione temporale. La prima, di proposizione delle domande e delle eccezioni, con allegazione dei fatti dedotti a fondamento di esse, diretta alla definizione del “thema decidendum” sottoposto al giudice si conclude con la chiusura della prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. ovvero con la scadenza dei termini (perentori) in quella sede fissati dal giudice, su richiesta di parte ai sensi del comma ultimo del medesimo art. 183. La fase successiva, che si sviluppa nell’udienza ex art. 184 e nell’eventuale sua appendice costituita dalle memorie istruttorie autorizzate, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, dal giudice (che a tal fine assegna termini di natura perentoria) e’ diretta alla definizione del “thema probandum”. La terza fase, dell’istruzione probatoria, e’ diretta all’assunzione delle prove ammesse. In ultimo c’e’ la fase della decisione. Tale scansione di regola non tollera deroghe; e il mancato rispetto dei tempi stabiliti per la definizione del “thema decidendum” e del “thema probandum” determina la decadenza della parte dalla facolta’ da un lato di “precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni gia’ formulate” e dall’altro di completare le produzioni documentali “e indicare nuovi mezzi di prova”. Le decadenze a cui si e’ accennato sono rivelabili anche d’ufficio, attesa la natura perentoria dei termini a cui sono ricollegate e la loro rispondenza al superiore interesse ad una spedita conduzione del processo (nella specie, sulla base delle enunciate premesse, e’ stata rilevata “ex officio” sia la inammissibilita’ della modifica, in sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda, sia la tardivita’ e la conseguente inutilizzabilita’ di documenti prodotti all’udienza di precisazione delle conclusioni)” (Tribunale Milano, 8 maggio 1997, – Amoroso c. Sorelli e altro -, in Nuova giur. civ. commentata 1998, I, 577 nota (DALMOTTO); in Giur. it. 1998, 2309).
Pure di notevole interesse, al fine di interpretare correttamente l’effettiva “voluntas legis” racchiusa negli artt. 183 – 184 c.p.c., appare essere la seguente pronuncia di merito: “nella prima udienza di trattazione, qualora le parti non chiedano ne’ un termine per il deposito di memorie ai sensi dell’art. 183 comma 5 c.p.c., ne’ un termine per la produzione di documenti e l’indicazione di nuovi mezzi di prova, il giudice istruttore puo’ immediatamente esaminare le richieste istruttorie gia’ avanzate; in tal caso non e’ ammessa la successiva produzione di nuovi documenti o la richiesta di nuovi mezzi di prova (nella specie, la concessione di termine perentorio per ulteriori deduzioni istruttorie ovvero la fissazione dell’udienza di cui all’art. 184 c.p.c. erano state invocate dopo l’espletamento della consulenza tecnica disposta dal giudice nella stessa prima udienza di trattazione)” (Tribunale Brindisi, 26 maggio 1997, – Rizzo c. Corsi -, in Foro it. 1998, I, 2585)[2].
Come sopra già evidenziato, non si è riusciti a reperire dei significativi precedenti in termini.
La giurisprudenza tuttavia ha avuto occasione di soffermarsi sul rapporto tra l’udienza di mero rinvio e i poteri che le parti ivi avrebbero dovuto esercitare: 1) quanto alle contestazioni alla CTU[3]; 2) per proporre l’appello incidentale[4] .
In entrambi i casi i Giudici sono giunti alla conclusione che il mero rinvio consuma i poteri riservati alle parti, anche se il Giudicante ha disposto la “salvezza dei diritti” di prima udienza poiché è materia che attiene all’ordine pubblico e dunque sfugge alla disponibilità delle parti.
Si noti, inoltre, che nella seconda delle accennate pronunce si afferma che l’inammissibilità dell’appello incidentale può essere rivelato anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio, salvo il giudicato.
Il rilievo non è di poco momento.
