Il reato di diffamazione previsto e punito dall’articolo 595 del codice penale, consiste nel fatto di chi, comunicando con più persone, offende la reputazione di una persona non presente.
La diffamazione risulta inquadrata tra i delitti contro l’onore e punisce chiunque, fuori dai casi ricompresi dalla figura dell’ingiuria prevista e punita dall’art. 594, c.p., …”offenda l’altrui reputazione comunicando con più persone”.
L’oggetto giuridico di tale delitto è la reputazione, intesa come la stima di cui l’individuo gode nel proprio ambiente sociale e professionale.
La “reputazione” (o riputazióne) s. f. [der. di reputare]. –1. letter. Il fatto di reputare, la stima, il favore che si concede a uno: [la plebe] volse la sua riputazione a Mario, tanto che la lo fece quattro volte consule (Machiavelli). 2. Il fatto di essere reputato, la stima e la considerazione in cui si è tenuti da altri: come avvocato gode buona, ottima r.; si è procurato una pessima r.; qui in paese ha cattiva r.; r. d’avaro, d’incostante; è una ditta di solida reputazione. Assol., sempre in senso positivo, buono: debbo difendere la mia r.; quelle calunnie gli hanno fatto perdere, gli hanno rovinato la r.; parea che ti scemasse l’onore e la riputazione (Leopardi); è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare (Manzoni)1.
La reputazione, nel contesto dei delitti contro l’onore in special modo nell’ambito del delitto di diffamazione, non risiede in uno stato o sentimento individuale, indipendente dal mondo esteriore, nè tanto meno dal semplice amor proprio: la reputazione è il senso della dignità personale nell’opinione degli altri, un sentimento limitato dall’idea di ciò che, per la comune opinione, è socialmente esigibile da tutti in un dato momento storico. Ergo, nel delitto di ingiuria ex art. 594, c.p., viene tutelato l’onore in senso soggettivo, inteso come opinione o sentimento che un soggetto ha delle proprie qualità personali, mentre nel delitto di diffamazione viene protetto l’onore in senso oggettivo, visto come la stima che la persona offesa riscuote presso gli altri membri della comunità. In particolare, è affermato che nel delitto di diffamazione l’offesa alla reputazione può anche consistere nell’aggressione alla sfera del decoro professionale2.
L’elemento materiale nel reato di diffamazione, richiede: l‘assenza dell‘offeso; l‘offesa all‘altrui reputazione; la comunicazione a più persone.
Quindi, la diffamazione si distingue dall’ingiuria perché solo per l’art. 594 c.p. la presenza dell’offeso, all’atto della realizzazione della condotta, è elemento costituivo della fattispecie.
Il terzo comma, dell’art. 595, c.p., prevede un’aggravante con previsione di autonoma misura di pena anche per l’ipotesi in cui l’offesa sia veicolata attraverso “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa e, pertanto, anche tramite Internet. E’ appena il caso di precisare che l’elemento della “presenza” (o della percezione), della persona offesa ha portato ad altalenanti orientamenti circa la qualificazione giuridica del fatto come ingiuria ovvero come diffamazione. Secondo il Manzini “se l’offeso fosse presente il fatto costituirebbe delitto di ingiuria ancorché all’offesa assistessero altre persone”.
Delle problematiche sono sorte, pure riguardo alla competenza territoriale per il reato di diffamazione a mezzo internet.
