Concorso esterno in associazione mafiosa: i “fratelli minori” di Contrada

 

 

Sommario: 1) premessa – 2) dall’associazione di tipo mafioso alla configurabilita’ del concorso esterno – 3) il caso contrada – 4) sezioni unite sui “fratelli minori” di contrada: il valore erga omnes e l’estensione erga alios della sentenza n. 3/2015 della corte edu – 5) conclusioni

Sul punto:

-Principio di tassatività, concorso esterno ed erosione del giudicato;

-Le Sezioni Unite negano la possibilità di estendere i principi della sentenza della Corte Edu nel caso Contrada ai “fratelli minori”

1) Premessa.

Il dibattito relativo alla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa ha avuto negli ultimi anni un rilevo primario, tanto da innescare un acceso dibattito tra le Corti nazionali e sovranazionali.

Più in particolare, le questioni sottoposte all’attenzione dei giudici hanno riguardato la natura del delitto in parola. Ci si è chiesti, cioè, se tale fattispecie sia da qualificarsi quale reato di creazione giurisprudenziale, ovvero derivi dalla generale funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p. in combinato disposto con l’art. 416 bis c.p.

Aderire all’una o all’altra interpretazione non è questione meramente formale, ma comporta conseguenze rilevanti in ordine al regime intertemporale.

Come noto, il divieto di irretroattività della legge penale è un principio costituzionalmente tutelato dall’art. 25, il cui secondo comma sancisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Tradizionalmente concepito quale corollario del principio di legalità[1], il divieto di irretroattività “si pone come strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore espressivo dell’esigenza di calcolabilità delle conseguenze giuridico – penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale”.[2]

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2) Dall’associazione di tipo mafioso alla configurabilità del concorso esterno.

A mente dell’art. 416 bis c.p.: “Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni. Coloro che promuovono, dirigono o autorizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. […].

Dal dato letterale dei primi due commi riportati è possibile evincere le caratteristiche strutturali e formali del reato in esame.

Questo, può essere classificato, anzitutto, come un reato plurisoggettivo, vale a dire un reato a concorso di persone necessario, giacché per la sua integrazione si rende necessaria la partecipazione al sodalizio criminoso di più persone (almeno tre), oltre che plurioffensivo, poiché diretto verso la tutela di più interessi penalmente rilevanti[3].

Alla configurazione del reato, in estrema sintesi, concorrono i seguenti elementi: la presenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, tale da garantire una struttura organizzativa idonea a concretizzare un pericolo per l’ordine pubblico e il metus mafioso tipizzato nel comma 3 (che rappresenta il quid pluris rispetto all’associazione per delinquere, punita ex art. 416 c.p.) che si estrinseca nella forza di intimidazione che promana il sodalizio e  si ricollega all’ elemento passivo della “condizione di assoggettamento e omertà”.

Dal punto di vista soggettivo, ai fini del perfezionamento della fattispecie, è necessaria la manifestazione di un affectio societatis, ossia la consapevolezza non solo di partecipare, ma anche di contribuire al mantenimento in vita dell’associazione.

Se in relazione al concorso morale non si sono registrate problematiche rilevanti, discorso diverso è valso per il concorso esterno nei termini di un concorso materiale.

Secondo un orientamento negazionista[4], il comportamento del concorrente esterno non differisce – né dal punto di vista oggettivo, né da quello soggettivo – dalla condotta dell’intraneus, con la logica conseguenza che la prestazione di un contributo causale al sodalizio sarebbe valso ad integrare il requisito della partecipazione ex art. 416 bis c.p.

Inoltre, a suffragare tale tesi si aggiunge il fatto che il legislatore abbia già previsto delle specifiche disposizioni tese a sanzionare le possibili contiguità con il sodalizio mafioso (si pensi all’aggravante del delitto di favoreggiamento personale allorché l’agente agevoli l’elusione delle indagini o la sottrazione alle stesse di un soggetto responsabile del delitto di cui all’art. 416 bis c.p.), disposizioni superflue se si ammettesse la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo.

Di contro, si è ritenuto[5] che le figure del concorrente interno e di quello esterno vadano diversificate: la condotta del primo dev’essere connotata dal requisito soggettivo dell’affectio societatis, mentre sul piano oggettivo occorre che lo stesso sia stabilmente inserito nell’organizzazione; l’extraneus, invece, è colui che, senza esserne partecipe, presta all’associazione un contributo idoneo, quantomeno, al suo mantenimento in vita.

