Condono edilizio. – Non ogni singolo errore presente nell’istanza di condono edilizio di per sé solo si deve ritenere dolosamente infedele. A tal risultato si può giungere, secondo ragionevolezza, solo a causa della rilevanza delle omissioni o delle inesattezze riscontrate ed in esito al completo riesame della domanda.
Il fatto
Nella sentenza qui in esame l’adito Collegio di Palazzo Spada è chiamato ad intervenire in tema di condono edilizio soffermandosi così (tra l’altro) sulle conseguenze sottese all’ipotesi in cui, nella relativa istanza, il privato incorra in “errore”.
Preliminarmente è opportuno sottolineare come il termine “sanatoria” tradizionalmente sottende due istituti (sanatoria edilizia, da un lato, condono edilizio, dall’altro lato) tra loro del tutto diversi per presupposti e per finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella legittimazione di un intervento edilizio successiva alla sua realizzazione.
L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” (ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001) consiste nella regolarizzazione degli abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma al tempo stesso senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia conformità”).
La genesi dell’istituto risale alla L, 28 febbraio 1985, n. 47 (art. 13), che ha ripreso, ampliandone la portata, la limitata previsione già contenuta nella L. 28 gennaio 1977, n.10.
Il termine “condono”, da parte sua, seppure entrato nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi sul condono: la prima è contenuta nei capi IV e V L. n. 47/1985; le successive sono quella ex art. 39 L. 23 dicembre 1994, n. 724 (c.d. “secondo condono”) – la cui disciplina procedimentale è stata completata con la L. n. 662 del 1996 – nonché quella ex art. 32 L. 24 novembre 2003, n. 326, di conversione del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (Cons. Stato, sez. VI, 7 aprile 2021, n. 2796).
Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al condono si siano chiuse rispettivamente il 30 novembre 1985, il 31 marzo 1995 e il 10 dicembre 2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto: sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze, infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza, al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi delle sanatorie edilizie.
L’art. 35, comma 17, L. n. 47/1985 pone la regola del silenzio-assenso serbato sulle istanze di condono (dopo 24 mesi della loro presentazione) che deve essere conciliato con il rilievo che spesso le stesse (istanze) non presentano neppure i requisiti minimi ovvero sono prive del corredo documentale obbligatorio perché il termine possa perfino cominciare a decorrere.
Sul punto più volte il Consiglio di Stato ha sottolineato che la completezza della domanda è da intendersi nel senso del suo corredo documentale obbligatorio, che avuto riguardo alle somme dovute, incide sia sulla decorrenza del termine per la formazione del silenzio assenso, sia ai fini della riconosciuta possibilità alla P.A. di verificare la congruità dei versamenti effettuati (Cons Stato, sez. II, 12 aprile 2021, n. 2952).
Quanto detto non giustifica tuttavia le rilevate giacenze, stante che a maggior ragione a fronte di iniziative inconsistenti sul piano giuridico il Comune dovrebbe determinarsi nel senso dell’archiviazione o del rigetto, anziché attendere una qualche iniziativa compulsiva della parte privata, con ciò riallineando la situazione di diritto a quella di fatto.
Ciò a maggior ragione tenuto conto che l’art. 38, I, L. n. 47 del 1985, prevede espressamente che la presentazione della domanda di condono entro il termine perentorio di legge (e nei modi di legge), sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative e che il successivo art. 44 della medesima legge, precisa poi che dalla sua entrata in vigore e fino alla scadenza dei termini per la presentazione della domanda di condono, sono sospesi i procedimenti (amministrativi e giurisdizionali) sanzionatori.
L’indicazione, comprensibile in ragione della particolare incisività del vaglio richiesto all’Amministrazione, finanche con riferimento alla correttezza dell’oblazione sulla base di indicazioni tipologiche tabellari non sempre di immediata applicabilità, in combinato disposto con i ritardi nella definizione delle pratiche, determina una stigmatizzabile procrastinazione di situazioni da vagliare (anche alla luce della natura permanente dell’illecito edilizio).
La domanda di condono edilizio, come visto, sospende per esplicita previsione del Legislatore il procedimento sanzionatorio e, laddove sia accolta, determina la definitiva inapplicabilità delle sanzioni.
Di conseguenza le eventuali ordinanze demolitorie già emanate, pur non essendo illegittime, perdono la propria efficacia e non possono essere portate in esecuzione.
Il tempo necessario alla definizione della pratica, che implica una effettiva valutazione dell’abuso sotto il profilo della rispondenza ai parametri, anche temporali, imposti dalla legge, rende necessario reiterare l’ingiunzione a demolire, che trova il proprio fondamento non più nella abusività originaria dell’opera, quanto piuttosto nella sua non condonabilità.
Questa soluzione è pacifica per la sanatoria straordinaria, anche perché le leggi di condono sono chiare in tal senso. Ciò si riverbera sull’eventuale provvedimento acquisitivo, il quale, se assunto prima della definizione dell’istanza di condono, è illegittimo e suscettibile di annullamento. Si riverbera altresì sul regime processuale, determinando l’inammissibilità ovvero l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria eventualmente già adottata, in quanto di fatto caducata (inefficace) dall’avvenuta presentazione della istanza di condono.
Altro principio di diritto fondamentale è quello secondo cui la presenza di una dichiarazione mendace, da parte dell’interessato, all’interno di una istanza per il condono edilizio (si pensi all’ipotesi di una falsità in ordine alla data di realizzazione dell’intervento) non può che comportarne il rigetto, non potendo validamente invocarsi neppure la formazione del silenzio assenso.
La decisione
In merito a tale questione è noto come il nostro ordinamento veda con particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false.
La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2017, n. 1172) sottolinea come in base all’art. 75 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto responsabilità.
È stato altresì chiarito che la dichiarazione deve essere “necessaria” ai fini dell’adozione del provvedimento favorevole al privato e i suoi contenuti devono fondare, costituendone presupposti di legittimità, la determinazione provvedimentale dell’amministrazione, sicché la non veridicità rileva in quanto abbia determinato l’attribuzione di un beneficio, e non quale falsa rappresentazione in sé, irrilevante rispetto al conseguimento dello stesso (Cons. Stato, sez. V, 6 luglio 2020 n. 4303; Cons. Stato, sez. V, 16 marzo 2020 n. 1872).
Nella sentenza qui in esame, infine, l’adito Collegio di Palazzo Spada nega l’equivalenza tout court tra errore dell’istante il condono e dichiarazione del medesimo “dolosamente infedele” a tale risultato (di equivalenza) potendosi giungere solo avuto riguardo al singolo caso concreto analizzato nella sua completezza.
- n. 47/1985; L. n. 724/1194; D.L. n. 269/2003
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