La giurisdizione penale è ripartita tra gli organi titolari del potere di giudicare in base a vari criteri di competenza. In breve, trattando della competenza ovvero la quantità di giurisdizione che ogni organo giudiziario può esercitare in concreto, essa è limitata in base a dei criteri, quali quello funzionale, quello per materia ed infine quello per territorio. Così abbiamo:
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Competenza funzionale: è la ripartizione in base al grado e allo stato del processo, con la quale si assegnano le indagini preliminari al GIP, l’udienza preliminare al GUP, il primo grado dibattimentale al tribunale o alla Corte d’assise, il secondo alla Corte d’Appello e l’ultimo alla Corte di Cassazione ;
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Competenza per materia: è la ripartizione in base al tipo di reato da giudicare. Innanzitutto l’art.5 c.p.p. individua la competenza della Corte d’Assise, che giudica i delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o una reclusione di 24 anni, esclusi i delitti di tentato omicidio, rapina ed estorsione, con qualsiasi aggravante, nonché i delitti previsti dall’art.630 c.p. e dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 modificato dalla legge 21 aprile 1999 n.29, dai delitti consumati enunciati dagli artt. 579, 580 e 584 c.p. e da ogni delitto doloso se ha cagionato la morte di qualcuno, salvo per le ipotesi previste dagli artt.586, 588 e 593 c.p. Il giudice di pace giudica nei casi previsti dall’art.4 del d.lgs. 28 agosto 2000 n.274. Il tribunale in via residuale del resto
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Competenza territoriale: è l’ultima ripartizione, operante dopo l’individuazione della materia, fra i vari distretti geografici. L’art.8 c.p.p. sancisce le regole per la determinazione del giudice territorialmente competente. Innanzitutto, è competente il giudice del luogo ove è stato consumato il reato. Se a causa del reato è morto qualcuno, però, competente è il giudice dell’avvenuta azione od omissione. Nel caso di reato permanente è competente in ogni caso il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, mentre nel caso di delitto tentato è competente il giudice dell’ultimo atto. L’art.9 soccorre i principi generali dell’8, qualora non sono determinabili i criteri d’individuazione: il giudice competente è innanzitutto quello dell’ultimo luogo noto in cui si è svolta parte dell’azione, e qualora non fosse comunque conoscibile, competente è il giudice della residenza, della dimora oppure del domicilio dell’imputato. Se anche in questo caso fosse impossibile risalire a un criterio, competente è il giudice della sede del PM che per primo ha iscritto la notizia di reato.
L’art.10 c.p.p. disciplina la competenza per i reati commessi all’estero. I tipi di competenza possono essere ovviamente derogati dal criterio di connessione.
Per quanto concerne, il reato di diffamazione a mezzo internet ex art. 595, 3° comma, c.p., una premessa è d’obbligo per poter comprendere la problematica concernente la competenza territoriale.
Considerando la sempre maggiore diffusione delle nuove tecnologie informatiche, che ha posto, in passato, il legislatore nella difficoltà ad approntare un’adeguata tutela dei diritti della personalità, attesa l’assenza di un’apposita disciplina che non consentiva di reprimere condotte che, se pur meritevoli di condanna, non erano previste come ipotesi di reato, ciò ha portato il legislatore ad emanare la legge n.547/1993, la quale ha introdotto nuove fattispecie di reato, volte proprio a contrastare i c.d. reati informatici, vale a dire quei reati lesivi della libertà informatica degli utenti.
Tra i diritti della personalità facilmente aggredibili, in questa prospettiva, vi è il diritto alla reputazione, minacciabile mediante la diffusione di notizie false o diffamatorie ai danni di un soggetto, attraverso il mezzo di internet, che consente una capillare e rapidissima diffusione in ogni angolo del mondo dei contenuti in esso pubblicati.
