RISPETTO DELLA LEGALITÀ E PROSPETTIVA –UNICA– DI ASSOLVERE CON ADEGUATEZZA IL PROPRIO MANDATO.
“SOLIDARIETÀ ANOMALA” E RAPPORTO DI FIDUCIA : RISCHI E VALUTAZIONI DEI COMPORTAMENTI.
AIUTO STRUMENTALE O CORRETTA, SCRUPOLOSA E LECITA DIFESA.
CONTEMPERAMENTO DEI CONTENUTI DEGLI ART. 24 co. 2 E 101 DELLA COSTITUZIONE.
Da tempo si assiste, inermi ed impotenti cittadini, ad una quotidiana inarrestabile compenetrazione mafiosa del sociale talvolta sorretta da condotte agevolatrici sotto molteplici angoli visuali, attraverso i quali l’ordinamento giuridico “gradua” la riconducibilità di un comportamento ad una fattispecie associativa. L’art. 7 del d.l. 152/91 (poi convertito in Legge 12.07.1991 n. 203) e la figura del concorso esterno nel delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. sono le altre “facce” del delitto associativo previsto dalla disposizione incriminatrice da ultimo citata. Spesso ci si è interrogati in dottrina ed in giurisprudenza sui rapporti tra dette figure al fine di delimitarsene reciprocamente l’ambito applicativo e soprattutto con riguardo a particolari categorie di soggetti, di cui da qui a poco, senza alcuna presunzione di esaustività, andremo a discutere. Già la sentenza delle SS.UU. del 5.10.1994 (Demitry) nel censurare la tesi per cui la pretesa inammissibilità del concorso esterno si argomenterebbe dall’esistenza nel sistema della disposizione di cui all’art. 7 d.l. cit., nel senso che sarebbe stato superfluo emanare tale disposizione qualora l’ordinamento avesse consentito la possibilità di ipotizzare il concorso eventuale dell’estraneo nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, precisava che altro è l’ambito di operatività della figura del concorso esterno ed altro quello dell’aggravante in esame, nel senso che il contributo dell’extraneus che agevola le finalità non essenziali dell’associazione va qualificato come semplice delitto aggravato, mentre se tale contributo attiene a settori ed attività di vitale importanza per l’associazione stessa “e l’esterno sa di questo ‘valore’ del suo contributo e lo presta con questa consapevolezza, anche se per suoi fini personali, cioè anche senza dolo specifico, è da escludere che ci si trovi dinanzi ad un semplice esecutore di un delitto meritevole soltanto di un aggravamento di pena, ché quel contributo, anche in questo caso, altro non è che l’azione atipica che consente la realizzazione dell’azione tipica, che contribuisce in altri termini, alla stabilità del vincolo associativo e al perseguimento degli scopi dell’associazione”.
Premesso quanto sopra, anche per la professione che ogni giorno molti di noi sono chiamati a svolgere, non possiamo esimerci dal constatare, ns. malgrado e con estremo rammarico, che tra le particolari categorie di soggetti che possono divenire destinatari del precetto normativo di cui all’art. 378 c.p. vi sia anche quella (ipotesi cara specie ai PM specie in un’era di asserita parità tra Accusa e Difesa) del difensore (per tutti cfr. Cass. pen. 06.07.2000 n. 7913; idem cfr. Cass. pen 26.06.1986 n. 6204 e Cass. pen. 04.07.1986 n. 6989).
