Condomino e cosa comune: Corte di Cassazione, sentenza n.° 14652 del 11 giugno 2013

1. Massima.

In tema di condominio, ai sensi dell’art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. L’apertura di finestre ovvero la trasformazione di luce in veduta su un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai condomini ai sensi dell’art. 1102 cc., tenuto conto che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, ben sono fruibili a tale scopo dai condòmini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva. Ed invero, in considerazione della peculiarità del condominio, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di unità immobiliari che insistono nel medesimo fabbricato, i diritti e gli obblighi dei partecipanti vanno necessariamente determinati alla luce della disciplina dettata dall’art. 1102 c.c.: qualora il condòmino abbia utilizzato i beni comuni nell’ambito dei poteri e dei limiti stabiliti dalla norma sopra richiamata, l’esercizio legittimo dei diritti spettanti al condomino iure proprietatis esclude che possano invocarsi le violazioni delle norme dettate in materia di distanze fra proprietà confinanti.

 

2. Questione.

I proprietari di alcune unità immobiliari, facenti parte dello stesso edificio, citano davanti al tribunale la Sig. ra B., chiedendone la condanna della convenuta alla eliminazione di “una tettoia ed un vano sottostante la finestra degli attori” in quanto tali opere sarebbero state realizzate in violazione del disposto dell’art. 907 c.c..Gli attori chiedevano altresì l’eliminazione delle vedute nel cortile, nonché delle finestre tutte realizzate dalla stessa convenuta, con la precisazione che, con riferimento alle vedute, queste sarebbero state realizzate abusivamente. Invece le finestre sarebbero state ricavate mediante opere di modifica degli originali punti luce. In particolare, gli attori sostengono che con tale opera la convenuta avrebbe fatto un uso arbitrario del muro perimetrale, e ciò avrebbe comportato una serie di conseguenze:

-un incremento del carico sulla struttura portante del fabbricato,

-una lesione al decoro architettonico di quest’ultimo,

-i locali, ubicati sotto la proprietà degli attori, risulterebbero illegittimamente modificati nella loro destinazione.

Oltre alle predette eliminazioni gli attori chiedono anche il risarcimento del danno.

La convenuta basa la propria difesa sostanzialmente affermando che ha eseguito soltanto opere di ristrutturazione e non di costruzione ex novo, in quanto “la tettoia ed il casotto” erano già stati costruiti sin dal 1951. Inoltre, sostiene che è stato invece proprio l’attore ad aver eseguito alcune costruzioni commettendo un abuso edilizio. Di conseguenza la convenuta propone domanda riconvenzionale a mezzo della quale chiede la demolizione delle suddette “abusive costruzioni, limitatamente a quelle lesive dei suoi diritti”, la restituzione della loro quota per quel che riguarda l’esecuzione di alcuni lavori, nonché la demolizione delle scale costruite dagli attori. Il giudice di primo grado, dopo aver eseguito l’istruttoria anche mediante l’ausilio della C.T.U., accoglie in parte la domanda dell’attore, e condanna la convenuta a demolire parte dell’opera fino al ripristino della regolare distanza, conformemente a quanto dispone l’art. 907 c.c.. Vengono integralmente respinte le domande riconvenzionali.

 

3. Il giudizio in appello.

La Sig. ra B interpone appello nel quale insiste nella domanda riconvenzionale a mezzo della quale aveva chiesto la demolizione dell’abuso edilizio realizzato dell’attore. I proprietari (attori in primo grado) resistono e propongono appello incidentale condizionato all’accoglimento di quello principale in riferimento al manufatto posto a distanza illegittima. In questo giudizio la Sig. ra B viene condannata alla chiusura anche del finestrino avendo tale giudice accolto parzialmente l’appello incidentale. Nel giudizio d’Appello vengono introdotte per la prima volta alcune questioni aventi ad oggetto le distanze stabilite dal “Regolamento edilizio del comune di Ercolano”. Ed anche i connessi accertamenti in fatto erano “del tutto diversi da quelli introdotti nel giudizio di primo grado”. Com’è noto, l’art. 345 c.p.c., vieta l’introduzione in appello di domande nuove. Più precisamente, tale norma dispone che le domande nuove proposte in appello devono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. E non possono neppure essere proposti né nuovi documenti e né nuovi mezzi di prova, a meno che la parte non riesca  a dimostrare di non aver potuto proporli o produrli in primo grado per causa ad essa non imputabile (Terzo comma, art. 345 c.p.c.). Sulla base di ciò, dunque, tali questioni nel giudizio d’appello “cadevano sotto il divieto di cui all’art. 345 c.p.c.”
Con riferimento ai due finestrini che l’appellante ha aperto sul muro di confine, il giudice di secondo grado decide che l’apertura di una di esse “rientra nel lecito uso della cosa comune ex. Art. 1102 c.c.”, perché si affacciava in un’area ricavata tra le due proprietà. Dell’altra finestra invece ne viene disposta la chiusura. Viene in evidenza un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, si rileva che la CTU aveva evidenziato la mancanza della prova certa della preesistenza della finestra stessa. In secondo luogo, la finestra incide sul muro comune e dunque deve essere chiusa, sottolineando altresì che per l’apertura di luci e vedute che incidono sul muro comune è necessario il consenso scritto dell’altro proprietario.

