Il caso
Con la sentenza in commento, che si iscrive in un contesto giurisprudenziale oramai sufficientemente definito, la Corte d’Appello di Messina ha riformato la precedente pronuncia di condanna del Tribunale di Patti del 22 Giugno 2020, che aveva condannato il datore di lavoro per il delitto di appropriazione indebita aggravata (artt. 61 n. 11 e 646 c.p.), riqualificando il fatto secondo il paradigma dell’art. 316 ter c.p. e pronunciando assoluzione perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, in considerazione del mancato superamento della soglia di rilevanza penale, come prevista dall’ultimo comma del citato articolo.
In dibattimento era emersa l’unica modalità di attuazione della condotta in questione da parte del datore di lavoro: ossia la trasmissione periodica del modello Uniemens (ex DM10) ed il successivo operato conguaglio, a proprio favore, delle somme apparentemente anticipate al lavoratore (ai sensi dell’art. 1 del DL n. 633 del 1979) per assegni familiari, indennità di malattia o di maternità, in realtà mai corrisposte.
L’appellante aveva interposto appello avverso la pronuncia del Tribunale, obiettando che mediante la falsa rappresentazione all’INPS di aver erogato ai lavoratori somme in realtà non corrisposte, il datore di lavoro realizza sicuramente l’ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che egli assume, contrariamente al vero, di aver anticipato, ma che tale condotta va sussunta nell’alveo del delitto di cui all’art. 316 ter c.p. e non, per converso, in quello di appropriazione indebita aggravata (o truffa).
Rammentava infatti che già la Corte di Cassazione aveva ricondotto il fatto in quello tipico di cui all’art. 316 ter c.p., chiarendo che“… deve ritenersi che il delitto di cui all’art. 316 ter c.p., prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il delitto di truffa. Ciò che è richiesto dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p., è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (ovvero l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, da cui derivi cioè il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto. Tali erogazioni, poi, possono consistere indifferentemente o nell’ottenimento di una somma di danaro oppure nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta. Così configurata la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p., nella latitudine riconosciutale dalla giurisprudenza, deve ritenersi che nella stessa va inquadrata la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia o maternità o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni. Come si è detto, infatti, l’erogazione che costituisce elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 316 ter c.p., può consistere semplicemente nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, e non deve necessariamente consistere nell’ottenimento di una somma di danaro. Il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’I.N.P.S. (sulla base dei dati indicati sui modelli DM10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto, venendo così – tramite il mancato pagamento di quanto altrimenti dovuto – a percepire indebitamente l’erogazione dell’ente pubblico. Può affermarsi, pertanto, il seguente principio di diritto: “Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316 ter c.p., la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia o maternità o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, cosi percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni” (cfr. Cass. Pen. II, 17/10/2014, n. 48663).
Un inquadramento confermato successivamente dalla stessa Suprema Corte con le pronunce della Seconda Sezione Penale n. 15989 del 16/03/2016 e n. 7594 del 24/01/2019.
La decisione della Corte d’Appello di Messina
La Corte d’Appello di Messina, nell’accogliere l’impugnazione formulata dalla difesa dell’imputato, ha richiamato espressamente la sentenza n. 7462 del 21 novembre 2019, pronunciata dalla VI Sezione Penale della Corte di Cassazione (“Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p., la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali”), motivando nel senso della impossibilità di inquadrare la condotta contestata sotto altro titolo di reato, diverso da quello di cui all’art. 316 ter c.p.
Del resto la ancor più recente pronuncia della Seconda Sezione Penale, n. 7462 del 25/02/2020, aveva ulteriormente chiarito i contorni di tale inquadramento, specificando che: “E’ stato affermato che integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter cod. pen., e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione ex art. 10-quater D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, cosi percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni (Sez. 2, n. 15989 del 16/03/2016, Fiesta, Rv. 266520). Con detta decisione è stato chiarito che <<Il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’I.N.P.S. (sulla base dei dati indicati sui modelli DM10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto, venendo cosi – tramite il mancato pagamento di quanto altrimenti dovuto – a percepire indebitamente l’erogazione dell’ente pubblico… Osserva la Corte che la compensazione dei contributi dovuti all’INPS avviene sulla base di dichiarazioni mensili (sulle modalità, v. S.U. Sez. U, n. 10424 del 18/01/2018, Del Fabro, Rv. 272163). Con il modello DM 10 il datore di lavoro prospetta mensilmente all’Inps le retribuzioni pagate, i contributi dovuti e il conguaglio con prestazioni anticipate al lavoratore. Pertanto, facendo figurare una falsa anticipazione, il datore di lavoro omette di versare i contributi, prelevati al lavoratore in busta paga (versamento che va effettuato con F24 nel il termine del giorno 16 del mese successivo a quello dei contributi)”.
Se dunque, nell’ultimo decennio, la questione del corretto inquadramento giuridico della condotta in questione ha dato adito ad un qual certo vivace dibattito ed a discordanti pronunce, pare oramai che anche la giurisprudenza di merito si stia via via del tutto uniformando agli indirizzi espressi dalla Corte Regolatrice.
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