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A cura degli Avv.ti Raffaele Carone ed Enzo Quaranta
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La posizione della giurisprudenza
Nell’ambito dell’azione di contrasto alla corruzione internazionale, l’ipotesi di reato codificata all’art. 317 c.p. viene suddivisa in due distinte fattispecie, tanto per effetto dell’entrata in vigore delle leggi 190/2012 e 69/2015, ed in conformità della Convenzione OCSE e del c.d. “rapporto GRECO”.
La legge 190/212, con l’introduzione dell’art. 319 quater c.p., nel dare rilievo al comportamento del privato cittadino, pur mantenendo ferma la classica figura della concussione, ha suddiviso la fattispecie del reato del citato art. 317 c.p. in due figure distinte e separate, prevedendo l’“induzione indebita a dare o a promettere utilità”. E’ di tutta evidenza la volontà del legislatore di sanzionare il privato attribuendo a quest’ultimo non più la qualificazione di vittima, bensì quella di concorrente necessario della condotta antigiuridica del pubblico funzionario.
Va subito detto che già nel periodo anteriforma la giurisprudenza si era preoccupata di distinguere e costruire due sottospecie di concussione ex art. 317 c.p.: quella costrittiva, rispetto alla quale in capo alla vittima non residuava alcuna volontà di scelta; e quella induttiva, consistente in una forma di soggezione per così dire perentoria, tanto da lasciare al privato un margine più o meno ampio di autodeterminazione. La linea di demarcazione delle due cennate fattispecie andava individuata nel diverso grado di costrizione psicologica del privato concusso.
Con il nuovo assetto normativo i nuovi orientamenti giurisprudenziali hanno determinato tre distinti modi per definire i limiti e i contorni dei delitti previsti agli artt. 317 e 319-quater c.p.
Un primo orientamento[2], già presente nel periodo preriforma, richiama il criterio della intensità della pressione prevaricatrice. Tale orientamento postula il verificarsi della costrizione ex art. 317 ogniqualvolta il privato subisce una pressione molto forte e perentoria tale da limitarne la libertà di determinazione, mentre l’induzione ex art. 319-quater si sostanzia in forme meno gravi di persuasione, suggestione, o pressione morale, ragionevolmente non idonee a condizionare la libertà di determinazione del privato. La sanzionabilità del privato, in tale fattispecie, avrebbe come riferimento il cennato spazio di libertà rispetto alla richiesta indebita potendovi lo stesso privato indifferentemente aderirvi o meno.
Un secondo orientamento[3] ha come riferimento l’oggetto della prospettazione, vale a dire il danno ingiusto e contra ius nella concussione e il danno legittimo (giusto) e secundum ius nell’induzione indebita. A corroborare l’orientamento di che trattasi, nella ipotesi di concussione, si sostiene che se da un lato appare più che verosimile e ragionevole sottoporre a una severa pena l’agente pubblico laddove prospetti un danno ingiusto, dall’altro, nella sola ipotesi di induzione indebita, si postula la tesi secondo la quale è parimenti verosimile e ragionevole sanzionare il privato il quale, accogliendo la condotta pretenziosa dall’agente, persegue un tornaconto personale.
Il terzo e ultimo orientamento[4] si colloca su di una linea mediana rispetto ai primi due. Tale orientamento aderisce in buona sostanza al criterio del primo concernente la diversa intensità della pressione psichica sul privato e quanto meno nelle ipotesi in cui tale diversità appare certa ed evidente, con la conseguenza di rimandare ai criteri richiamati dal secondo orientamento nei soli casi dubbi per i quali diventa redimente accertare vantaggio indebito perseguito dal privato.
2. La Cassazione a Sezioni Unite
La questione venne sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite le quali con la Sentenza Maldera n. 12228/2013, ravvisando nelle tre teorie in esame una inadeguatezza, a fronte dei controversi rapporti tra le disposizioni di cui agli artt. 317 e 319-quater c.p., hanno ritenuto che i contrasti andavano risolti in ragione della dicotomia esistente tra minaccia e non minaccia, due facce della medesima medaglia delle condotte di costrizione e induzione.
