La condizione obiettiva di punibilità ed il segmento tipico
A mente dell’art. 44 cp quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione non è da lui voluto.
La norma rappresenta il fondamento normativo dell’istituto della condizione obiettiva di punibilità ed è espressione delle scelte legislative di politica criminale.
E’ noto che, secondo la concezione metodologica, il legislatore costruisce la norma incriminatrice al fine di tutelare beni giuridici che trovino implicito o esplicito riconoscimento nel tessuto costituzionale.
Può, tuttavia, accadere che egli scelga di subordinare la punibilità di un determinato fatto tipico esclusivamente al verificarsi di una determinata condizione.
Una siffatta scelta e, più in dettaglio, la formulazione della norma prima riportata, che espressamente la codifica, ha, sin dal principio, reso necessario dissipare due principali dubbi ermeneutici:
- se la “condizione” in questione rappresenti o meno elemento strutturale del reato;
- in base alla risposta che si intende fornire al primo quesito, se la stessa sia compatibile con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.
Al fine di fornire una soluzione soddisfacente ai predetti problemi, la dottrina e la giurisprudenza si sono a lungo interrogate, dando vita alla formulazione di due – principali, benché non esclusivi – orientamenti.
Secondo una prima visione, la condizione cui fa riferimento l’art. 44 cp sarebbe da qualificare alla stregua di un elemento costitutivo del reato, pertanto altro non sarebbe se non un elemento aggiuntivo presente in determinate fattispecie.
La predetta posizione, tuttavia, sin dalla sua semplice formulazione, si è esposta a numerose critiche.
In primo luogo, nell’ipotesi in cui effettivamente si intendesse qualificare l’istituto de quo come elemento interno al reato, non si comprenderebbe la ragione della scelta legislativa di dedicare ad essa una apposita disposizione.
Da ciò discende, in secondo luogo e conseguentemente, che la necessità di attribuire rilievo alla collocazione sistematica impone di evitare di confondere i confini con il predetto istituto con quelli che possono definirsi come gli elementi costitutivi del reato.
Agli stessi, infatti, si attribuisce il compito di delineare la condotta tipica, di costruire le fattispecie penalmente rilevanti, a prescindere, volendo aderire alla teoria prevalente della tripartizione, dalla punibilità concreta del reato.
Agli elementi costitutivi, ovvero i segmenti della fattispecie, inoltre, si estende l’accertamento giudiziale della colpevolezza e del nesso causale.
Ogni elemento definito essenziale della fattispecie deve rientrare, nella prevalenza delle ipotesi ai sensi dell’art. 42 comma secondo, nel fuoco del dolo.
Inoltre, occorre necessariamente, prima ancora dell’accertamento della colpevolezza, che venga ricostruito il nesso di causalità materiale tra la condotta, sia essa attiva o passiva, e l’evento naturalistico ovvero la verificazione dell’evento giuridico nell’ottica dei reati di mera condotta.
Qualora la condizione fosse considerata alla stregua di un qualunque segmento tipico, non avrebbe alcun senso definirla tale, in quanto ricadrebbe automaticamente nell’orbita dei predetti accertamenti.
Sulla base di tali considerazioni, è apparsa più convincente la seconda tesi, secondo la quale la condizione è elemento esterno ed accede ad un reato già perfetto, subordinandone alla sua presenza la punibilità.
Tale ragionamento se, da un lato, ha il pregio di riequilibrare i confini tra l’art. 44 cp e gli elementi costitutivi del reato, dall’altro non spiega il rapporto che si viene ad instaurare tra condizione e principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.
Il principio, infatti, si mostra oggi immanente nel nostro ordinamento giuridico, specie all’esito dell’emanazione delle storiche e notissime sentenze nn. 364/88 e 1085/88, e, in materia di error aetatis, n. 322/2007.
Con queste sentenze si è imposta una rivisitazione non soltanto della disciplina della inescusabilità dell’ignoranza del precetto, bensì anche delle forme di responsabilità oggettiva, residuo del versari in re illicita che ancora permea alcune norme del codice Rocco.
Sulla base delle stesse si è stabilita una forma di principio generale a mente del quale ogni segmento della fattispecie incriminatrice deve essere supportato da un coefficiente minimo della colpa.
Pertanto si è reso necessario conciliare il predetto principio con l’inciso dell’art. 44 cp, che dispone che la punibilità del fatto è mantenuta “anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è voluto”.
A tal fine è apparso logico valutare se, effettivamente, la condizione sia in grado di incidere sulla fattispecie accrescendone il grado di offensività o se, per contro, la stessa non sia davvero esterna al reato e non incida sul suo disvalore.
Nel primo caso si parla di condizioni intrinseche, le quali comportano, come conseguenza, in conformità e coerenza con le sentenze prima evidenziate, che l’elemento descritto rientri nel fuoco del dolo o, quantomeno, secondo un orientamento meno rigido, sia imputabile al coefficiente minimo della colpa.
