Condono edilizio: vietato chiedere integrazioni documentali a tempo scaduto

È un severo altolà quello che arriva per la Soprintendenza e, dunque, per l’amministrazione statale dai giudici del T.A.R. Campania Napoli, Sez. VI (Pres. Scudeller, Est. Vampa), che, con la sentenza n. 5503/21, depositata il 16 agosto 2021, pubblicata a parte, hanno accolto il ricorso di un cittadino di nazionalità britannica al quale era stata recapitata, nell’ambito di un procedimento di condono edilizio, una richiesta di integrazione documentale, bocciata come strumentale e dilatoria, poiché pervenuta fuori termine, addirittura dopo il rilascio del permesso in sanatoria e della presupposta autorizzazione paesaggistica.

Indice

  1. La vicenda giudiziaria
  2. La strumentalità e la illogicità della richiesta istruttoria
  3. La sentenza del T.A.R.
  4. La parallela giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di annullamento della autorizzazione paesaggistica
  5. Riflessioni conclusive

1. La vicenda giudiziaria

Per meglio inquadrare gli esatti termini della questione, appare opportuna una breve ricostruzione della vicenda, che può essere così riassunta.

Il ricorrente acquistava nel lontano 2005 un fabbricato per civile abitazione sito in Forio d’Ischia alla località Montecorvo, per il quale l’originaria proprietaria e dante causa aveva presentato al comune regolare domanda di condono edilizio in data 1^ marzo 1995, ai sensi della legge n. 724 del 1994, la cui pendenza aveva determinato la commerciabilità del bene.

A distanza di oltre 22 anni, veniva dato finalmente impulso al procedimento.

Quindi, svolta l’istruttoria di rito ed acquisito il parere favorevole della commissione locale per il paesaggio, essendo la zona assoggettata a vincolo, la civica amministrazione trasmetteva alla Soprintendenza la relativa documentazione, la quale, tuttavia, nei successivi 45 giorni, ovvero nel termine assegnatole dall’art. 146, commi 5 e 8, del d.lgs. n. 42/04, per la formulazione del parere di propria competenza,  rimaneva inerte e silente.

In questi casi, come chiarito anche dal T.A.R., che ha escluso l’applicabilità dell’art. 17 bis della legge n. 241/90 invocato dal ricorrente, il silenzio assume valore  di ”silenzio devolutivo”, che sta a significare che, decorso il termine di legge, il funzionario comunale responsabile per il paesaggio è tenuto, comunque, a chiudere il procedimento, rilasciando l’autorizzazione paesaggistica, laddove spettante.

Allo stesso modo il responsabile dell’ufficio tecnico è legittimato a rilasciare all’interessato il permesso finale.

Ciononostante, la Soprintendenza, non avendo ritenuto, nella specie, esaurito l’iter procedimentale, provvedeva a richiedere, nel giugno 2018, ovvero a distanza di mesi dalla ricezione degli atti e, per giunta, a fronte di titoli abilitativi già rilasciati, la documentazione a suo dire mancante, vale a dire:

– “atti in originale del condono edilizio, (con la precisazione che) la documentazione da produrre dovrà dimostrare in modo certo l’esistenza e l’epoca dell’abuso”;

– “documentazione fotografica che inquadri l’edificio in tutte le sue parti, sia nei particolari sia nell’insieme, nonché l’intera zona in cui è ubicato il manufatto, se è possibile con ripresa dall’alto in modo tale da rilevare le caratteristiche del paesaggio”.

E ciò espressamente avvertendo che “il termine per l’emissione del parere di cui all’art. 146 non può considerarsi iniziato e che tale termine, diversamente, inizierà a decorrere dalla data di ricezione della documentazione mancante sopra evidenziata”.

Avverso tale determinazione proponeva ricorso l’interessato, lamentandone la illegittimità sotto molteplici profili e chiedendone conseguentemente l’annullamento.

