Nella letteratura scientifica medica una complicanza è un evento dannoso che insorge durante oppure al termine dell’iter terapeutico, e che si caratterizza per la sua imprevedibilità ed inevitabilità. Nell’ambito giuridico, invece, tale concetto è estraneo al giurista, in quanto lo stesso è chiamato ad indagare le concrete circostanze di fatto e la vicenda clinica del paziente-danneggiato nella sua irrepetibile singolarità.
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Indice
1. Il concetto di complicanza
Fatta esclusione per i rari casi di dolo, la più frequente ipotesi di responsabilità sanitaria è quella conseguente ad un errore (responsabilità colposa). E’ necessario distinguere tra danni che sono considerati conseguenza normale ed inevitabile di un intervento, e che quindi non sono dovuti alla colpa dei sanitari che l’hanno praticato, e danni che invece sono dovuti ad un intervento mal eseguito e quindi costituiscono un errore del sanitario.
A tal fine è importante chiarire innanzitutto il concetto di “complicanza”.
Con tale termine la medicina legale designa un evento dannoso, accidentale o anomalo, che insorge nel corso di un intervento chirurgico o di un iter terapeutico, aggravando la situazione del paziente e peggiorando le sue possibilità di recupero con l’insorgenza di uno stato morboso ulteriore, ancorché in qualche modo collegato o favorito dalla condizione di partenza e dalle cure praticate. Le complicanze, dunque, sono evoluzioni indesiderate del quadro clinico di un paziente. Possono essere determinate dalla sua condizione o dall’intervento medico oppure da entrambi congiuntamente. Nella teoria del risk management vengono considerate eventi avversi, mentre in ambito giuridico le complicanze rappresentano eventi di danno. Le complicanze possono dipendere dalla patologia di base del paziente, rappresentandone una naturale progressione (in questo caso parliamo di complicanze spontanee), oppure possono essere determinate dal trattamento sanitario che gli viene praticato (e allora parliamo di complicanze iatrogene). Esistono diversi tipi di complicanze: possiamo distinguerle, ad esempio, in base alla gravità (complicanze maggiori o minori); alla ricorrenza statistica (frequenti o rare); alla tempistica con cui si presentano (precoci o tardive); e in base a tanti altri criteri, come la modalità attraverso la quale si realizzano, la natura delle conseguenze che ne derivano, oppure in relazione al distretto anatomico interessato (complicanze meccaniche, ischemiche, infettive, respiratorie, articolari, emorragiche, ecc.)[1].
Tuttavia ciò che per il medico rappresenta una complicanza, per il giurista è soltanto un fatto, ed il diritto si occupa dei fatti per valutare se sono leciti oppure illeciti, cioè per capire se qualcuno deve risponderne, con quali conseguenze ed entro quali limiti.
Ma come distinguiamo le complicanze che danno luogo a responsabilità da quelle che vanno esenti da responsabilità?
Dobbiamo verificare due presupposti: la prevedibilità, che è la capacità di riconoscere un pericolo di danno; e l’evitabilità, che è la possibilità di neutralizzare questo danno.
Se la complicanza era prevedibile ed evitabile in concreto, allora esiste verosimilmente un fatto illecito che è fonte di responsabilità sanitaria. Se la complicanza non era prevedibile o non era evitabile, allora non è imputabile, in quanto dipende da quella alea terapeutica sempre imponderabile, che si annida in tutte le vicende cliniche.
La Corte di Cassazione [2] ha precisato che la complicanza non si riferisce al momento del danno conseguenza, ma al momento dell’evento lesivo, atteso che si tratta di una lesione del diritto alla salute, che si colloca in una fase cronologicamente e logicamente antecedente lo sviluppo della fattispecie illecita dannosa: 1) inadempimento della obbligazione/errore nella esecuzione della prestazione professionale; 2) determinazione o aggravamento dello stato patologico del paziente/evento lesivo della salute; 3) invalidità temporanea o permanente che ne è derivata/danno conseguenza (non patrimoniale)[3].