La parte, infatti, ha esercitato una facoltà processuale (in quel caso, ha impugnato un capo della sentenza) che non gli spettava.
A prescindere dall’accordo con controparte e con il Giudice, che invero ha rinviato “facendo salvi i diritti di prima udienza”, l’inammissibilità della domanda può essere rilevata sempre.
Mutatis mutandis, avvenuto il mero rinvio della seconda udienza e concessi solo successivamente i termini istruttori e/o di merito, l’eventuale attività svolta dalle parti è affetta da insanabile nullità, che può essere denunciata anche nella fase d’appello o in Cassazione.
Ne conseguirebbe l’inammissibilità delle prove eventualmente assunte e dei documenti depositati unitamente alla memoria ex art. 184 c.p.c. nonché l’irrilevanza delle modifiche alle domande e alle eccezioni.
Si tratta, con tutta evidenza, di una “sanzione” alquanto gravosa anche se, per quanto sopra esposto, inevitabile.
Dott. Sergio Vergottini
Studio Legale Associato Gerosa
Via Aspromonte n. 33 – LECCO
Note:
[1] Sul punto appare di notevole interesse la nota a commento della sentenza resa dalla Pretura Verona, 22 settembre 1998, – Bertagnoli c. Soc. S.C.V. -, in Giur. merito 1999, 712 di ASPRELLA, “Dell’accordo processuale, ovvero della derogabilita’ convenzionale delle fasi che scandiscono il processo ordinario” dal quale si riportano i seguenti passaggi: “.
[2] “Quando nell’udienza prevista dall’art. 183 c.p.c., per l’assenza delle parti e la mancanza d’ogni iniziativa dei loro difensori non si sia svolta nessuna attivita’ di trattazione della causa, non e’ ammissibile una “emendatio libelli” e pertanto va disattesa l’istanza di fissazione d’un termine per il deposito di memoria contenente tale emendatio” (Tribunale Pavia, 15 febbraio 1999, – Soc. Nuova Civardi c. Soc. S.I.B -, in Giur. merito 1999, 711
[3] “Agli effetti della norma di cui al comma 2 dell’art. 157 c.p.c., che impone alla parte che vi abbia interesse di eccepire la nullita’ di un atto nella prima istanza o difesa successiva all’atto od alla notizia di esso, il termine istanza deve ritenersi comprensivo di qualsiasi richiesta delle parti tendente ad ottenere anche un semplice atto ordinatorio, quale e’ il provvedimento di rinvio della udienza istruttoria. Conseguentemente, e’ tardiva la eccezione di nullita’ della consulenza tecnica che non sia stata dedotta nella udienza successiva al deposito della consulenza stessa, ancorche’ in detta udienza sia stato chiesto e disposto un mero rinvio” (Cassazione civile Sezione III, 1 agosto 1995 n. 8383, – Tagliavini c. Morini -, in Giust. civ. Mass. 1995,1455
[4] “Ai fini della proposizione dell’appello incidentale, l’espressione “prima udienza” contenuta nell’art. 343 c.p.c. indica l’udienza di comparizione nella quale vi sia stato lo svolgimento di attivita’ processuale, anche se limitata ad un provvedimento di mero rinvio della trattazione ad un’udienza successiva, con la conseguenza che in tale udienza non puo’ essere piu’ proposto l’appello incidentale, anche se il rinvio era stato disposto con la formula della “salvezza dei diritti di prima udienza”. L’inosservanza del termine della prima udienza per la proposizione dell’appello incidentale, essendo destinato a disciplinare l’ammissibilita’ dell’impugnazione, che e’ materia di ordine pubblico, sottratta alla disponibilita’ delle parti, puo’ essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, col solo limite del giudicato conseguente alla mancata impugnazione della pronuncia esplicita in ordine all’ammissibilita’ dell’appello” (Cassazione civile Sezione I, 16 novembre 1994 n. 9655, – Pepe e altro c. Fall. Coples -, in Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11).
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