In particolare, per quanto riguarda la diffamazione a mezzo internet e la normativa sulla stampa, la dottrina e la giurisprudenza si sono domandate se tale reato non debba più correttamente essere inquadrato e disciplinato alla stregua di ipotesi particolari, analogamente alla diffamazione a mezzo stampa o a mezzo di trasmissioni radio-televisive. Dapprima ci si è chiesti se si potesse direttamente richiamare la normativa sulla stampa e sulle trasmissioni radio-televisive. L’orientamento prevalso è stato di segno negativo scaturito dall’insormontabile divieto di analogia in malam partem vigente in materia penale. Un chiaro ostacolo all’interpretazione anzidetta è costituito proprio dalla definizione, espressamente dichiarata dalla giurisprudenza dominante insuscettibile di interpretazione estensiva, di stampato, data dallo stesso art. 1, l . n.° 47 del 1948, che fa riferimento a tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici; appare evidente l’incompatibilità della suddetta definizione con le modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo internet, che avvengono attraverso la collocazione di dati ed informazioni trasmessi per via telematica, tramite l’utilizzo della rete telefonica, al server di un cosiddetto provider o webmaster, accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente, presso il quale le informazioni restano a disposizione nei diversi siti in modo tale che ciascun interessato può leggerle e conservarle mediante il proprio computer. Peraltro, alla luce delle pur generiche definizioni contenute nella normativa sovranazionale di riferimento, è di tutta evidenza come, in ossequio al principio di stretta legalità, le trasmissioni via internet non possano che ritenersi estranee alle previsioni penali relative alla radio-televisione, poiché esse avvengono con modalità del tutto differenti, e dunque incomparabili, rispetto alle trasmissioni oggetto della regolamentazione operata dalla normativa in esame. Tuttavia, uno spiraglio per un’equiparazione di internet agli altri mezzi di comunicazione è stato fornito dalla l. 7 marzo 2001, n.° 62 sul diritto d’autore, la quale, se pur ad altri fini, fornisce una definizione di prodotto editoriale che si estende sino a ricomprendere qualsiasi prodotto su supporto cartaceo o su supporto informatico destinato a pubblicazione o diffusione con ogni mezzo anche elettronico. Alcuni giudici di merito hanno affermato che il sito internet deve essere ritenuto prodotto editoriale ai sensi dell’art. 1, l . n.° 62 del 2001, in quanto prodotto realizzato su supporto informatico destinato alla diffusione di informazioni con mezzo elettronico attraverso l’immissione nella rete mondiale, accessibile in pratica a chiunque, di una serie di opinioni e informazioni.
Sul punto è altresì intervenuta un’ulteriore pronuncia di merito3 che, ritenendo insuperabili le molteplici e rilevanti obiezioni ad un’equiparazione, quantomeno in campo penalistico, tra internet e stampa, riafferma l’incompatibilità delle caratteristiche tecniche di internet con la definizione di stampato fornita dalla l. n.° 47 del 1948, non potendosi ignorare come il concetto di riproduzione, che ne costituisce il fulcro, presupponga – da un punto di vista logico – una distinzione fisicamente percepibile tra l’oggetto da riprodurre e le sue riproduzioni, essendo poi indifferente il procedimento fisico-chimico mediante il quale la riproduzione viene posta in essere.
Al contrario, il testo pubblicato su sito internet non può in alcun modo essere considerato una riproduzione, poiché il relativo file si trova in unico originale sul sito stesso, e può essere consultato dall’utente mediante l’accesso al sito.
I files pubblicati su internet non sono, in realtà, riproduzioni, ma documenti informatici originali. La citata pronuncia giurisprudenziale può, del resto, giovarsi del conforto di autorevole dottrina la quale, sin dagli albori della vexata quaestio, ha coerentemente evidenziato come, pur essendo innegabile che la nozione di comunicazioni telematiche includa un’attività di stampa, essa sia da considerare meramente eventuale e qualora abbia luogo è in ogni caso il soggetto utente a decidere se stampare e cosa stampare, riproducendo l’intero documento o solo parte di esso; peraltro, non si può ignorare come esistano anche comunicazioni telematiche insuscettibili di tale operazione, quali i messaggi audio o video. Inoltre, si evidenzia come l’art. 1, l . n.° 47 del 1948, individua come proprio campo di applicazione le riproduzioni tipografiche in qualunque modo destinate alla pubblicazione; tale definizione risulta assolutamente estranea alle comunicazioni telematiche, che utilizzano tecniche completamente diverse. Solo nell’ipotesi in cui lo stampato venisse duplicato e diffuso verso una generalità di soggetti esso potrebbe acquistare rilevanza ai fini del succitato art. 1.