E’ noto che, in capo all’esercente la professione sanitaria, accanto al dovere della diligenza professionale, grava quello della generale prudenza, la quale impone al professionista la somministrazione di un trattamento terapeutico proporzionato al risultato da perseguire con specifico riguardo alle condizioni concrete del paziente. Atteso che una complicanza in medicina è un rischio possibile, seppure non probabile, l’inosservanza delle regole generali di prudenza e diligenza possono esporre il sanitario a responsabilità professionale. In particolare, in caso di peggioramento del paziente correlato ad un intervento sanitario, il giurista è chiamato ad analizzare se quel peggioramento era in concreto evitabile o meno in base alle conoscenze tecnico scientifiche del momento. In presenza di un evento evitabile, la condotta è imputabile al sanitario. Di converso, la presenza di un evento inevitabile integra gli estremi della causa non imputabile di cui all’articolo 1218 cc.
Tuttavia, sebbene un evento dal punto di vista clinico sia riconducibile ad una complicanza, non è sufficiente ad integrare il principio della causa non imputabile[4].
La distinzione tra errore del sanitario e complicanza risente anche della scienza medica, che si evolve costantemente. Grazie allo sviluppo delle ricerche in ambito sanitario, alcuni eventi prima considerati come complicanza o “incidenti” si sono effettivamente dimostrati prevenibili e quindi riconducibili all’attività dei sanitari, piuttosto che alla patologia di base del paziente oppure come effetto collaterale dei trattamenti. La Corte di Cassazione[5] ha stabilito che nel giudizio di responsabilità del medico nei confronti del paziente, è necessario che il sanitario, affinché vada esente da colpa, dimostri di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente sia dipeso da una complicanza. Quindi, affinchè vi sia l’esonero della responsabilità del sanitario, occorre che il danno sia stato imprevedibile o quantomeno inevitabile.
Quindi al medico convenuto in un giudizio di malpractice medica non è sufficiente, per superare la presunzione posta a suo carico dall’articolo 1218 cc., dimostrare che l’evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate complicanze, rilevate dalla statistica sanitaria, in quanto tale concetto è inutile nel campo giuridico[6].
Infatti, quando si verifica durante l’intervento o successivamente alla sua conclusione, un peggioramento delle condizioni cliniche del paziente, o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le complicanze, oppure tale peggioramento non era prevedibile o non evitabile[7].
Nel campo giuridico non riveste pertanto alcun valore sostenere che l’evento dannoso non sia stato voluto dal medico, perché rientrante nella classificazione clinica delle complicanze. Ciò che interessa al diritto è soltanto appurare in concreto se quell’evento integri gli estremi della causa non imputabile.
Le ricadute di questo principio sull’onere probatorio sono di assoluto rilievo in quanto: o il medico riesce a dimostrare di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis, ed allora egli va esente da responsabilità, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri o meno nella categoria delle complicanze, oppure all’opposto, il medico quella prova non riesce a fornirla: ed allora non gli gioverà la circostanza che l’evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacché quel che rileva è se era prevedibile ed evitabile nel caso concreto[8].
Spetta invece al paziente danneggiato dimostrare il nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale (la riconducibilità dell’evento lesivo alla condotta del sanitario[9]) sia sotto il profilo della causalità giuridica (individuazione inequivocabile delle conseguenze pregiudizievoli).
Secondo i giudici di legittimità la relazione eziologica tra condotta ed evento lesivo, da ricercarsi sul piano della cd. causalità materiale, deve essere distinta dalla relazione eziologica tra evento lesivo e conseguenze dannose, che invece va analizzata sul piano della cd. causalità giuridica. Sotto il profilo materiale, precisa la Corte, un evento dannoso è considerato causato da un altro se, stabilite le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, fermo restando che all’interno delle serie causali così determinate, dovrà darsi importanza solo a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili. Attraverso tale disquisizione emerge una nozione di prevedibilità diversa sia da quella di cui all’articolo 1225 cc., sia dalla prevedibilità posta base del giudizio di colpa, in quanto prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell’uomo medio, e si sofferma invece sulle regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un fatto. L’accertamento del nesso di causalità segue quindi il ricorso a modelli probabilistici o di credibilità logica[10].