Problema centrale ed assorbente per la corretta soluzione della questione in esame è l’esatta individuazione della linea di demarcazione tra il ruolo delicato e particolare del difensore e il precetto penalmente sanzionato dell’art. 378 C.P., di cui anche il difensore è destinatario. L’attenzione deve essere concentrata sulle singole modalità di aiuto dirette nel loro complesso ad offendere l’interesse protetto dall’incriminazione in esame, riguardante il normale funzionamento dell’attività giudiziaria, che persegue lo scopo di combattere la criminalità tanto da non poter tollerare “fatti di solidarietà” verso la delinquenza in qualsiasi forma espressa, e che possono assumere una connotazione deviante proprio in danno del regolare corso della giustizia. Certamente arduo e pieno di difficoltà si presenta il compito dell’interprete quando tra i soggetti attivi del delitto di favoreggiamento s’insinua, come talvolta accade, la figura del difensore a causa della sua opera di “iuris consultus”. Il difensore di un imputato, invero, come lucidamente sottolineato da autorevole dottrina, si trova costretto a dovere osservare, da un lato, veri e propri doveri giuridici connessi alla nobile funzione che è chiamato a svolgere, espressi attraverso regole e sistemi dai contorni sovente assai vaghi, ma assicurati dal giuramento che presta prima di entrare a far parte dell’ordine nel cui ambito viene esercitato il potere disciplinare inteso a dare concretezza a quei doveri; dall’altro, a non incorrere nei rigori della legge penale che dal canto suo giustamente persegue la finalità di assicurare un patrocinio probo e corretto nell’interesse di chi lo richiede e, in pari misura, nell’interesse superiore della giustizia. Orbene, se è fuor di dubbio che l’esercizio del diritto di difesa, nel suo particolare significato, riferibile ai soggetti legittimati al patrocinio, ha nel nostro ordinamento il più ampio ambito d’espansione, nella prospettiva di assicurare un’effettiva attuazione del principio di cui all’art. 24 co. 2 della Costituzione, è anche vero, però, che nell’ambito dello stesso sistema costituzionale ogni diritto debba armonizzarsi con gli altri e nello stesso tempo sottostare a quei limiti che sono imposti da esigenze e necessità di carattere generale che non possono essere sottovalutate. Tra queste indubbiamente una posizione primaria ed assoluta assume l’interesse dello Stato all’amministrazione della giustizia e alla sua effettiva attuazione, in modo particolare attraverso i processi civili e penali, nei quali vige il principio della soggezione alla legge e del rispetto di essa da parte di tutti (art. 101 Cost.), di tal che si può senza tema di smentita affermare che l’esercizio del diritto di difesa anche soggiaccia al rispetto di tutte le norme di carattere sostanziale e processuale.
Ciò posto, però, non ci si può esimere dall’osservare che la linea di demarcazione tra regolare e puntuale svolgimento dell’attività difensiva, superamento dei limiti legali sotto il profilo della correttezza deontologica e, infine, illecito penalmente rilevante non possa esser fissata in modo rigido e certo, sulla base di parametri assoluti, ma debba essere individuata caso per caso, di volta in volta. Nell’articolato e complesso quadro di attività che contraddistingue la prestazione difensiva, il punto di maggiore frizione fra gli interessi in gioco talora confliggenti risiede nel “cavere”, cioè nell’attività di dare consiglio, che non è “tipica”, nel senso che non è consentita a chiunque, ma che per l’avvocato penalista riveste una peculiare importanza. I confini flessibili e tortuosi al di là dei quali la prestazione di consulenza del legale supera la soglia del consentito tanto da sconfinare nell’illecito penale vanno individuati, è bene evidenziarlo, con estrema prudenza e cautela, valutando e considerando nella giusta dimensione e nella diversa gradazione il contenuto dell’intenzionalità che sorregge le singole note della condotta concretamente posta in essere dal difensore. Anche se, alla luce delle radicali trasformazioni che ha subito nel corso degli anni l’esercizio dell’attività forense, gli interessi della difesa, spesso di indole particolarissima, possono non coincidere con quelli connessi ad una precisa applicazione della legge, con riguardo alla responsabilità dell’imputato e alle previste conseguenze, si deve comunque escludere che il patrocinante, onde portare a termine il suo compito, possa porre in essere condotte costituenti reato per la generalità dei soggetti. Nella scelta dei metodi e degli strumenti cui il difensore ritiene di fare ricorso per la tutela degli interessi del proprio assistito, esiste un limite oggettivo che non è consentito valicare impunemente e che è costituito dall’osservanza di quegli obblighi e di quei divieti, la cui violazione integra altrettanti illeciti penali. Circoscrivendo il campo di indagine all’ipotesi di cui all’art. 378 C.P., non può omettersi di evidenziare che il favoreggiamento costituisce uno degli esempi più appropriati per dimostrare come la conformità ad una fattispecie implica non soltanto una certa configurazione esteriore della condotta, ma anche un contenuto significativo del volere che