Viceversa, quelle estrinseche, rappresentano solo apparentemente una deroga espressa a tale principio, per poi rivelarsi in realtà con esso compatibili.
Infatti, le stesse oltre a restare esterne al reato, non sono in grado, diversamente rispetto agli elementi costitutivi o alle condizioni intrinseche, di incidere sul disvalore della condotta.
Non contribuiscono all’aumento del grado di offensività, pertanto possono agevolmente sottrarsi al principio di colpevolezza.
L’intera ricostruzione sin qui evidenziata consente dunque di comprendere l’incidenza della qualifica di un segmento come costitutivo o meno del reato, e, qualora lo si qualifichi come elemento esterno, se lo stesso sia considerabile come condizione intrinseca ovvero estrinseca.
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Rapporti tra segmento tipico e condizione obiettiva di punibilità nei delitti di bancarotta fraudolenta
Uno dei terreni più dibattuti sul tema negli ultimi anni è stato quello inerente la sentenza dichiarativa di fallimento nei delitti di bancarotta.
Gli stessi sono collocati nel RD n. 267/1942 e consistono – in linea di massima e volendo dunque garantire solamente una estrema sintesi – nella realizzazione di condotte distrattive, dissapatorie del patrimonio o idonee ad occultarlo tanto da ledere le posizioni creditorie.
I delitti in questione solo indirettamente contengono un richiamo al provvedimento giurisdizionale del quale non si comprende l’esatta qualificazione, in quanto si limitano a rifarsi all’imprenditore fallito o dichiarato fallito, senza dunque individuare al loro interno la sentenza dichiarativa di fallimento, la quale, per contro, è definita esternamente nell’art. 16 del su richiamato Regio Decreto.
Tale considerazione appare ancora più evidente se si rapportano i predetti reati al delitto di incesto, in cui il pubblico scandalo, pacificamente identificato come condizione obiettiva di punibilità, è insito nella struttura della norma.
La collocazione sistematica dell’art. 16, dunque, in via puramente ipotetica e con la sola ed esclusiva finalità di rendere più chiaro un problema particolarmente controverso, potrebbe essere in questa sede considerata come uno degli elementi che hanno indotto a dubitare che la sentenza assuma la veste di elemento costitutivo del reato, tanto da aver acceso un profondo dibattito a livello giurisprudenziale.
Ad esso si è aggiunta la ben nota considerazione secondo la quale la locuzione “se è dichiarato fallito” di cui all’art. 216 comma primo, farebbe comunque rinvio ad una condizione esterna al fatto tipico.
Al riguardo occorre considerare che, secondo un primo orientamento, la sentenza dichiarativa di fallimento si qualificherebbe alla stregua di una condizione obiettiva di punibilità, proprio perché esterna alla fattispecie criminosa, anche sistematicamente.
Pertanto, sulla base di questa considerazione, resterebbe da valutare se la stessa sia intrinseca e quindi idonea ad accrescere il disvalore delle ipotesi di bancarotta, ovvero estrinseca e, pertanto, operante solo in punto di punibilità del reato, senza rilievo del coefficiente soggettivo.
Sebbene un primo orientamento l’avesse qualificata come intrinseca, si è ritenuto, tuttavia, preferibile la tesi che la qualifica come estrinseca.
Ciò in quanto le fattispecie di bancarotta postulano pur sempre che sussistano condotte idonee a dissipare il patrimonio riducendo conseguentemente la posizione creditoria.
Pertanto è apparso evidente come, in tali contesti, la sentenza di fallimento non si presti ad accrescere il disvalore già sviluppato nell’ambito delle condotte distruttive o dissimulatorie o implicanti il riconoscimento di passività inesistenti.
La totale estraneità, anche in punto di elemento soggettivo, rispetto ai reati ha trovato, tuttavia, numerose opposizioni.
Si è, infatti, in un secondo momento, ritenuto che in realtà tra la dichiarazione di fallimento e le condotte distrattive sussista una forte connessione e che la dichiarazione di fallimento rappresenti un quid pluris rispetto alla mera condotta dissipatoria che, di per sé, se da un lato è idonea ad incidere sulla garanzia patrimoniale, dall’altro non postula immediatamente il fallimento, il quale, dunque, si presta ad accrescere la portata della condotta tipica, aumentandone il disvalore e sancendo la definitiva perdita della garanzia patrimoniale dei creditori, salva immissione nel passivo.
Conseguentemente, la sentenza dovrebbe assumere la valenza di condizione intrinseca e non estrinseca, come inizialmente ritenuto.