Solo in un momento successivo il Giudice, chiamato a decidere, deve procedere alla ricerca del nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, il cui accertamento dovrà avvenire in applicazione dell’articolo 1223 cc.
Ne discende pertanto che, per superare la presunzione di cui all’articolo 1218 cc., non basta dimostrare che l’evento dannoso per il paziente rappresenti una complicanza rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile[11].
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2. La limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 cc.
Ci si è poi chiesti se al concetto di complicanza possa o meno applicarsi la limitazione di responsabilità del professionista prevista dall’articolo 2236 cc. In species[12]è stato osservato che il cd. problema tecnico di speciale difficoltà di cui all’articolo 2236 cc, in base al quale la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave, ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedono un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza. Riportando questa affermazione nel settore medico, e più segnatamente nell’ambito della cd. complicanza, la Corte ha affermato che essa non è identificabile con la mera complicanza, la quale ben può ricorrere in un intervento di natura routinaria, salvo la prova da parte del sanitario della presenza del problema tecnico di speciale difficoltà.
La mera difficoltà del quadro sintomatologico non può dunque ritenersi di per sé capace, in assenza di altre circostanze, di assurgere allo stadio del problema tecnico di speciale difficoltà, poiché la complicanza non può insorgere anche in un intervento routinario, dovendo soltanto richiamare il sanitario all’uso di una maggiore accortezza.
Infatti in caso di prestazione professionale medico chirurgica di routine, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale o da imperizia, dimostrando che siano state invece prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle circostanze tecnico scientifiche del momento. Ne consegue che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l’accertata insorgenza di complicanze intraoperatorie, ma deve altresì verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l’insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l’insorgenza delle predette complicanze[13].
3. Il consenso informato
L’eventuale responsabilità del medico per i danni subiti dal paziente non può ritenersi superata dalla sottoscrizione da parte del medesimo del c.d. consenso informato, in quanto quest’ultimo è destinato a fornire specifica informazione dei rischi e delle conseguenze indesiderate dell’intervento correttamente eseguito; nonchè non è idoneo a sopperire specifiche responsabilità oppure errori medici commessi a causa di una errata scelta della modalità di intervento. Il diritto al consenso informato è infatti diverso e distinto rispetto a quello al corretto trattamento terapeutico. Il primo attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico e, quindi, alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del diritto fondamentale alla salute.
Quindi, in tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire al paziente la piena conoscenza della natura, della portata e dell’estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione da parte del paziente di un modulo del tutto generico.
L’obbligo del medico di acquisire il consenso informato del paziente al trattamento sanitario è posto a tutela di due diritti fondamentali della persona, quello all’autodeterminazione e quello alla salute (ex artt. 2,13 e 32 Cost.) – come sottolineato da Corte Costituzionale n. 438/2008 – ed è autonomo rispetto all’obbligo di diligenza nell’esecuzione della prestazione sanitaria in quanto tale.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito la distinzione, nell’ambito della prestazione medica, del profilo relativo all’informazione (e all’acquisizione del consenso) da quello concernente l’esecuzione dell’intervento nel senso che l’inadempimento da parte del sanitario dell’obbligo di richiedere al paziente l’espressione del consenso informato costituisce – in ogni caso – violazione del diritto inviolabile alla autodeterminazione[14].
Ciò comporta che la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo di acquisire il consenso informato discende dal solo fatto della sua condotta omissiva, a prescindere dalla circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno (fermo restando che la corretta esecuzione influenzerà la liquidazione del danno, che – ovviamente – dovrà essere rapportato alla sola lesione del diritto all’autodeterminazione)[15]; sotto tale profilo, infatti, ciò che rileva è che, a causa del deficit di informazione, il paziente non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica[16].