Con riferimento alla diffamazione a mezzo internet e l’aggravante speciale per offese commesse con un qualsiasi mezzo di pubblicità, ex art. 595 comma 3 c.p., l’ orientamento giurisprudenziale ormai dominante, consolidatosi a seguito di una pronuncia intervenuta in tal senso da parte della Suprema Corte4, è incline a sussumere la diffamazione a mezzo internet in un’ipotesi aggravata, riveniente non già dall’applicazione della disciplina sulla stampa o sulla radio-televisione, bensì dello stesso art. 595 c.p., che al comma 3 prevede un’aggravante speciale per l’offesa “recata…con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Tuttavia, parte della dottrina dubita che internet sia pacificamente riconducibile all’estensione semantica dell’espressione altro mezzo di pubblicità, contenuta nell’art. 595, comma 3, c.p.; ad avviso di alcuni autori, invero, l’estensione numerica degli utenti raggiungibili dal messaggio diffamatorio è al più suscettibile di incidere in sede di esercizio del potere discrezionale del giudice in sede di commisurazione della pena ex art. 133 c.p., ma non può in alcun modo fungere di per sé da elemento di distinzione fra un mezzo normale di comunicazione e un mezzo di pubblicità, poiché il requisito della comunicazione con più persone richiede, in ogni caso, una potenzialità divulgativa: al contrario, la distinzione dovrebbe fondarsi su un connotato valutabile aprioristicamente, che qualifichi il mezzo divulgativo utilizzato in base alla sua natura e non al risultato in concreto sortito sul presupposto di un dato variabile come la consistenza numerica effettiva delle persone raggiunte dal messaggio. In altre parole, si può affermare che l’estensione numerica degli utenti raggiungibili dal messaggio diffamatorio non è decisiva ai fini della configurazione dell’aggravante in questione.
Con riferimento alla questione del locus commissi delicti e la giurisdizione, è evidente che nessuna difficoltà insorge in ipotesi di reato commesso agendo dall’Italia in collegamento con un server parimenti installato in Italia, essendo il fatto interamente commesso nel territorio italiano e, conseguentemente, punibile alla stregua del principio generale di territorialità.
Analogamente, se l’agente opera in e dall’Italia su un server installato all’estero sussiste la giurisdizione italiana ex art. 6, comma 2, c.p., alla stregua del quale il reato si considera compiuto in Italia.
Al contrario, la problematica si presenta in relazione ai casi in cui l’agente opera all’estero, e all’estero è pure collocato il server al quale egli accede, ove si rifletta che il messaggio è ricevuto, oltre che nel resto del mondo, anche in Italia.
Il reato di diffamazione : di mera condotta o di evento?
In un primo momento, le pronunce dei giudici di merito in materia di diffamazione avvenuta a mezzo internet per tramite di server allocato all’estero sono state concordi nel ravvisare il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana.
Tanto, sulla scorta della considerazione che se la diffusione dei contenuti diffamatori è avvenuta fuori dai confini dello Stato italiano, anche la consumazione del reato deve ritenersi avvenuta all’estero, poiché la diffamazione si consuma nel momento in cui si verifica la diffusione della manifestazione offensiva diretta a più persone. Altra dottrina argomenta dal differente presupposto che nel reato di diffamazione, istantaneo e di pura condotta, la condotta consista nella comunicazione con più persone e la consumazione avvenga solo nel momento in cui i destinatari percepiscono le espressioni diffamatorie, poiché la percezione non è l’evento del reato, ma ne è elemento costitutivo, in quanto fa parte della condotta dell’agente: essa non integra il danno, che, viceversa, si verifica nel momento in cui l’interessato, percependo le espressioni offensive che lo riguardano (ma che sono dirette a terze persone), sente lesa la propria reputazione.
Sulla scorta di tali premesse, questo secondo orientamento dottrinale giunge all’opposta conclusione per cui il reato (ma non il danno) si è perfezionato nel momento in cui il messaggio, diffuso sul sito, viene percepito da una pluralità di persone che a detto sito accedono; essendo la percezione del contenuto offensivo dei messaggi avvenuta in Italia, il reato dev’essere considerato come commesso sul territorio italiano, alla luce del disposto dell’art. 6 c.p. e del c.d. principio d’ubiquità.
Un ulteriore orientamento, da ultimo autorevolmente avallato da una pronuncia della Suprema Corte, è incline a considerare la diffamazione un reato di evento, inteso quest’ultimo come avvenimento esterno all’agente, sebbene collegato al comportamento di costui, consistente nella percezione da parte del terzo (rectius, dei terzi) dell’espressione offensiva; la percezione, conseguentemente, non è un elemento costitutivo della condotta, non essendo in alcun modo ascrivibile all’agente, pur se si configura come una conseguenza del suo operato. In virtù di quanto innanzi esposto, il momento consumativo del reato de quo non è quello della diffusione del messaggio offensivo, bensì quello della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano «terzi» rispetto all’agente e alla persona offesa.