Deduceva, in particolare, che l’impugnata richiesta di integrazione documentale, in quanto tardiva ed “extra ordinem”, era da ritenere “inutiliter data”, oltre che illegittima e lesiva della sua posizione soggettiva, in quanto chiaramente elusiva del termine perentorio previsto per legge a garanzia della certezza dei rapporti giuridici tra P.A. e cittadino.

Tale richiesta, infatti, era intervenuta non solo quando l’autorizzazione paesaggistica era stata rilasciata da oltre quattro mesi, ma addirittura quando l’intero procedimento si era già concluso con il definitivo rilascio del permesso a costruire in sanatoria.

Aggiungeva, inoltre, che, per costante giurisprudenza, nelle ipotesi di silenzio assenso ex art. 17 bis della legge n. 241 cit., una volta decorso il termine fissato dalla legge per provvedere, il potere dell’amministrazione deve considerarsi consumato, potendo quest’ultima procedere solo in sede di autotutela all’annullamento dell’atto tacito illegittimamente formatosi (così, fra le tante, T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 9 ottobre 2007 n. 1633; T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. II, 22 ottobre 2004, n. 5054; Consiglio di Stato, Sez V, 22 giugno 2004, n. 4335, T.A.R. Puglia Bari, Sez. II, 7 aprile 2003, n. 1633, nonché, da ultimo, anche T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 28 maggio 2018, n. 3493, secondo cui: « qualora, alla data di adozione del provvedimento impugnato, il titolo si è già formato per scadenza del termine previsto dalla legge, l’Amministrazione, dopo la scadenza di tale termine, non può limitarsi a rigettare l’istanza, ma deve provvedere all’annullamento in autotutela del titolo formatosi per silenzio assenso »).

Quanto, infine, al merito della impugnata istanza di integrazione documentale, il ricorrente eccepiva che, in caso di incompletezza della documentazione, la Soprintendenza può formulare istanze istruttorie integrative solo “a condizione che non si tratti di ingiustificati aggravamenti del procedimento determinati da richieste pretestuose, dilatorie o tardive” (v., sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 20 maggio 2014, n. 2532).

Del resto, già nella vigenza dell’art. 159 del d.lgs. n. 42/04 la giurisprudenza amministrativa aveva precisato che la richiesta di atti ulteriori rispetto a quelli oggetto del procedimento conclusosi con il rilascio del nulla osta da parte dell’ente comunale non era idonea ad interrompere il termine perentorio di sessanta giorni previsto per l’esercizio del potere statale di annullamento.

Il Consiglio di Stato, in particolare, con sentenza della Sezione VI del 12 agosto 2002, n. 4182, si era così espresso in materia.

La tesi, oltre ad essere corretta, è anche conforme agli ulteriori principi elaborati dal Consiglio di Stato in ordine al procedimento di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche;

Al riguardo, si rileva che la giurisprudenza, data ormai per pacifica la perentorietà del termine di 60 giorni (cfr., Cons. Stato, VI, n. 1267/94, n. 558/96, 1825/96 e n. 129/98), previsto per l’esercizio del potere di annullamento, ha ritenuto che tale termine decorra dalla ricezione da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione rilasciata e della documentazione tecnico – amministrativa, sulla cui base il provvedimento è stato adottato; in caso di omessa o incompleta trasmissione di detta documentazione, il termine non decorre e la Soprintendenza legittimamente richiede gli atti mancanti (cfr., fra tutte, Cons. Stato, VI, n. 114/98).

Tale richiesta istruttoria può, quindi, essere effettuata nel solo caso di mancata trasmissione della documentazione, sulla cui base l’autorizzazione è stata rilasciata, e non di altra documentazione ritenuta utile dalla Soprintendenza.

Una volta che la documentazione acquisita nel procedimento conclusosi con il nulla osta comunale sia stata trasmessa in modo completo, unitamente ovviamente all’autorizzazione stessa, si deve ritenere che decorra il termine di sessanta giorni per l’esercizio del potere di annullamento senza che lo stesso possa essere interrotto da richieste istruttorie, che risultano idonee ad interrompere il termine solo in caso di incompleta trasmissione della documentazione su cui l’ente regionale (o sub-delegato, come nel caso di specie) si sia pronunciato.