Una prima composizione del conflitto tra le diverse posizioni assunte si è avuta con la sentenza Demitry (Sezioni Unite, sent. n. 16 del 1994).

Il Collegio ha aderito al secondo indirizzo citato, ritenendo non sovrapponibile un contributo esterno e circoscritto nel tempo alla condotta tipica del partecipe.

Ed allora, a parere dei giudici, la distinzione deve avvenire guardando il momento del fatto: mentre il partecipe agisce “nella fisiologia, nella vita <<corrente>>, quotidiana dell’associazione”, la figura dell’extraneus viene in rilievo nel momento “patologico” della vita associativa e al quale l’organizzazione si rivolge per superare una situazione di impasse.

In rapporto di continuità con la sentenza Demitry sono intervenute la sentenza Carnevale (Cass. Sez. Un. 22327/2002) e la sentenza Mannino (Sez. Un., n. 33748/2005).

Al primo arresto giurisprudenziale si deve il merito di aver compiuto un passo in avanti nella determinazione dell’“identikit” del concorrente esterno.

La Corte – spezzando il legame tra l’extraneus e la condizione di “patologicità” della vita associativa – ha posto in rilievo l’esito delle condotte del concorrente esterno, il cui contributo deve essere “idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell’associazione.”

Sempre sul versante della causalità, la sentenza Mannino, richiamando testualmente la sentenza Franzese, ha respinto fermamente la teoria dell’”aumento del rischio” – ritenuta nozione debole nell’accertamento del nesso di causalità- ed ha, invece, ritenuto necessario che il contributo atipico del concorrente esterno abbia “una reale efficienza causale, sia stato condizione “necessaria” – secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non [omissis].”

 

3) Il caso Contrada

  1. Contrada veniva condannato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416 bis c.p. per fatti commessi tra il 1979 e il 1988.

Esperiti tutti i rimedi interni, venne adita la Corte Europea dei diritti dell’uomo e del cittadino per l’asserita violazione dell’articolo 7 CEDU.

Tale norma, rubricata “nulla poena sine lege” prevede al primo comma quanto segue: “Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.”

Il ricorrente sosteneva, infatti, che il concorso esterno in associazione mafiosa fosse un reato di creazione giurisprudenziale, la cui elaborazione si è consolidata soltanto con la sentenza Demity del 1994, successivamente, dunque, alle condotte per le quali veniva condannato.

Il Governo, di contro, sosteneva che al momento della commissione dei fatti ascritti all’imputato la giurisprudenza interna non fosse in alcun modo contraddittoria e non poteva, dunque, rilevarsi alcuna violazione del principio di irretroattività.

All’esito del giudizio, la corte di Strasburgo afferma che “all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti” e conclude, dunque, condannando lo Stato italiano per violazione dell’articolo 7 CEDU.

In tale cornice si inserisce la proposizione dell’incidente di esecuzione da parte del Contrada con cui veniva chiesta la revoca della sentenza di condanna emessa a suo carico nel 2006.

La Corte d’Appello di Palermo investita della questione rigettava l’istanza proposta in virtù della circostanza per cui la Corte EDU non aveva fornito indicazioni utili circa “gli strumenti processuali utilizzabili per consentire all’ordinamento italiano di conformarsi alla sua decisone”.

Avverso l’ordinanza ricorreva Contrada, per mezzo dei suoi procuratori, sostenendo l’elusione del dicutum della Corte europea e in subordine veniva richiesta la remissione alla Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 673 c.p.p. – in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost -nella parte in cui tale non articolo non prevedesse in forma espressa la revoca della condanna per acclarata violazione della CEDU.

I giudici di Piazza Cavour nella sentenza[6] resa in tale procedimento affrontano due questioni cruciali: l’efficacia delle pronunce della Corte europea e gli strumenti interni per recepirne le statuizioni.

Sul primo versante viene in rilievo l’art. 46 CEDU, a mente del quale le parti contraenti hanno l’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti.

I giudici di legittimità, in pieno dissenso con quanto statuito dalla Corte d’appello di Palermo, escludono qualsiasi margine di discrezionalità lasciato al giudice nazionale, il quale, nelle ipotesi di violazione del testo convenzionale, non può far altro che conformarsi alla decisione della corte sovranazionale.