Preliminarmente, le Sezioni Unite hanno affermato che l’elemento dell’abuso della qualità e dei poteri dell’agente pubblico sia elemento fondamentale, ad efficienza causale, comune ad entrambe le fattispecie di concussione ed induzione indebita e tanto a differenzia del delitto di corruzione nel quale l’abuso delle qualità e dei poteri risulta essere solo elemento eventuale e di risultato.
Altra differenza fra le due fattispecie di reato esaminate viene colta in riferimento agli effetti da essi prodotti. In particolare, nella concussione il concusso, trovandosi di fronte a una situazione di minaccia si determina di accettare la proposta illecita al fine di evitare un danno patrimoniale o non patrimoniale. Nell’induzione indebita viceversa, il concusso ancorchè sottoposto ad una soggezione determinata da una posizione di supremazia del potere pubblico, conseguirebbe comunque un indebito vantaggio personale.
Entrando sempre più nel merito della questione le Sezioni Unite, pur condividendo alcuni tratti dei tre orientamenti giurisprudenziali, ravvisano in essi dei limiti nella carenza di elementi sufficienti a tratteggiare un criterio discretivo inoppugnabile e tanto in particolar modo se esaminati singolarmente.
Rispetto al primo orientamento le S.U. rilevano che il criterio dell’intensità della pressione psichica, “non coglie i reali profili contenutistici” delle condotte di costrizione e induzione in quanto volto piuttosto ad individuare il discrimine tra le due modalità della condotta riconducibile “a un’indagine psicologica dagli esiti improbabili, che possono condurre a una deriva di arbitrarietà”.
Il criterio dell’ingiustizia o meno del danno prospettato, ipotizzato dal secondo orientamento, se da un lato ha l’indubbio “pregio di individuare gli indici di valutazione oggettivi […] incontra il limite della radicale nettezza argomentativa […] la quale mal si concilia con l’esigenza di apprezzare l’effettivo disvalore di quelle situazioni ‘ambigue’, che lo scenario della illecita locupletazione da abuso pubblicistico frequentemente evidenzia“.
I limiti riscontrati nei primi due orientamenti ad avviso delle S.U., non possono in alcun modo essere superati dalla loro combinazione propugnata dal terzo orientamento, con particolare riguardo, nel considerarli singolarmente, a quello rinveniente nella intensità della pressione psichica.
La linea di pensiero delle S.U. dà centralità ai parametri di valutazione che appaiono il più possibile trasparenti.
La chiave risolutiva della vexata quaestio, va ricercata quindi sulle motivazioni che hanno ispirato la riforma del 2012. Nell’esaminare gli atti dei lavori preparatori alla riforma si rinvengono sollecitazioni provenienti da istituzioni internazionali, unanimemente tesi ad interdire ogni ipotetica impunità al privato, ove mai costui, sebbene non costretto, dovesse risultasse semplicemente indotto nell’azione posta in essere dall’agente pubblico.
Il privato non costretto, ma indotto alla dazione indebita, concorre nel delitto di cui all’art. 319-quater c.p. che, come ritengono le SU, ha natura monoffensiva, ovverosia è posto a tutela soltanto del buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e assume connotazioni di natura esclusivamente pubblicistica. In tale ipotesi di reato il privato non assume la qualifica di vittima di aggressione a un proprio bene, ma quella di concorrente nella determinazione di un’offesa al bene pubblico da cui discende l’illecito penale.
E’ proprio la natura dell’ipotesi normata all’art. 319-quater c.p. che, secondo quanto emerge dalla motivazione della sentenza in esame, la fa ricadere nella fattispecie della corruzione piuttosto che nella ipotesi minore di concussione. La sua collocazione topografica della quale condivide la “logica negoziale” di reato-contratto bilateralmente illecito nell’interno del codice di rito dà conferma, laddove ve ne fosse bisogno, di tale convincimento.