Del resto, tale impostazione appare conforme alla natura di riesame di sola legittimità, e non di merito (confermato dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 9 del 14-12-2001), di cui al predetto potere di annullamento: se la Soprintendenza ritiene che l’autorizzazione è stata rilasciata in assenza della documentazione necessaria, potrà annullare l’atto, rilevando il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria. Comunque, qualora l’autorità preposta al controllo ritenga di dover acquisire elementi ulteriori rispetto a quelli posti alla base dell’autorizzazione, potrà acquisirli direttamente tramite un sopralluogo, o delegare tale acquisizione, tenendo però conto che tale richiesta non è idonea ad interrompere il termine perentorio di 60 giorni per la conclusione del procedimento, in quanto relativa a documenti diversi ed ulteriori, rispetto a quelli acquisiti nel procedimento conclusosi con l’autorizzazione. Ogni diversa interpretazione attribuirebbe alla suddetta autorità un potere che potrebbe agevolmente essere sospeso indefinitamente con richieste di elementi integrativi, che condurrebbero al concreto risultato dell’elusione del termine perentorio. Una siffatta elusione del termine perentorio finirebbe per porsi in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale in materia di distribuzione legislativa, tra Stato e Regioni, dei poteri autorizzatori in ambito paesaggistico, alterando, attraverso un potere di annullamento in pratica esercitabile senza termine certo, quel principio di giusto equilibrio tra i poteri di varie autorità, valorizzato dal giudice delle leggi” (v. anche Corte Cost. n. 359 del 18 dicembre 1985, n. 153 del 24 giugno 1986, n. 302 del 9 marzo 1988 e n. 1112 del 12 dicembre 1988, nonché T.A.R. Sardegna n. 1081 del 10 luglio 2001).

2. La strumentalità e la illogicità della richiesta istruttoria

Nella specie, la richiesta formulata dalla Soprintendenza, oltre ad apparire strumentale, era oltretutto anche illogica, giacché la documentazione richiesta era in realtà già in suo possesso, essendole stata regolarmente trasmessa dal comune di Forio con nota dell’11 ottobre 2017.

La predetta documentazione, comprensiva di relazioni, elaborati grafici e rilievi fotografici da ogni angolazione, rappresentava compiutamente e specificava in dettaglio gli interventi eseguiti, sicché l’atto impugnato, nella parte in cui esigeva l’acquisizione di ulteriore documentazione fotografica “che inquadri l’edificio in tutte le sue parti, sia nei particolari sia nell’insieme, nonché l’intera zona in cui è ubicato il manufatto”, si rivelava anche ultroneo ed ingiustificato.

Quanto, poi, alla affermazione contenuta in tale nota, secondo cui: « il termine per l’emissione del parere di cui all’art. 146 non può considerarsi iniziato e che tale termine, diversamente, inizierà a decorrere dalla data di ricezione della documentazione mancante sopra evidenziata », il ricorrente eccepiva, altresì, che, in fattispecie analoga, proprio il T.A.R. Campania, con sentenza n. 3378 del 10 maggio 2017, aveva affermato che « quando si tratta di atti destinati ad avere efficacia esterna, in particolare come in questo caso di un atto idoneo a interrompere un termine perentorio, la data che rileva non è quella di predisposizione del documento, ma quella di effettivo invio al soggetto destinatario ».

In definitiva, anche a voler prescindere dal fatto che, nella specie, era già abbondantemente decorso il termine perentorio di 45 giorni entro cui la Soprintendenza avrebbe potuto formulare il proprio parere, il ricorrente ribadiva con forza la illegittimità di una richiesta istruttoria, come quella impugnata, avente ad oggetto una documentazione secondaria e marginale, inidonea ad integrare il concetto di “necessaria istruttoria” che eccezionalmente avrebbe potuto giustificare la interruzione del termine perentorio per l’esercizio del potere consultivo dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.