Sotto il profilo del danno risarcibile, va ricordato che, in tema di fatto illecito civile, contrattuale o extracontrattuale, la legge opera una distinzione fra l’individuazione dell’evento che lo integra (c.d. danno-evento) e quella delle sue conseguenze dannose (c.d. danno conseguenza), che fa sorgere il diritto alla riparazione, e quindi al risarcimento. Distinzione la cui generalità è stata riaffermata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nelle c.d. sentenze di San Martino[17].
In particolare, in materia di danni derivanti dall’omesso consenso informato, è stato affermato che, mentre sotto il profilo del danno-evento la lesione del diritto ad esprimere il c.d. consenso informato da parte del medico si verifica per il sol fatto che egli tenga una condotta che lo porta al compimento sulla persona del paziente di atti medici senza avere acquisito il suo consenso (con conseguente lesione del diritto all’autodeterminazione costituzionalmente tutelato), il danno-conseguenza, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve essere specificamente allegato e provato dal danneggiato anche sotto il profilo della sua riconducibilità causale (secondo il criterio della cd. causalità logica) all’evento lesivo.
Ciò premesso, va rilevato che nel caso di esiti negativi di un’operazione correttamente eseguita ma non previamente assentita dal paziente mediante l’espressione di un valido consenso informato (ipotesi che ricorre appunto nel caso di specie) sono in astratto configurabili due ipotesi di danno inteso come danno-conseguenza: un danno alla salute costituito dalla lesione dell’integrità psico-fisica conseguente all’operazione non assentita; un danno derivante dalla lesione del diritto all’autodeterminazione come componente essenziale della dignità della persona.
Invece informare il paziente del fatto che, ad esempio, in determinati tipi di intervento è statisticamente ricorrente un certo margine di errore del chirurgo, non può mai avere un effetto esimente a favore di quest’ultimo in caso di effettiva occorrenza dell’errore, e questo perché: È ius receptum che in tema di responsabilità medica, il diritto al consenso informato è diverso e distinto rispetto a quello al corretto trattamento terapeutico. Il primo attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico e, quindi, alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del diritto fondamentale alla salute”.[18]
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La prova del danno da errore medico
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Cristina Maria Celotto | Maggioli Editore 2020
36.80 €
- [1]
Chiarini, Complicanza, in www.chiarini.com.
- [2]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 28985 del 11.11.2019.
- [3]
De Marco G., Responsabilità medica: la cd complicanza secondo la Cassazione del 2019, in www.4clegal.com, 2021.
- [4]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 13328 del 30.06.2015
- [5]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 13328 del 30.06.2015.
- [6]
Scarpelli M.L., Errore o Complicanza?, in www.doctoros.it, 2017.
- [7]
Corte di Cass. Sez. III civ. sent. n. 122 del 08.01.2020.
- [8]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 24074 del 13.10.2017.
- [9]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 7997 del 18.04.2005 secondo cui: “il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche soltanto contribuito a generare tale relazione con il fatto, deve considerarsi causa dell’evento stesso”.
- [10]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 362 del 21.01.2000: “la ricorrenza del rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti”.
- [11]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 122 del 8.01.2020.
- [12]
Corte di Cass. III sez. civ. ord. n. 25876 del 16.11.2020
- [13]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 20806 del 29.09.2009; Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 12516 del 17.06.2016.
- [14]
Corte di Cass. S.U. sent. n. 26972 del 11.11.2008; Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 2847 del 09.02.2010.
- [15]
Piccinini A., Atti del 13° Forum Risk Management in sanità, Firenze, 27/30.11.2018.
- [16]
Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 16543 del 28.07.2011.
- [17]
Corte di Cass. Sez. Un. sent. n. 26972 del 11.11.2008 e le altre tre gemelle.
- [18]
Corte di Cass. sent. n. 2854 del 13.02.2015.
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