Compenso del praticante avvocato, tra statistiche e proposte di legge

Redazione 04/04/18

Il praticante deve essere retribuito?

L’art. 41 comma 11 della Legge professionale (L. n. 247/2012) stabilisce che “ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato, decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”. La presente norma dunque – confermata poi con Decreto ministeriale n. 70/2016 – non rende di fatto obbligatoria la retribuzione (salvo il rimborso spese), né individua alcuna cifra minima di riferimento.  A porre rimedio, almeno nelle intenzioni, ci pensa il Codice deontologico forense, art. 40, stabilendo che, “l’avvocato deve fornire al praticante un idoneo ambiente di lavoro e, fermo l’obbligo del rimborso delle spese, riconoscergli, dopo il primo semestre di pratica, un compenso adeguato, tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio”.

Questa seconda norma, quindi, impone un vero e proprio dovere, a carico dell’avvocato, di compensare la collaborazione del praticante in proporzione all’apporto ricevuto. Tuttavia si stima che in circa l’80% dei casi la stessa non venga rispettata, complice anche l’assenza di effettivi controlli e conseguenti sanzioni. Così, molto spesso, il primo periodo di pratica normativamente esente da compenso, viene fatto coincidere con l’intero arco temporale di tirocinio forense, secondo un’interpretazione che pone nel nulla la disposizione deontologica. Senza contare che, nella gran parte dei casi, al praticante avvocato è resa assai difficile qualsiasi forma di tutela, posto che le autorità preposte al controllo ed alla repressione sono gli stessi Ordini di appartenenza, con il conseguente discredito che il praticante rischia di subire se si avventura in simili azioni disciplinari.

Compenso ai praticanti: la situazione in Italia

Sebbene non esistano vere e proprie rilevazioni ufficiali, la situazione del compenso ai praticanti nel nostro territorio nazionale risulta a macchia di leopardo. In alcune realtà del nord Italia (ad esempio Milano) si stima che un praticante in uno studio tradizionale possa guadagnare, nel periodo iniziale, circa 500 euro al mese. Nei grandi studi d’affari internazionali la retribuzione può arrivare fino a 1.500 – 2.000 euro al mese a fronte di un impegno orario di lavoro molto elevato. Ma si tratta di realtà minoritarie, in quanto nella maggior parte degli studi (la prassi è più diffusa nel Mezzogiorno) il compenso non è affatto corrisposto. E questo anche a fronte di un impegno, talvolta, di 8 – 10 ore giornaliere, sovente con l’obbligo di dover concordare con il dominus i tempi per ogni minima attività personale fuori dallo studio.

La Cassa nazionale forense non dà indicazioni specifiche in ordine ai praticanti, ma fornisce dati piuttosto interessanti circa i redditi professionali a inizio carriera, una volta superato l’esame di stato. Il giovane avvocato, appena intrapresa la professione, arriva a percepire di media 10.000 euro all’anno, ovvero meno di un quinto del reddito medio professionale degli avvocati.

Ma tornando agli aspiranti avvocati, e facendo un confronto con altre categorie professionali affini (ad esempio commercialisti e notai), la situazione appare abbastanza simile per i praticanti che lavorano presso studi di commercialisti, i quali offrono generalmente un rimborso di 500/600 euro al mese, con progressione scalare lungo la durata della pratica. In alcuni casi ed in specifiche zone geografiche (solitamente al Nord Italia), per curriculum brillanti, si arriva a percepire sino a 1.000 – 1.500 euro al mese. Ma, anche qui, si tratta di casi piuttosto sporadici in quanto, in diverse circostanze, non è prevista alcuna remunerazione o rimborso.

La pratica notarile, magari anche senza un compenso, porta però, una volta divenuti professionisti affermati, a ben elevate prospettive economiche, con importi medi – stimati dal Consiglio nazionale notarile – che si aggirano intorno ai 250.000 euro l’anno. La pratica pertanto, pur senza guadagno, può essere vista come un ottimo investimento, senza tuttavia tralasciare di considerare le lungaggini del sistema, che fanno sì che la stessa si protragga ben oltre i 18 mesi previsti. Occorre infatti attendere il primo bando di concorso disponibile che, oltre ad essere particolarmente selettivo (con una minima percentuale di promossi) non è a cadenza determinata. Infine i risultati del concorso arrivano di solito dopo molto tempo, tanto che tra la prova scritta e quella orale possono decorrere anche due anni.

E’ invece risaputo che per gli avvocati, specie con la crisi, la pratica non è affatto foriera, dopo il superamento dell’esame di stato, di una sicura carriera in salita, tanto che non sono pochi i neoavvocati pur freschi di titolo che, spaventati dalle limitate prospettive economiche, scelgono di cambiare mestiere.

 

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Segnalazioni, dibattiti e proposte di legge

A causa di tale situazione, spesso poco favorevole per gli aspiranti avvocati italiani (in altri Paesi d’Europa come Germania e Regno Unito è previsto un compenso minimo per legge) ed a seguito delle numerose segnalazioni, si parla ormai da anni di introdurre modifiche alla normativa, anche se sino ad ora non è stato fatto nulla di concreto.

A tal proposito, si segnala la proposta di legge presentata nel 2015 dall’onorevole Andrea Mazziotti, allora Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati nonché professionista socio di uno studio legale. Una proposta volta a sradicare un fenomeno che lo stesso Onorevole ha definito in più occasioni un “unicum” del nostro Paese, e che mira non solo ad introdurre un minimo retributivo per i praticanti avvocati (così come per quelli degli studi notarili e di commercialisti) ma altresì a regolamentare i rapporti di collaborazione tra tirocinante e studio mediante apposito contratto. “Diversamente – riporta lo stesso avvocato e parlamentare – perseverare in questa situazione finisce per svilire la laurea ed il titolo professionale, favorendo chi approfitta della condizione di necessità e dipendenza dei professionisti più giovani”.