In tale ipotesi, infatti, “la richiesta istruttoria, pretestuosa e meramente dilatoria, non dispiega alcuna efficacia né sospensiva né interruttiva sul detto termine (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1740/2003; id. T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 16 gennaio 2002, n. 30)”.

3. La sentenza del T.A.R.

Così riassunte le doglianze formulate dal ricorrente, il T.A.R. ha definito il giudizio accogliendo il ricorso e annullando il provvedimento della Soprintendenza, stigmatizzandone l’operato come tardivo e in violazione di legge, dovendosi – secondo i giudici – garantire, da un lato, l’affidamento del privato e, dall’altro, “la esigenza di assicurare certezza e stabilità alle situazioni giuridiche discendenti da provvedimenti amministrativi”.

La motivazione addotta, perspicua e lapidaria, è la seguente.

Esclusa la valenza significativa dell’inutile decorso del termine contemplato dall’art. 146 d.lgs. 42/04 (TAR Campania, VI, 26 agosto 2020, n. 3651; TAR Lombardia, II, 5/12/2018, n. 2738), può nondimeno essere agevolmente certata la illegittimità della nota tardivamente resa dalla Soprintendenza.

 E, invero, siccome sopra ampiamente esposto, il silenzio, ovvero l’inutile decorso del termine contemplato per l’esercizio dei munera gravanti in capo alle Amministrazioni interessate, è ben contemplato all’art. 146 d.lgs. 42/04, che ne disciplina partitamente gli effetti, devolutivi ovvero traslativi del potere in capo ad altre Autorità.

Nella fattispecie de qua agitur, la inerzia serbata dalla Soprintendenza, ben oltre il termine di 45 giorni ex lege prescritto, si atteggia quale fatto giuridico costitutivo – recte, devolutivo o traslativo – della potestas per il Comune di procedere alla definizione del procedimento, esprimendo la voluntas provvedimentale sulla “domanda di autorizzazione”, siccome testualmente contemplato all’art. 146, commi 5 e 9, d.lgs. 42/04.

Il provvedimento comunale del 10 aprile 2018, n. 417 – che di questa potestas costituisce estrinsecazione – ha chiuso la fattispecie procedimentale, cristallizzando l’assetto di interessi, in senso favorevole ai desiderata del ricorrente.

 La validità ed efficacia di tale atto provvedimentale, indi:

– poteva essere, eventualmente, incrinata solo all’esito della certazione giudiziale di vizi di legittimità, ovvero in seguito all’esercizio della potestà di riesame in autotutela ad opra della medesima Amministrazione civica, in ossequio al principio del contrarius actus;

– non mai poteva essere scalfita, indi, dalla nota della Soprintendenza quivi gravata, intervenuta contra legem e in guisa tardiva, allorquando la fattispecie provvedimentale si era già conchiusa e perfezionata.

 Le conclusioni suesposte si appalesano coerenti con la esigenza di assicurare certezza e stabilità alle situazioni giuridiche discendenti da provvedimenti amministrativi, in funzione di tutela:

– “a latere” privatistico, dell’affidamento del privato, la cui sfera giuridica – ampliata dal potere amministrativo – non può tollerare una situazione di diuturna instabilità; di qui, unitamente agli ordinari termini decadenziali per la impugnativa in sede giurisdizionale, gli stringenti limiti temporali foggiati per l’annullamento di ufficio all’art. 21-nonies l. 241/90, con la fissazione di limiti invalicabili di preclusione/consumazione del potere pubblico nell’interesse dei consociati, al fine di consolidare le situazioni giuridiche soggettive favorevoli nascenti da atti amministrativi, e renderle non più perennemente “claudicanti”, siccome esposte in ogni tempo alla potestà di riesame della Amministrazione; e ciò, beninteso, sempre che il privato non abbia contribuito, con contegni riprovevoli e penalmente rilevanti, alla adozione di provvedimenti illegittimi (art. 21-nonies, comma 3, l. 241/90);

– a latere pubblicistico, a garantire la inoppugnabilità degli atti anche nell’interesse della Amministrazione, nella fattispecie di quella comunale.