In ordine agli strumenti attivabili per recepire la decisione, la Corte ha ritenuto potersi escludere la possibilità di attivare il procedimento di revisione ex art. 630 c.p.p. in quanto “nessuna rinnovazione dell’attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte EDU, sarebbe un mero errore di diritto.”

Né, tantomeno, poteva esperirsi il rimedio della revocazione della sentenza previsto dall’art. 673 c.p.p., i cui presupposti – abolitio criminis o dichiarazione di illegittimità della norma incriminatrice- difettavano nel caso di specie.

Residuava, pertanto, a dire della Corte, lo strumento dell’incidente di esecuzione, di cui veniva evidenziato – in un espresso richiamo alle Sezioni Unite 2013, Ercolano e Sezioni Unite 2014, Gatto – l’ampiezza di intervento; ed infatti: “Il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo”.

A conclusione del lungo iter passato in rassegna, la Cassazione mette un punto definitivo al caso Contrada concludendo che, a seguito della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non resta che riconoscere che la pronuncia di condanna emessa dalla Corte d’appello di Palermo nei confronti di Bruno Contrada “non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali.”

4) Sezioni unite sui “fratelli minori” di Contrada: Il valore erga omnes e l’estensione erga alios della sentenza n. 3/2015 della Corte EDU.

A pochi anni di distanza dal caso Contrada, la Sesta Sezione penale della Cassazione con ordinanza del 22 marzo 2019 rimette alle Sezioni Unite la seguente questione: “se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia o meno portata generale, estensibile nei confronti di colore che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile.”

La vicenda in esame trae origine dal ricorso per cassazione proposto da S. Genco avverso la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che aveva rigettato la richiesta di revisione della pronuncia emessa dalla corte d’assiste di Palermo del 1999, con la quale l’imputato era stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ex art. 110 e 416 bis c.p. per fatti antecedenti al 1994.

I difensori del Genco sostenevano il valore generale della sentenza della Corte europea n. 3/2015, estensibile, dunque, a casi analoghi a quello.

Rilevati i contrasti sorti nella giurisprudenza in ordine all’ efficacia erga alios della pronuncia, il ricorrente chiedeva la remissione della questione alle sezioni unite circa tre punti rilevanti:

– la portata generale o meno della Sentenza della Corte EDU nel caso Contrada;

-l’utilizzo erga alios nell’ambito del giudizio di revisione della pronuncia favorevole emessa dalla Corte EDU;

-gli strumenti azionabili da parte dei condannati per concorso esterno in associazione mafiosa con sentenza irrevocabile che versino in situazioni similare a quella giudicata dalla Corte EDU.

Sotto il primo profilo, il Supremo collegio valuta la possibilità di definire quale “sentenza pilota” la pronuncia n. 3/2015 della Corte EDU e, conseguentemente, esamina se la stessa possa o meno estendere i propri effetti oltre il caso deciso.

Prima facie, viene in rilevo l’art. 61 del regolamento CEDU, il quale dispone che, ove venga riscontrata la presenza “di un problema strutturale o sistemico o di altra disfunzione simile che ha dato luogo o potrebbe dare luogo alla presentazione di altri ricorsi analoghi”, la Corte può emanare una sentenza pilota che indichi la natura del problema e le misure riparatorie adottabili a livello nazionale.

Alla sentenza pilota, l’art. 61 regolamento CEDU, comma 9, equipara qualsiasi altra sentenza in cui la Corte riscontri un problema strutturale.

Anche la Corte costituzionale si è pronunciata sul tema, affermando che laddove non ricorrano i presupposti sopra richiamati, il giudice nazionale sarà tenuto in prima battuta a fare uno sforzo ermeneutico cercando di eliminare il contrasto e, solo quando non riesca ad eliminare il contrasto con la Carta costituzionale, debba investire della questione il giudice delle leggi per contrasto con l’art. 117 Cost.

La stessa Corte, conscia delle difficoltà del singolo giudice di riconoscere quando un orientamento sia contrassegnato da “adeguato consolidamento” ha elaborato una serie di criteri negativi alla presenza dei quali il quali il singolo interprete potrà “prendere le distanze da pronunce scomode”[7]. In specie, gli indici individuati dalla Consulta sono i seguenti: “la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.”[8]

Basandosi su tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno potuto affermare che la sentenza della Corte EDU sul caso Contrada non possa essere ritenuta “sentenza pilota”, poiché redatta “in termini strettamente individuali” e non corredata da alcuna indicazione circa i rimedi adottabili.