Ben si comprende come, sulla scorta di questo ragionamento, possa giungersi a statuire l’applicabilità della legge italiana.
Configurabilità del tentativo. Una parte minoritaria della dottrina ipotizza che sia configurabile il tentativo nel reato di diffamazione a mezzo internet. Ora, come rilevato anche dalla Suprema Corte, nel caso in cui l’offesa venga arrecata tramite internet, risulta di più agevole e immediata constatazione la differenziazione concettuale tra condotta ed evento, poiché l’evento appare anche temporalmente ben distinto dalla condotta.
Ed invero, in un primo momento si ha l’inserimento in rete da parte dell’agente degli scritti offensivi o denigratori, e, solo in un secondo momento, a distanza di minuti, secondi, ore, giorni, ecc., i terzi, connettendosi con il sito e percependo il messaggio, consentiranno la verificazione dell’evento e, di conseguenza, la consumazione del reato ex art. 595 c.p.
Nell’ipotesi in cui un messaggio dal contenuto diffamatorio venga pubblicato sul web e, per avventura, nessuno abbia la possibilità di prenderne conoscenza, in assenza di percezioni da parte dei terzi del messaggio diffamatorio, l’azione si è evidentemente compiuta e perfezionata, mentre ciò che non si è verificato, impedendo al reato di giungere a consumazione, è innegabilmente l’evento.
Tuttavia, la dottrina prevalente concorda nel ritenere che l’art. 595 c.p., contempli un reato di pericolo c.d. concreto; ed invero, se da un lato non vi è alcuna necessità di accertare che la reputazione o l’onore del soggetto abbiano effettivamente subito un danno per effetto della condotta diffamatoria, pure è essenziale che il giudice accerti, caso per caso, esaminando e valutando il fatto nella sua singolarità storica, nei suoi elementi costitutivi di azione e di evento, al fine di trarre il convincimento della sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi della lesione, che esista quantomeno una rilevante possibilità di verificazione dell’evento temuto.
Altra parte della dottrina prospetta un quadro dogmatico-interpretativo differente, asserendo da un lato che l’effettiva percezione dell’offesa non segna il momento consumativo del reato, non potendo considerarsi la diffamazione un reato di evento, dall’altro che, nel caso di specie ed in altri analoghi, sussiste ugualmente la giurisdizione italiana, dovendosi considerare il reato commesso nel nostro territorio ai sensi dell’art. 6 c.p.
La suddetta dottrina riconosce come, in caso di immissione di materiale diffamatorio in internet, si debba addirittura dubitare se e quando possa dirsi realizzata un’effettiva comunicazione e se questa sia comunque imputabile all’agente, visto che vi è una pluralità indeterminata di destinatari; essi, peraltro, non vengono neppure «avvisati», come avviene invece per il destinatario (determinato) di un’ e-mail, dell’esistenza concreta del messaggio, ma autonomamente possono acquisirne cognizione accedendo ai servers in cui è memorizzato e tanto solo se previamente lo ricercano, con un loro volontario comportamento, pur ignorandone, fino alla totale o parziale lettura, il preciso contenuto ed anzi spesso anche la concreta esistenza5.
In sintesi possiamo ben dire che l’immissione di scritti lesivi dell’altrui reputazione nel sistema internet integra il reato di diffamazione aggravata previsto e punito dall’art. 595 c.p. Comma 3.
Per la consumazione del reato in questione è sufficiente che un soggetto inserisca l’informazione disvoluta dall’ordinamento in un qualsiasi spazio web (es. testata giornalistica on line), messo a disposizione da un provider, per il tramite di un server.