corrisponde al significato descritto nella fattispecie legislativa. È, infatti, soprattutto sul piano soggettivo che deve essere apprezzata la condotta del difensore, che ha il diritto-dovere, costituzionalmente garantito, di difendere gli interessi della parte assistita nel migliore modo possibile e nei limiti del mandato nonché nell’osservanza della legge e dei principi deontologici (cfr. art. 36 codice deontologico forense -Autonomia nel rapporto-, che è riproduttivo di principi già acquisiti nel corso della pregressa produzione giurisprudenziale, che aveva riempito di contenuti i concetti di dignità e decoro richiamati nell’art. 38 R.D.L. n. 1578/33; cfr.pure art. 2.1. codice deontologico degli avvocati europei -L’indipendenza -) e cioè di adoperarsi con ogni mezzo lecito a sottrarre il proprio assistito, colpevole o innocente che sia, alle conseguenze negative del procedimento a suo carico. Più esattamente va precisato che l’aiuto ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità (condotta delineata dall’art. 378 C.P.) va valutato, con particolare riferimento alla speciale posizione del difensore, non in maniera freddamente oggettiva e nella sua formale ed astratta corrispondenza al modello legale di reato, ma come concreta ed effettiva espressione di una “solidarietà anomala” con la persona difesa, il che chiaramente esorbita dal compito istituzionale dell’avvocato. In altre parole e ad esempio : la rivelazione al proprio assistito della emissione o della probabile emissione di un provvedimento coercitivo o della disposta intercettazione dell’utenza telefonica o di altra eventuale iniziativa della magistratura a suo carico può integrare in astratto la materialità della previsione criminosa prevista e sanzionata dall’art. 378 C.P., ma l’effettiva configurabilità di questa va però e prudentemente apprezzata in connessione all’esercizio del diritto di difesa e quindi con stretto riferimento al contenuto della intenzionalità che muove il soggetto agente, la quale si rende palese anche attraverso la maniera, lecita o illecita, con la quale il difensore acquisisce le notizie che, poi, rivela al suo cliente, nonché attraverso la prospettiva che ispira lo stesso difensore nel rivelare tali notizie. Anzi, a ben vedere la legittima acquisizione di notizie che possono interessare la posizione processuale dell’assistito rende legittima la loro rivelazione, che è, invece, doverosa in virtù di quel rapporto di fiducia (cfr. art. 35 vigente codice deontologico forense -Rapporto di fiducia- e cfr. pure art. 2.2 vigente codice deontologico degli avvocati europei – Fiducia e integrità morale -) che lega il difensore alla parte e che non consente zone d’ombra tra gli stessi. In tale ipotesi, si rimane nell’ambito del fisiologico esercizio del diritto di difesa e non si sconfina in quella “solidarietà anomala” che inquina e svilisce la funzione del professionista, proprio perché costui, anche se offre un “aiuto” al suo difeso in contrapposizione a quelle che possono essere le esigenze oggettive della giustizia, lo fa nel rispetto della legalità e nell’unica prospettiva di assolvere, con adeguatezza e con lealtà, il proprio mandato, senza interferire più di tanto, magari attraverso risoluzioni non regolari e niente affatto funzionali alla dignità e al decoro della professione, nel regolare svolgimento dell’attività giudiziaria. Ovviamente ben differente è l’ipotesi in cui l’acquisizione di notizie avvenga in maniera illegale : si pensi ad esempio al concorso nel delitto di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio o comunque alla fraudolenta presa visione o estrazione di copia di atti che devono rimanere segreti. In tale ipotesi, infatti, ben potrebbe intravedersi un’alterazione ed un degrado del ruolo del difensore, a tal punto da dar luogo a quella “solidarietà anomala” con l’imputato e così concretizzare quell’aiuto strumentale non già alla corretta, scrupolosa e lecita difesa, ma all’elusione o alla deviazione delle investigazioni ovvero all’intralcio o alla vanificazione delle ricerche e quindi, in una, al turbamento della funzione giudiziaria. Ma tali casi, fortunatamente, sono talmente rari (oltre che difficili da provare), da non poter certamente “macchiare” il prestigio e la dignità del difensore, in altre parole la figura dell’Avvocato nella sua accezione genetica.
Messina, 10 agosto 2001.
avv. Alfonso Maria Parisi
Testi :
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA;
D.L. 13-05-1991, n. 152 – Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa (in G.U. 13.05.1991 n. 110, Serie Generale), convertito con modificazioni in Legge 12.07.1991 n. 203 (in G.U. 12.07.1991 n. 162, Serie Generale);
ALLEGATO – Modificazioni apportate in sede di conversione al decreto-legge 13 maggio 1991 n. 152;
CODICE DI DEONTOLOGIA DEGLI AVVOCATI EUROPEI – Approvato a Strasburgo il 28 ottobre 1988 dal C.C.B.E., Consiglio degli ordini forensi europei, con le revisioni introdotte nell’Assemblea plenaria tenuta a Lione il 28 novembre 1998;
CODICE DEONTOLOGICO FORENSE – Approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 17 aprile 1997, con le modifiche introdotte il 16 ottobre 1999.
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