 E ciò tenuto conto, peraltro, che il medesimo Comune di Forio:

– non ha ravvisato i presupposti per avviare la potestà di riesame in autotutela in allora, id est a seguito della ricezione della gravata nota della Soprintendenza del 6 giugno 2018;

– ha, anzi e di più, successivamente emanato il definitivo titolo abilitativo in sanatoria, in data 5 luglio 2018”.

4. La parallela giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di annullamento della autorizzazione paesaggistica

L’arresto del T.A.R., che pur opera incidentalmente un richiamo all’art. 21-nonies della legge n. 241/90 al fine di giustificare la tutela dell’affidamento, è – a ben vedere – in linea anche con quella giurisprudenza che ha escluso, in materia, la possibilità per la Soprintendenza di disporre l’annullamento in autotutela dell’autorizzazione paesaggistica una volta rilasciata dall’amministrazione regionale o delegata.

Tale principio è stato, come è noto, ribadito da ultimo anche dal Consiglio di Stato, Sez. VI, il quale, con sentenza del 10 gennaio 2020, n. 259, ha definitivamente chiarito che il potere che la Soprintendenza esercita ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/04 deve ritenersi consumato nel momento in cui l’amministrazione regionale e/o quella delegata abbia adottato il provvedimento finale, ovvero l’autorizzazione paesaggistica: con la conseguenza che, essendo l’autotutela, quale procedimento di secondo grado, espressione dello stesso potere esercitato nell’adozione dell’atto di primo grado, l’annullamento di ufficio, il ritiro ovvero la modifica del parere possono intervenire soltanto fino a quando l’organo di amministrazione attiva non abbia adottato il provvedimento finale.

Ciò perché:

Il comma 2 dell’art. 146 cit. prevede che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendono intraprendere, corredato dalla prescritta documentazione ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione.

Il successivo comma 5 prescrive che sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione (ovvero l’ente delegato, ai sensi del comma 6), dopo aver acquisito il parere vincolante del Soprintendente.

La medesima disposizione qualifica, invece, il parere del Soprintendente come obbligatorio ma non vincolante, qualora vi sia stata “approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelate, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141 bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici”.

Quanto al procedimento da seguire, il comma 7 dell’articolo 146 dispone, inoltre, che l’amministrazione verifica se l’istanza sia corredata dalla prescritta documentazione, provvedendo, se necessario, a richiedere le opportune integrazioni ed a svolgere gli accertamenti del caso; entro quaranta giorni dalla ricezione dell’istanza, l’amministrazione effettua gli accertamenti circa la conformità dell’intervento proposto con le prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici e trasmette al Soprintendente la documentazione presentata dall’interessato, accompagnandola con un relazione tecnica illustrativa nonché con una proposta di provvedimento, e dà comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento e dell’avvenuta trasmissione degli atti al Soprintendente, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di procedimento amministrativo.

Il comma 8 dispone, poi, che il Soprintendente renda il parere prescritto, limitatamente alla compatibilità paesaggistica dell’intervento nel suo complesso, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, comunicando agli interessati, in caso di parere negativo, il preavviso di rigetto di cui all’articolo 10 bis della legge n. 241 del 1990.

L’amministrazione, entro venti giorni dalla ricezione del parere, provvede “in conformità”, prevedendosi, peraltro, al comma 9, che, decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione provvede comunque sulla domanda di autorizzazione.

Con la richiamata sentenza n. 259/20, il Consiglio di Stato ha, dunque, osservato che “dall’articolato contenuto dell’articolo 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 discende in primo luogo che l’autorità competente ad adottare il provvedimento conclusivo del procedimento, relativo all’autorizzazione paesaggistica, è la Regione ovvero l’ente dalla stessa delegato.