 

4. Il giudizio per cassazione.

I controricorrenti sollevano l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale in quanto non sarebbe autosufficiente. Il giudice di legittimità respinge tale eccezione in quanto non vi è il bisogno di esaminare alcuna documentazione, e ciò perché il ricorso si basa su una chiara ed esauriente ricostruzione della vicenda, sia sotto il profilo sostanziale e sia sotto quello processuale. Ricostruzione che risulta essere pacifica tra le parti. La ricorrente si lamenta del fatto che la Corte d’appello non ha tenuto conto della relazione del CTU nella specifica parte di essa in cui l’esperto dichiara che il manufatto costruito dalla ricorrente (manufatto che in appello ne è stata confermata la demolizione perché costruito in violazione delle distanze stabilite dall’art. 907 c.c.) “è irrilevante ai fini dell’intera visuale e non pregiudica a parere dello scrivente la comoda veduta della finestra dell’appellato”. Con riferimento alla domanda riconvenzionale, a mezzo della quale si chiedeva la demolizione del manufatto per violazione del Regolamento edilizio, i ricorrenti denunciano che il giudice sarebbe incorso nel vizio di omessa motivazione, configurandosi così la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. La Corte di cassazione, invece, stabilisce che “il motivo è palesemente infondato” in quanto il giudice del gravame non ha tenuto conto di tale domanda riconvenzionale “proprio perché si trattava di una questione nuova”.

 

5. L’interpretazione dell’art. 907 c.c..

La ricorrente osserva che l’art. 907 c.c., ha la finalità di preservare l’igiene e la sicurezza e garantire così aria e luce sufficiente agli immobili. Per tale ragione, e tenuto altresì conto della relazione del CTU, la norma in questione – secondo la la ricorrente – “non troverebbe applicazione” al caso di specie. La corte di cassazione decide che “La censura è in inammissibilmente formulata”, precisando che inammissibilità si riferisce tra l’altro alla parte del ricorso con cui il ricorrente chiede una nuova valutazione di merito. È ormai principio consolidato che alla corte di cassazione “è consentito soltanto il controllo della logicità e della congruità della motivazione, sulla base della specifica indicazione delle risultanze, ritualmente già acquisite in causa, asseritamente trascurate ed omesse”. Nella fattispecie il ricorrente si era appunto limitato ad asserire che la finalità dell’art. 907 c.c. è soltanto quella di salvaguardare l’igiene e la sicurezza pubblica. Un altro importante aspetto che emerge dalla sentenza in rassegna è che quando una non viene attaccata una ratio decidendi della Corte d’appello, nel giudizio di legittimità la decisione ad essa riferita resta confermata. Nel caso di specie, la Corte d’appello rigetta il gravame in quanto “la tettoia realizzata dalla B, costituiva violazione della veduta goduta dalle controparti, ex. Art. 907. c.c.”. Ora, dato che i ricorrenti non hanno censurato questa ratio decidenti, proprio perché si è limitato ad asserire che l’art. 907 c.c., avrebbe soltanto la finalità di garantire igiene e sicurezza pubblica, ne consegue che anche nel giudizio per Cassazione resta confermato che “la tettoia della B è limitativa della veduta”. Il giudice di legittimità, sulla scia di un suo consolidato orientamento (Cass. n. 4389/2009; Cass.: n. 5390/1999; Cass.: n. 15381/2000), decide che “le vedute, implicando il diritto ad una zona di rispetto, che si estende per tre metri in direzione orizzontale della parte di più esterna della veduta e per tre metri in verticale rispetto al piano corrispondente alla soglia della veduta medesima, comporta che ogni costruzione che venga a cadere in questa zona è illegale e va rimossa”. Lo stesso giudice stabilisce, altresì, che “per effetto delle limitazioni previste dall’art. 907 c.c., a carico del fondo su cui si esercita una veduta (…) deve osservarsi un distacco di metri tre in linea orizzontale dalla veduta diretta, ed eventualmente anche dai lati della finestra da cui si esercita la veduta obliqua, e, in stretta correlazione strumentale con le limitazioni cui tendono i primi due commi, dell’art. 907 c.c., deve osservarsi analogo distacco anche in senso verticale per una profondità di tre metri al disotto della soglia della veduta”. Inoltre, si stabilisce che al titolare della veduta si garantiscono non soltanto i benefici che derivano dal ricevere aria e luce, ma anche la “completa e piena visione del fondo servente” (Cfr.: Cass.: 11217/1991). Che si tratti di costruzioni di appoggio o costruzioni in aderenza, l’obbligo di rispettare le distanze deve comunque essere osservato. È quanto ha deciso la Corte d’appello che ha trovato conferma in cassazione trattandosi, oltretutto, di un orientamento pacifico del giudice di legittimità (Cass.: 4976/2000, Cass.: 22954/2011).