La Corte passa, a questo punto, alla verifica circa la portata generale della pronuncia ai sensi dell’art. 61, comma 9 del regolamento CEDU prima citato.

A dire del Collegio l’unica circostanza che autorizzerebbe tale conclusione sarebbe l’incertezza sull’illeceità penale della fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa da considerarsi come costruzione di origine giurisprudenziale.

A ben vedere, però, la disamina della sentenza Contrada – limitatasi alla risoluzione del caso concreto – non autorizza tale conclusione.

Ad analogo esito si perviene analizzando il concetto di “prevedibilità” della sanzione penale.

Nell’ambito della giurisprudenza della Corte EDU, infatti, tale principio è stato declinato talvolta in senso soggettivo, dando rilevo alla materiale possibilità per imputato di conoscere il disvalore del fatto commesso e valutandolo in relazione alle qualifiche individuali ed attività professionali, altre volte in senso oggettivo, attribuendo importanza al contenuto precettivo della legge e all’interpretazione giurisprudenziale formatasi su questa. Pertanto, la sentenza EDU non può definirsi espressione di un orientamento consolidato.

Ne discende, allora, che la sentenza Contrada assuma i connotati di una sentenza “atipica” che rivela come la questione circa la prevedibilità dell’illecito penale non possa essere definito a priori, ma anzi, rileva come i criteri utilizzati dalla giurisprudenza per l’accertamento di questa siano mutevoli e variabili a seconda del caso sottoposto all’attenzione.

Pertanto, si afferma che: “la statuizione adottata nei confronti  del ricorrente Contrada da parte della corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori del caso specifico risolto  e non consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per aver commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale  prima della sentenza Demitry e che non abbiamo adito la Corte europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole.”

Si procede, poi, alla valutazione della natura del reato in parola. A dire della Corte, non può parlarsi di una fattispecie a “creazione giurisprudenziale”, ma, al contrario, tale delitto discende dall’applicazione del combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p., disposizioni già esistenti nel codice e accessibili a tutti.

A completare il quadro, la Corte esclude qualunque forma di deficit strutturale nell’ordinamento interno sulla considerazione per cui, in ordine ai fatti commessi ante 1994, l’unica incertezza riscontrabile fosse rappresentata dalla definizione giuridica del fatto di reato.

E cioè, le condotte agevolative perpetrate a favore di un’associazione mafiosa giammai sarebbero andate esenti da responsabilità penale, ma avrebbero potuto portare alternativamente ad una condanna per concorso esterno ex artt. 110 e 416 bis c.p. o, nell’altra ipotesi, avrebbero integrato gli estremi della partecipazione penalmente rilevante ex art. 416 bis c.p.

Pertanto – conclude – i principi affermati dalla Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza consolidata.”

 

5) Conclusioni

Gli ermellini, a seguito di un lungo escursus logico-giuridico, affermano a caratteri inequivocabile l’impossibilità di estende i principi sanciti nella sentenza Contrada nei confronti di soggetti estranei al giudizio.

E’ stata, questa, sicuramente una pronuncia molto attesa, rilevate le deleterie conseguenze in termini di opportunità politico-criminale che avrebbe comportato una statuizione di senso opposto.

Laddove, infatti, i giudici di Piazza Cavour avessero ricostruito la sentenza Contrada nei termini di una sentenza pilota, verosimilmente avremmo assistito ad un importante numero di ricorsi tesi a caducare gli effetti di tutte quelle sentenze di condanna emesse per condotte anteriori alla sentenza Demitry.

Nonostante la chiarezza dell’arresto giurisprudenziale in commento, la partita non sembra essersi ancora conclusa.

La difesa di Genco annuncia che proporrà ricorso alla Corte Europea e che a breve verranno depositati i ricorsi per gli altri “fratelli minori” di Bruno Contrada, che “a questo punto sono più che fratelli, figli di un dio minore”.

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Note

[1] R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale e speciale

[2] Corte cost. n. 394/2006

[3] A. Fiorella, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale

[4] Sez. Un, n. 2342 e 2348 del 1994; conf.  Cass. N. 2699 del 1994

[5] Cass. Sez. I, 13 giugno 1987

[6] Cass., I sez. pen., n. 43112/2017

[7] V. Sciarabba, Il ruolo della cedu: tra Corte costituzionale giudici comuni e corte europea, p.198

[8] Corte cost., sent. n. 45/2015

Valeria Petrino

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