Infatti:

Il soprintendente partecipa al procedimento attraverso l’espressione di un parere.

Questo, ferma la sua ordinaria obbligatorietà, può assumere duplice natura.

Il parere, invero, non è vincolante quando vi sia stata approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati e la verifica dell’adeguamento degli strumenti urbanistici ai piani paesistici.

Negli altri casi esso ha carattere vincolante per la determinazione finale dell’amministrazione procedente.

Nel caso in cui il parere non sia vincolante, non vi sono dubbi in ordine al momento in cui si consuma il relativo potere in capo alla soprintendenza.

Trattandosi, come ogni atto di natura consultiva, di determinazione diretta ad illuminare e sorreggere l’organo di amministrazione attiva nell’adozione di un provvedimento, il potere si consuma nel momento in cui l’amministrazione procedente ha adottato il provvedimento finale.

Orbene, essendo l’autotutela, quale procedimento di secondo grado, espressione dello stesso potere esercitato nell’adozione dell’atto di primo grado, l’annullamento di ufficio, il ritiro ovvero la modifica del parere possono intervenire fino a quando l’organo di amministrazione attiva non abbia emanato il provvedimento finale.

Superato tale momento, l’esercizio della funzione consultiva si è esaurito e, dunque, un nuovo esercizio della stessa può aversi solo quando l’organo consultivo risulti nuovamente compulsato dall’amministrazione procedente con richiesta di nuovo parere.

La richiesta, invero, non costituisce unicamente atto di iniziativa del sub procedimento volto alla adozione del parere, ma assume una connotazione sostanziale di conferimento di quel potere consultivo che l’organo statale aveva in concreto perduto per effetto dell’adozione del provvedimento relativo all’autorizzazione paesaggistica.

Vuole, dunque, in buona sostanza affermarsi che l’annullamento di ufficio, una volta rilasciata l’autorizzazione paesaggistica, può investire solo quest’ultima, seguendo evidentemente, in ossequio al principio del contrarius actus, il medesimo procedimento previsto ed applicato per la sua emanazione.

Dopo aver concluso, dunque, che non vi è spazio, una volta rilasciata l’autorizzazione paesaggistica e consumatosi il potere consultivo, per una determinazione autonoma, da parte della Soprintendenza, di annullamento del parere favorevole dalla stessa precedentemente reso, il Consiglio di Stato si è, poi, interrogato sulla eventualità che le considerazioni espresse possano valere anche nella ipotesi in cui il parere del Soprintendente sia vincolante.

Anche a tale quesito il Supremo Consesso ha dato risposta affermativa, evidenziando che il parere vincolante, pur avendo carattere decisorio, è un atto partecipe della decisione finale, ovvero dell’autorizzazione paesaggistica, provvedimento tipicamente “monostrutturato”, con tutto ciò che ne deriva sul piano degli effetti.

“Infatti, il carattere sostanzialmente decisorio del parere vincolante non esclude che il potere della soprintendenza abbia a consumarsi una volta adottato il provvedimento finale di autorizzazione paesaggistica, considerandosi che tale provvedimento conserva comunque i caratteri di una decisione monostrutturata.

In buona sostanza, il parere della soprintendenza configura una determinazione partecipe della funzione decisoria, nel senso che essa viene a determinare il contenuto del provvedimento finale.

Purtuttavia, l’autorizzazione paesaggistica ovvero il diniego di essa resta un provvedimento monostrutturato, riferibile alla regione o all’ente delegato e non anche alla soprintendenza, il cui parere esaurisce i propri effetti nel momento in cui viene recepito, nella prescritta decisione “in conformità”, adottata dall’amministrazione competente.

Pertanto, la valenza provvedimentale spetta unicamente all’atto della regione, la cui determinazione assorbe in sé i contenuti vincolanti del parere soprintendentizio, il quale, adottato il provvedimento finale, perde ogni sua autonomia, atteso che i suoi effetti giuridici risultano sostituiti da quelli della decisione finale che lo recepisce e che si esplicano all’esterno con valenza ormai autonoma.