 

6. L’interpretazione dell’art. 1120.

Com’è noto l’art. 1120 cc.,disciplina le “Innovazioni”, consentendo la realizzazione di opere al fine di rendere le cose comuni più comode da utilizzare o che diano un rendimento maggiore, o che semplicemente risultino migliorate rispetto a prima. Si potrebbe pertanto affermare che le innovazioni ex art. 1120 cc., mirano a conferire una sorta di valore aggiunto alle parti comuni. Dall’esame della sentenza in discorso emerge un orientamento consolidato del giudice di legittimità con riferimento al “senso tecnico giuridico” della innovazione vietata ai sensi dell’art .1120 c.c.. Dunque la corte chiarisce che con tale divieto si intende “non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria” (Nello stesso senso: Cass.: n 11936/1999, Cass.: 6146/1998, Cass.: 8622/1998). Ora, dato che la decisione del giudice d’appello “è congruamente motivata” oltre che “conforme alla giurisprudenza” della Corte di cassazione, quest’ultimo giudice decide che “la censura è prima che infondata inammissibile”. Con riferimento al secondo motivo di impugnazione, a mezzo del quale i ricorrenti lamentano che il giudice d’appello ha rigettato la loro domanda con la quale hanno chiesto che venisse ordinata la chiusura “delle luci aperte illegittimamente dalla Sig. ra B”, la Corte di cassazione decide con il principio di diritto riportato in massima alla quale dunque si rimanda.

In buona sostanza, ogni condòmino ha il diritto di servirsi della cosa comune, nel rispetto degli altri condomini ai quali se ne deve garantire “un uso paritetico”.

 

7. Il rapporto tra i diritti previsti dalla disciplina sul condominio, ed i limiti previsti dalla disciplina sulle distanze.

Un altro passaggio chiave della sentenza in discorso, lo si può notare con riferimento alla decisione del giudice di legittimità inerente alle opere realizzate dalla resistente, la signora B. (apertura di finestre trasformazione di luci in vedute) in quanto, tra l’altro, porta ad un interessante confronto tra due discipline: da un lato, la quella dettata in materia di condominio – con particolare riferimento ai vari diritti dei condòmini – e, dall’altro lato, la disciplina che invece regola le distanze (più precisamente, i limiti in essa previsti). Per quel che riguarda la realizzazione  delle opere suddette, la Corte di cassazione decide che ciò rientra proprio nel suddetto diritto che ogni condomino ha di usare la cosa comune la quale, nel caso di specie, è il cortile comune.

In buona sostanza, tenuto conto della particolare conformazione del condominio, se il condomino si è avvalso correttamente del proprio diritto di utilizzare i beni comuni (in particolare ciò avviene rispettando quanto impone l’art.1102, c.c.), ne consegue che non si applicano gli altri limiti dettati dalla disciplina sulle distanze inerenti alle proprietà confinanti tra loro.

Pugliese Marcello

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