E’ questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, con sentenza n. 17726 del 6 luglio 2018, nell’ambito di un giudizio di opposizione, instaurato da due clienti, al decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato per i propri compensi professionali .
Confermata dunque la statuizione della Corte d’Appello, secondo cui, ritenuta valida la stipula del patto di quota lite in virtù dell’art. 2 D.L. 223/2006, le parti ben potevano derogare anche ai compensi tariffari massimi. Al riguardo, difatti, i Giudici territoriali avevano evidenziato che la previsione della possibilità di pattuire compensi “sganciati” dalla tariffa professionale e riferiti al risultato perseguito ed ottenuto (art. 2, comma 1 lett. a cit. D.L.) non poteva che comportare anche la possibilità di superare i massimi tariffari.
Patto di quota lite, excursus normativo
Così anche per la Corte di Cassazione, che tuttavia non manca di ricostruire, preliminarmente, l’excursus normativo dell’istituito del patto di quota lite. L’art. 2233 c.c. – rammenta – nella formulazione precedente all’entrata in vigore del D.L. n. 223/2006 (c.d. Decreto Bersani), prevedeva il divieto per gli avvocati, i procuratori ed i patrocinatori, di stipulare con i loro clienti il c.d. “patto di quota lite”, ossia, come recitava lo stesso art. 2233 c.c., un “patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio sotto pena di nullità e dei danni“. La ratio di tale divieto stava nell’esigenza di tutelare l’interesse del cliente nonché la dignità e la moralità della professione forense, impedendo la partecipazione del professionista agli interessi economici esterni della prestazione.
Il menzionato D.L. n. 223/06, convertito in Legge n. 248/06, al fine di tutelare la concorrenza nel settore dei servizi professionali, ha abrogato tutte le disposizioni che prevedevano, con riferimento alle attività libero professionali ed intellettuali, “l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti” (art. 2, comma 1 lett. a), facendo salve le disposizioni riguardanti “le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti“; espressamente eliminando, pertanto, il divieto di patto di quota lite, fatto salvo l’obbligo di dare all’accordo la forma scritta.
L’art. 9 del D.L. 24-1-2012, convertito in Legge n. 27/12, ha poi previsto l’abrogazione definitiva delle tariffe delle professioni regolamentate, facendo così venir meno oltre i minimi anche i massimi ed introducendo una nuova disciplina del compenso professionale. Con particolare riferimento alla professione forense, la legge professionale (Legge n. 247/12), pur stabilendo che “la pattuizione dei compensi è libera” (art. 2, comma 3), ha poi previsto per i compensi la possibile pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento ed ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello personale, il destinatario della prestazione (art. 13 comma 3). Ha altresì previsto esplicitamente, all’art. 13, comma 4, il divieto dei “patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”, reintroducendo in questo modo il divieto del patto di quota lite.
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Patto di quota lite anche oltre il massimo tariffario
Se questo è il quadro legislativo, e ribadito che nel caso di specie il patto di quota lite è soggetto alle disposizioni – per l’arco temporale in cui è intervenuto – del sopra menzionato D.L. n. 223/06, la questione principale da chiarire è se con il detto patto, espressamente consentito dalla norma, si possa o meno superare il massimo tariffario.
E sul punto la Corte Suprema ha risposto che la previsione dell’art. 2, comma 1 lett. a) D.L. 226/2006, eliminando in modo “secco” ed univoco il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, non impone l’osservanza dei massimi tariffari. Ciò, soprattutto perché l’art. 2233 c.c. pone una gerarchia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione dell’onorario spettante al professionista, considerando prima di tutto l’accordo delle parti e, solo in mancanza di convenzioni, le tariffe professionali, gli usi e la decisione del giudice. Le tariffe massime, in altre parole, hanno un ruolo sussidiario e recessivo rispetto all’accordo delle parti, e continuano ad essere obbligatorie, in base al disposto dell’art. 2, comma 2, D.L. cit., solo nel caso in cui tra avvocato e cliente non sia stato concluso un patto.
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