Passando ad analizzare i criteri discriminanti delle due ipotesi delittuose, si osserva che le S.U. dopo aver preliminarmente esaminato i profili che le accomunano si soffermano su quelli che le differenziano.
Quanto agli elementi comuni, la sentenza in esame non lascia dubbi sulla circostanza che caratterizza entrambe le fattispecie, ovvero l’abuso della qualità o dei poteri dell’agente pubblico, che le SU definiscono come “un elemento essenziale della condotta di costrizione o di induzione, nel senso che costituisce il mezzo imprescindibile per ottenere la dazione o la promessa di denaro – d’altra parte, l’uso del gerundio – ‘abusando’ – conferma lo stretto nesso tra l’abuso e la condotta attraverso la quale esso si manifesta”.
Le SU chiariscono quindi il significato del concetto di abuso di qualità o dei poteri definito come mezzo necessario al perseguimento di obiettivi illeciti, precisando altresì che è da considerarsi “riconducibile all’abuso di poteri anche l’esercizio strumentale di un’attività oggettivamente lecita e doverosa per ottenere un’indebita utilità”.
Chiarito quanto innanzi la sentenza esaminata si addentra nella annosa questione attinente alla demarcazione degli elementi che differenziano le due figure di reato, ovvero, la costrizione e l’induzione viste nella loro linea di confine.
Osservano le S.U. che la costrizione evoca imprescindibilmente il concetto di violenza fisica o morale, mentre l’induzione viene concepita come induzione in errore o, per meglio dire, come conseguenza di un inganno.
Il legislatore del 1889 aveva già previsto accanto alla classica figura di concussione costrittiva un’ipotesi di concussione induttiva laddove il codice penale del 1930 le univa quanto meno con la finalità di equipararle quoad poenam.
Nella loro analisi le S.U. evidenziano che con il passare del tempo “si smarriscono le radici del concetto di induzione-inganno”, facendo capolino nell’ordinamento il concetto della induzione come “minore quantità di pressione psichica”, teorizzato nel primo degli orientamenti giurisprudenziali in trattazione.
Si osserva così che i vecchi approdi giurisprudenziali, secondo l’analisi delle S.U., avevano quale discrimine tra la costrizione e l’induzione il tracciamento di un confine nitido e sicuro nelle fattispecie delittuose di cui agli artt. 317 e 319-quater c.p., che si differenziavano per tre fondamentali profili:
a) il diverso ruolo del privato (vittima/correo);
b) il trattamento sanzionatorio dell’agente pubblico (ben più grave nel caso della concussione);
c) i beni giuridici diversi.
In buona sostanza le S.U. affermano la necessità di un criterio discretivo “più affidabile ed oggettivo” rispetto a quello tradizionale, fondato unicamente sulla maggiore o minore intensità della pressione psichica.
Nell’individuare tale criterio, le S.U. richiamano il concetto di ‘costrizione’, seguendo la strada aperta da un’interpretazione conforme al principio di offensività, da sempre considerato un fondamentale cardine ermeneutico per il giudice. Partendo dalla lettura del dato normativo, il privato sarebbe immune da pena solo in caso di costrizione intesa quale violenza fisica o minaccia che abbia come conseguenza la dazione o promessa indebita, atteso che egli subisce un vulnus alla cosa facente parte del proprio patrimonio.
La minaccia, in particolare, si presenta, secondo la prevalente dottrina, “sotto forma di sopraffazione prepotente, aggressiva e intollerabile socialmente”, idonea a procurare un vulnus all’altrui “integrità psichica e libertà di autodeterminazione”.
Argomentano le S.U. che per non cadere in eccessi interpretativi in senso estensivo ed al fine di scongiurare il rischio concreto di eludere il principio di tipicità, la dottrina più recente, nell’ammirevole tentativo di elaborare una nozione unitaria di minaccia, ha specificatamente rimarcato come la prospettazione minacciosa ha sempre per oggetto un male (art. 1435 c.c.) o danno ingiusto (così l’art. 612 c.p.), cioè un fatto contra ius e lesivo di interessi della vittima.