Tra le elaborazioni dottrinali riportate, giova ricordarlo, è, inoltre, emerso anche un ulteriore e peculiare orientamento, il quale si propone di considerare la condizione come elemento sui generis in quanto interno al reato e non esterno, ma privo di rilievo sotto il profilo della ricostruzione dell’elemento soggettivo.
Tutte le ricostruzioni sin qui evidenziate sono state messe in dubbio in un secondo momento da una pronuncia significativa, rimasta per molti anni isolata e, ciò nonostante, divenuta oggetto di studio.
Ci si riferisce alla sentenza c.d. Corvetta n. 47502 del 2012.
Con essa si era sancita la necessità di estendere il coefficiente soggettivo allo stato di insolvenza, ricollegandolo causalmente alla condotta dissipatoria o distrattiva e qualificando il predetto stato come evento del reato.
Tale ricostruzione rendeva e, rende in linea generale, più difficile svincolare totalmente la sentenza dichiarativa di fallimento dal coefficiente minimo della colpa, dal momento che lo stato di insolvenza espone conseguentemente il soggetto al fallimento.
Inoltre, la stessa dichiarazione di fallimento postula uno stato di insolvenza.
Pertanto su tali basi, appariva difficile anche qualificare la sentenza come condizione obiettiva di punibilità, dal momento che appariva più logico collegare causalmente anche la predetta sentenza alla condotte tipiche attive.
Nonostante tali argomentazioni, la giurisprudenza si è sempre mostrata favorevole alla qualificazione come condizione di punibilità estrinseca, negando, tra l’altro, la necessità di ricostruzione di un nesso causale tra distrazione ed imprenditore insolvente.
Tale convincimento sembra, tuttavia, essere stato nuovamente rimesso in discussione da una pronuncia piuttosto recente, più vicina all’orientamento rimasto isolato, nella quale, contrariamente all’excursus giurisprudenziale fin qui ricostruito, si è inteso ritenere la sentenza non come condizione di punibilità, bensì come segmento del fatto tipico e, dunque, come elemento costitutivo del reato.
Seguendo, quindi, questa impostazione si dovrebbe, allora, ritener prive di pregio le considerazioni inizialmente svolte, seppure solo a titolo esemplificativo, inerenti la portata dell’art. 16 legge fallimentare.
A tale norma può solo essere attribuita valenza meramente descrittiva del provvedimento giurisdizionale ed espressione di uno degli elementi tipici delle diverse forme di bancarotta.
Le stesse, infatti, pur non contenendo per esteso la locuzione “sentenza dichiarativa di fallimento” ne postulano l’esistenza ed, anzi, l’intervenuta dichiarazione.
Conseguentemente, si comprende la ragione per la quale la più recente giurisprudenza attribuisca, alla locuzione “se è dichiarato fallito” di cui all’art 216 comma primo, la valenza di segmento idoneo ad individuare il momento consumativo del reato.
Ne consegue che la sentenza di fallimento, qualificabile, secondo questa pronuncia, come elemento costitutivo del reato, può essere considerata come l’elemento idoneo a segnare il confine tra delitto tentato e delitto consumato.
Ciò in quanto gli atti diretti al compimento delle condotte dissipatorie idonei a ledere il bene protetto dalle norme rendono necessario, ai fini della integrazione compiuta del reato, che si sfoci in una sentenza dichiarativa delle stesse.
Pertanto sia la sentenza sia il necessario stato di insolvenza sembrano atteggiarsi, come anticipato nel precedente giurisprudenziale indicato, alla stregua di evento (naturalistico) dei reati e, dunque, di segmenti costitutivi del fatto tipico.
Conclusioni: i passaggi salienti della sentenza
A chiusura delle ricostruzioni appena svolte, si vogliono riportare alcuni passaggi salienti della sentenza oggetto di attenzione.
In particolare, può essere segnalato il seguente passaggio motivazionale : “quanto alla qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato,piuttosto che come condizione obiettiva di punibilità, va detto per quanto di rilievo in questa sede, che il Collegio aderisce all’orientamento secondo cui, in tema di bancarotta, la dichiarazione di fallimento è un elemento costitutivo del reato e non una condizione oggettiva di punibilità; pertanto, il reato si perfeziona in tutti i suoi elementi costitutivi solo nel caso in cui il soggetto, che abbia commesso anche in precedenza attività di sottrazione dei beni aziendali, sia dichiarato fallitto […]. Come noto, un diverso , più recente orientamento giurisprudenziale ha affermato, invece, che la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce condizione di punibilità, che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali alle condotte del debitore – di per sé offensive degli interessi dei creditori in quanto espongono a pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni – segue la dichiarazione di fallimento.”
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Bibliografia principale
Marinucci G., Dolcini E., manuale di diritto penale parte generale, V ed., 2015;
Garofoli R., Manuale di diritto penale parte generale, XV ed., 2018/2019;
Sentenza n. 40477 del 12/09/2018 Cassazione Penale, sez. V.
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