A tanto consegue che, assorbita la determinazione soprintendentizia nel provvedimento finale, il relativo potere deve ritenersi esaurito, non potendo più essere rinnovato con un autonomo atto di autotutela, esercitabile – ripetesi – solo fino a quando non è intervenuto il provvedimento finale della regione o del comune.

Anche in tal caso, dunque, il potere di annullamento di ufficio può esplicarsi solo sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata da parte dell’amministrazione che ha adottato il relativo provvedimento”.

5. Riflessioni conclusive

La sentenza del T.A.R. rappresenta indubbiamente un duro monito per le Soprintendenze che non sono nuove a comportamenti come quello censurato, giacché accade frequentemente che l’amministrazione statale richieda, sia nell’ambito dei procedimenti ordinari che di quelli di condono edilizio, integrazioni documentali il più delle volte strumentali e dilatorie, peraltro a termine abbondantemente scaduto, alimentando in tal modo situazioni di incertezza e contenziosi sia con il privato interessato sia con l’ente locale.

E questo è particolarmente grave se si considera, altresì, che l’art. 146 del d.lgs. n. 42/04, prevede testualmente, al comma 7, che:

L’amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica verifica se ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’articolo 149, comma 1, alla stregua dei criteri fissati ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d).

Qualora detti presupposti non ricorrano, l’amministrazione verifica se l’istanza stessa sia corredata della documentazione di cui al comma 3, provvedendo, ove necessario, a richiedere le opportune integrazioni e a svolgere gli accertamenti del caso”.

Dall’inequivoco tenore della disposizione in esame emerge, pertanto, che la sola amministrazione regionale o delegata (e non anche la Soprintendenza) può richiedere “le opportune integrazioni”.

Come sottolineato, infatti, dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 4182/02 sopra citata, seppur con riferimento alla normativa previgente, “ogni diversa interpretazione attribuirebbe alla suddetta autorità un potere che potrebbe agevolmente essere sospeso indefinitamente con richieste di elementi integrativi, che condurrebbero al concreto risultato dell’elusione del termine perentorio”, con l’ovvia conseguenza che “una siffatta elusione del termine perentorio finirebbe per porsi in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale in materia di distribuzione legislativa, tra Stato e Regioni, dei poteri autorizzatori in ambito paesaggistico, alterando, attraverso un potere di annullamento in pratica esercitabile senza termine certo, quel principio di giusto equilibrio tra i poteri di varie autorità, valorizzato dal giudice delle leggi”.

In conclusione, il nuovo arresto dei giudici amministrativi conferma a tutto tondo che anche il termine di 45 giorni previsto dall’art. 146 del Codice del Paesaggio non può essere in alcun modo travalicato e che la violazione di detto termine, anche se astrattamente giustificabile con un eccesso di “sana burocrazia”, va sempre sanzionata.

Ed è giusto e logico che sia così!

Scriveva tempo fa proprio un giornalista inglese (Hooper) sul noto quotidiano The Guardian:

Dopo la caduta della dittatura fascista di Mussolini gli italiani hanno creato un ordine democratico in cui nessuna persona può esercitare il potere assoluto; il risultato è stato un sistema bizantino di controlli e contrappesi che rende quasi impossibile eseguire le cose rapidamente e in modo decisivo”.

È tempo ormai di prendere coscienza del fallimento di tale sistema che rappresenta un serio ostacolo alla semplificazione amministrativa e ai processi decisionali a qualsiasi livello, con inevitabili ricadute negative sui cittadini.

L’organizzazione democratica del potere non può essere veicolo di paralisi amministrativa o di aggravamento dei procedimenti né minare il principio costituzionale di certezza dei rapporti giuridici.

A perdere sarebbe innanzitutto il “buon senso”!

Ce lo dice anche l’Europa … ma da noi non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

 

Sentenza collegata

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Avv. ROBERTO DI MEGLIO

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