Ha poi evidenziato, in maniera evidente che la minaccia ha sempre come obiettivo la vittima costretta ad agire in assenza di una sostanziale alternativa, non al fine di conseguire per sè un vantaggio, ma per non subire un danno.
E’ dunque, proprio la minaccia, subita da una vittima, che determina, secondo le S.U., la collocazione della fattispecie esaminata nell’alveo della concussione.
E’ agevole intuire quindi che secondo le S.U. il criterio discriminante tra la costrizione e l’induzione vada ricercato nella dicotomia minaccia-non minaccia.
L’induzione viene, in buona sostanza, considerata, in negativo, come effetto che non consegue a una minaccia, conferendo al relativo concetto “una funzione di selettività residuale rispetto al verbo ‘costringere’ presente nell’art. 317 c.p..
Secondo le asserzioni delle SU, l’induzione’ va correlata con l’abuso di potere o qualità dell’agente pubblico nonché con l’elemento della punibilità del privato indotto alla dazione o promessa indebita.
Sempre seguendo la prospettazione argomentativa delle SU, ciò che rivela il vero significato dell’induzione, è, appunto, la punibilità, la quale va interpretata come “alterazione del processo volitivo altrui, che, pur condizionato da un rapporto comunicativo non paritario, conserva, rispetto alla costrizione, più ampi margini decisionali, che l’ordinamento impone di attivare per resistere alle indebite pressioni del pubblico agente e per non concorrere con costui nella conseguente lesione di interessi facenti capo alla p.a.”.
La condotta induttiva, si manifesta quindi mediante la persuasione, la suggestione, l’allusione e, talvolta, persino l’inganno. Ci tramanda la sentenza, che tali condotte vengono messe in essere sotto forma di condizionamento psichico ed “è proprio il vantaggio indebito che, al pari della minaccia tipizzante la concussione assurge al rango di ‘criterio di essenza’ della fattispecie induttiva, il che giustifica…la punibilità dell’indotto”, alla luce del principio di colpevolezza ex art. 27, co. 1 Cost..
Le S.U. pervengono così alla conclusione che il danno ingiusto e l’indebito vantaggio “sono elementi costitutivi impliciti”, rispettivamente, delle fattispecie di cui agli artt. 317 e 319 quater c.p., che non si esimono però dal costituire un riferimento di oggettivo apprezzamento da parte del giudice senza che venga ignorata la sfera conoscitiva e volitiva del privato.
Le S.U. non ignorano tuttavia che se la soluzione indicata si adatta perfettamente ai casi più semplici, in cui è ben riconoscibile la presenza o assenza di un effetto coartante o persuasivo del pubblico ufficiale, non può essere applicata ai casi più complessi e ambigui. Basti pensare a quelli in cui coesistono danno ingiusto e vantaggio indebito. Secondo le SU questi casi devono essere risolti invitando il giudice, sulla base di un’attenta ricostruzione del fatto, a individuare “il dato di maggiore significatività”, ovverosia, accertare se nella scelta di dare o promettere l’indebito, abbia prevalso, nel privato, la volontà di ottenere un vantaggio rispetto all’opzione di evitare un danno.