Non occorre poi alcuna identità di tempo né di spazio tra l’autore del reato, ossia tra colui che “pubblica” la notizia o l’articolo ed i potenziali fruitori dello stesso che possono trovarsi a grandi distanze tra loro e venire a conoscenza dello scritto anche molto tempo dopo, ossia quando, per mezzo dei propri terminali, si connetteranno al sito sul quale si trova pubblicato lo scritto diffamatorio.
E quindi, il reato di diffamazione a mezzo internet viene perseguito ricorrendo all’art. 595 del codice penale denominato “diffamazione” nella sua forma aggravata di cui al comma 3°, tradizionalmente utilizzato per la diffamazione a mezzo stampa.
Ma i problemi si presentano quando si tratta di individuare, ai fini della determinazione della competenza territoriale, il locus commissi delicti.
Avuto riguardo alla diffamazione a mezzo stampa il reato si consuma nel luogo di percezione della notizia lesiva dell’onore, che per costante giurisprudenza viene fatto coincidere con il luogo della pubblicazione della testata giornalistica.
Nel caso di internet, il luogo di percezione coinciderà con il luogo della connessione dei vari utenti di internet e pertanto non potrà che farsi coincidere con quello dell’immissione della notizia nella rete.
Tale luogo è di difficilissima identificazione, potendosi trovare persino in un Paese estero, ma tale circostanza non potrà far venir meno la rilevanza penale della condotta quando la notizia venga percepita da utenti italiani (Cass. Pen. Sez. V sent. 4741/00).
Pertanto, una recentissima sentenza della Corte di Cassazione – Cass. Pen. Sez. I 26-04-2011 n. 16307 – chiamata a redimere un conflitto di competenza sollevata dal Gup di Roma e dal Gup di Milano, in tema di diffamazione telematica, osservando che in casi del genere sia impossibile utilizzare criteri “oggettivi unici, quali, ad esempio, quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia della rete, di accesso del primo visitatore, concludeva per l’inapplicabilità delle regole stabilite negli articoli 8 e 9 1° comma c.p.p.”.
Ed inoltre, continua la Corte, “attesa le peculiari modalità di diffusione di notizie lesive dell’altrui reputazione allocate in un sito web, non può neppure sostenersi l’automatica trasposizione dei criteri fissati per i reati di diffamazione commessi con il mezzo della stampa impropriamente valorizzando, al riguardo, le indicazioni in ordine al “luogo di stampa” e a quello di “registrazione” della testata giornalistica contenute sul portale on line.”
Pertanto, in conclusione, la Corte ritiene di ripianare il conflitto ricorrendo ai criteri suppletivi fissati nel 2° comma dell’art. 9 c.p.p., ossia individuando quale giudice competente quello del luogo di domicilio dell’imputato.
In pratica, occorrerà rifarsi al luogo di domicilio del responsabile della testata giornalistica on line nell’ambito della quale è apparso l’articolo diffamatorio.
Medesima soluzione è stata fornita dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n.964/2011, massimata al n.16307/2011 (che si colloca nell’alveo tracciato dalla stessa Prima Sezione con decisione n.2739/2010), la quale ha statuito, in un caso di conflitto positivo di competenza per territorio, che in fattispecie di diffamazione a mezzo Internet, ai fini dell’individuazione del Giudice competente, “sono inutilizzabili, in quanto di difficilissima se non impossibile individuazione, criteri oggettivi unici, quali ad esempio quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia nella rete, di accesso del primo visitatore” ed inoltre che “non è neppure utilizzabile quello del luogo in cui è situato il server (che può trovarsi in qualsiasi parte del mondo), in cui il provider alloca la notizia“. Per tali ragioni, ha concluso la Suprema Corte, “ne consegue che non possono trovare applicazione né la regola stabilita dall’art.8 del c.p.p., nè quella fissata dall’art.9 comma 1 del c.p.p.” ma bisogna “fare ricorso ai criteri suppletivi fissati dal secondo comma del predetto art.9 c.p.p., ossia al luogo di domicilio dell’imputato“.
1http://www.treccani.it/vocabolario/;
2Cass., 17 maggio 1982 n.° 154268;
3 g.i.p. Trib. Aosta, 5 febbraio 2002, n. 22
4 Cass., sez. V, 27 dicembre 2000
5 http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1221
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