Si aggiunga per di più che il fenomeno della pratica forense senza compenso suscita da anni dibattiti ed attenzioni non solo a livello parlamentare ma anche da parte degli stessi professionisti. L’Aiga (Associazione italiana giovani Avvocati) ha denunciato il fenomeno a più riprese, evidenziando, nello specifico, che il rimborso solo facoltativo che spetta al praticante dopo i primi sei mesi, “cessa al termine del periodo di pratica, lasciando completamente scoperti quei giovani che attendono di fare l’esame d’avvocato oppure che lo hanno superato, ma che continuano a frequentare lo studio ed a lavorare a tempo pieno per il dominus. Si tratta dunque di rapporti di collaborazione che di autonomo non hanno nulla e che coinvolgono un elevatissimo numero di giovani in ogni regione italiana, i quali si trovano costretti a rimanere in tali studi alle sostanziali “dipendenze” dei loro domini, senza alcuna forma di tutela e senza il riconoscimento di un compenso che sia effettivamente commisurato all’apporto che il giovane riesce a dare allo studio”. Un meccanismoaccusano i giovani legali per il tramite dell’Avv. Dario Greco, Presidente Aiga 2011/2014 – “che impedisce ogni prospettiva di crescita e di progressione di carriera del giovane, oltre a costituire una vera e propria emergenza sociale”.

Sulla stessa linea, nel 2016, la Presidente dell’Associazione italiana giovani Avvocati di Bergamo Marta Savona, con una lettera aperta al relativo Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, ha espresso la propria preoccupazione per la tutela dei giovani avvocati, chiedendone più vigilanza. L’Aiga, in particolare, ha dato conto delle ripetute e non isolate segnalazioni pervenute all’Associazione da cui si evince – si legge nella lettera – che “il praticantato è sovente considerato uno strumento per reperire manodopera a costo zero per mansioni di segreteria, piuttosto che come un tirocinio qualificato in cui il dominus mette a disposizione le sue conoscenze e la sua esperienza al fine di formare futuri professionisti. La prassi purtroppo seguita da una parte degli Avvocati del foro è, da un lato, pretendere dai praticanti una disponibilità oraria corrispondente all’intera giornata di lavoro, con obbligo di concordare con il dominus ogni minima attività personale al di fuori dello studio. Dall’altro lato, molto spesso non viene rifuso nemmeno il rimborso spese di cui all’art. 41 comma 11 Legge Professionale, il quale dovrebbe comprendere quantomeno il rimborso delle spese di trasporto da e verso lo studio legale, nonché ovviamente le spese sostenute per recarsi presso gli uffici giudiziari per svolgere le attività di studio. Ancor meno, e anche ben oltre il primo semestre di pratica, il dominus corrisponde al praticante quella ‘indennità o compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato’, previsti dalla sopra citata norma. Infine, molto spesso, al termine del praticantato e magari una volta conseguito il titolo, il dominus interrompe la collaborazione adducendo proprio motivi economici che non gli permettono di retribuire il collaboratore divenuto avvocato, introducendo poi una nuova figura anch’essa non retribuita, così viziando il mercato. Ad evidenziare che il percorso del praticantato non viene percepito come periodo di formazione per integrare una nuova figura professionale in studio, lasciando senza prospettive tanti giovani avvocati. Tale diffusa situazione svilisce, certamente, la condizione dei praticanti, ma altresì quella di tutti gli iscritti all’Ordine, rimandando anche all’esterno della categoria un’immagine poco conforme agli ideali di dignità, decoro ed onore della professione. E ciò, ovviamente, va anche a detrimento degli avvocati per così dire virtuosi, che magari con sacrifici retribuiscono i propri collaboratori, subendo la “concorrenza sleale” di quanti a costo zero si garantiscono una struttura di back-office”.

Con queste parole l’Aiga, da una parte si è fatta portatrice di una proposta di legge volta a stabilire, con decreto ministeriale, un importo minimo da garantire ai praticanti avvocati, decorsi sei mesi dall’inizio della pratica. Dall’altra, ha introdotto una sorta di verifica interna al Consiglio dell’Ordine, ossia la prassi di convocare innanzi al Consigliere delegato, in occasione del controllo semestrale del libretto di pratica, non solo il praticante ma anche il proprio dominus, al fine di approfondire, oltre agli altri aspetti del tirocinio, anche quello legato alla corresponsione del compenso.

Non può infine tacersi l’importante intervento del Ministero della Giustizia, il quale, dopo aver ribadito come i tirocinanti vadano d’obbligo retribuiti dai propri dominus, prende tuttavia atto di una legge professionale lacunosa sul punto e di linee di principio che rendono di fatto la retribuzione de quo ancora un privilegio destinato ad una minoranza di aspiranti avvocati. Ciò detto, il medesimo Ministero ha deciso di stanziare, con Decreto del 30 dicembre 2016, dei finanziamenti per la corresponsione di borse di studio di 400 euro mensili a favore dei praticanti interessati a svolgere tirocini formativi presso gli uffici giudiziari.  Ha poi provveduto alla pubblicazione di un elenco di aventi diritto alla suddetta sovvenzione, avendo raggiunto una posizione utile sulla graduatoria stilata – prioritariamente in base all’Isee – a livello nazionale. Con la presente misura il Ministero ha inteso non solo dare maggiore respiro agli uffici giudiziari in perenne carenza di organico, ma altresì fissare una sorta di minimo retributivo (400 euro mensili) a tutela dei praticanti avvocati. Ciò che per il momento pare essere rimasta solo un’intenzione.

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