La sentenza in rassegna non si limita quindi a fissare i principii astratti in materia, ma interviene nel concreto con l’intento di fornire all’interprete una guida sicura passando ed esaminando in rassegna alcuni casi limite:
- Ipotesi di abuso di qualità di un soggetto che impone la propria posizione omettendo di indicare il titolo da cui scaturisce la propria qualità di pubblico ufficiale. Ad esempio il caso dell’agente di polizia il quale pretenda di non pagare al ristoratore una cena con amici. Si dovrà in tal caso valutare, secondo la ricostruzione delle S.U., se il fatto rientri nella semplice sopraffazione o in una più ampia dialettica utilitaristica che si verifica allorquando il gestore del ristorante accondiscenda alla pretesa per imbonire l’agente in prospettiva di futuri favori;
- Ipotesi di prospettazione da parte del pubblico ufficiale di un danno genericoche il destinatario, per autosuggestione, può interpretare come segnali negativi. Anche in questo caso il giudice dovrà valutare se vi è stata o meno prevaricazione costrittiva. Precisano le S.U. che l’iter valutativo affinchè si accerti la sussistenza della predetta prevaricazione, non può non tener conto che quanto più il supposto danno è indeterminato, tanto più l’intento intimidatorio del pubblico agente deve essere dimostrabile in modo chiaro e inequivoco, al fine di poter formulare un giudizio di responsabilità per concussione;
- Ipotesi di minaccia-offerta o minaccia-promessa. Tale circostanza si verifica quando il pubblico ufficiale minaccia un danno ingiusto. In questi casi il giudice è chiamato a valutare se il motivo della dazione o la promessa di dazione dell’indebito avvenga nella prospettiva di evitare il danno o di ottenere un vantaggio da parte del cittadino;
- Ipotesi di minaccia dell’uso di un potere discrezionale. In tal caso si verte in ipotesi di concussione qualora l’esercizio sfavorevole del proprio potere discrezionale viene prospettato in via estemporanea e pretestuosa, al solo fine costrittivo di dazione o promessa di dazione dell’indebito. Si avrà invece induzione indebita quando l’atto o provvedimento discrezionale pregiudizievole per il privato è prospettato nell’ambito di una legittima attività amministrativa, facendo credere che cedendo alla pressione abusiva, è possibile godere di un trattamento indebitamente favorevole.
La sentenza richiama poi situazioni e fattispecie che possono essere etichettate come il caso del ‘primario’ e della ‘prostituta’.
E’ concussione il caso di un primario di una struttura pubblica che allarmi il paziente prospettandogli un intervento d’urgenza salvavita dandogli precedenza e operandolo personalmente previa dazione di danaro. Se è vero che il paziente, cedendo alla pretesa, ottiene un vantaggio indebito è altrettanto vero che lo stesso paziente non è nelle condizioni di gestire il suo processo volitivo, che è in realtà depotenziato dalla prospettiva di esporre a grave rischio la propria vita (la situazione è analoga a quella prevista dall’art. 54, co. 3 c.p.).
Poi c’è il caso della prostituta che il poliziotto invita a ‘salire in macchina’ per evitare guai (giusti o ingiusti che siano). Il sacrificio del bene della libertà sessuale, in spregio di qualsiasi criterio di proporzionalità, finisce per escludere lo stesso concetto di indebito vantaggio.
3. Conclusioni
Il presente lavoro si conclude ricordando che la previsione della punibilità del privato è il vero indice rilevatore del significato dell’induzione. Con detta sentenza le S.U. orientano il fascio di luce oltre che sulla condotta del pubblico agente, anche sugli effetti che essa produce sulla volontà del privato al fine di verificare se la stessa sia stata piegata dall’altrui sopraffazione, ovvero semplicemente condizionata od orientata da pressioni psichiche diverse dalla violenza o dalla minaccia. L’esame così orientato faciliterà l’indagine volta accertare gli elementi costitutivi delle due ipotesi delittuose da ritenersi integrati in quello della concussione, per la prima ipotesi, ed in quello della induzione nella seconda delle due ipotesi sopra prospettate.
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Note
[1]A cura dell’Avv. Raffaele Carone, espero in diritto penale e del Dott. Enzo Quaranta, Ufficiale della Guardia di Finanza
[2]Sentenza Nardi Cass. pen., sez. VI, 21.2.2013, n. 8695
[3]Sentenza Roscia Cass. pen., sez. VI, sent. 3 dicembre 2012, n. 3251
[4]Sentenza Corte di Cassazione del 31 luglio 2013, n. 18368
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