Condotta di detenzione di stupefacenti

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Con la sentenza n. 47, pronunziata lo scorso 2 gennaio 2013 dalla Quarta Sezione, la Suprema Corte di Cassazione concerne una pluralità di interessanti aspetti processuali.

Essi spaziano dallo scrutinio della legittimità delle intercettazioni telefoniche disposte – in sede di merito – dall’Autorità procedente, all’analitico esame dell’osservanza dell’obbligo di motivazione da parte del giudice di appello, al quale vengano devolute, per il tramite dell’impugnazione, specifiche doglianze in ordine a precisi punti della sentenza gravata.

Oltre queste particolari prospettive procedimentali, che formeranno oggetto di approfondimento in altra sede, il giudice di legittimità affronta e risolve, in modo convincente e coerente con l’indirizzo ermeneutico vigente, il tema di quali elementi probatori possano fare assumere rilevanza penale alla condotta di detenzione di un quantitativo di sostanza stupefacente, dalla quale sia possibile ricavare circa 30 dosi.

Ovviamente non si tratta di un quesito inedito, giacchè da tempo l’interesse della giurisprudenza, sia di legittimità, che di merito, si è incentrato sull’individuazione di canoni sufficientemente attendibili, dai quali potere inferire una regola di giudizio per giudicare la liceità (o meno) della detenzione di sostanze stupefacenti.

Si può, peraltro, ragionevolmente affermare che il dibattito, così insorto, abbia permesso di addivenire alla individuazione e stabilizzazione di alcuni concetti base.

In proposito, è certamente utile richiamare altra decisione della Sez. IV, (06-04-2011, n. 33301, Foro It., 2012, 3, 2, 188) la quale ha, preliminarmente, precisato il carattere di “non reciproca autonomia” di quegli elementi ritenuti sintomatici e sulla base dei quali, venga apprezzata la destinazione ad “uso non esclusivamente personale” di sostanze stupefacenti materia di stupefacenti, indicati dall’art. 73, comma 1 bis, lett. a), dpr 309/90.

In tale ambito delibativo i supremi giudici hanno sancito il principio generale che “l’accertamento di uno solo di essi non è sufficiente per ritenere penalmente rilevante la condotta di detenzione; conseguentemente, pur in presenza di quantità non esigue o di confezioni plurime, ovvero di entrambe le situazioni, valutando “le modalità di presentazione” e/o “le altre circostanze dell’azione”, il giudice ben potrebbe ritenere un uso strettamente personale”.

Or bene, la sentenza in commento appare coerente con il ricordato approdo giurisprudenziale, in quanto, nel caso specifico, censura la posizione assunta dal giudice di appello, il quale, richiamandosi pedissequamente all’orientamento seguito nel primo grado del giudizio, avrebbe omesso di indicare la piattaforma probatoria sulla quale fondare il giudizio di condanna dell’imputato a scapito della protesta di innocenza di questi.

Emergono, dunque, dal provvedimento della S.C. due peculiarità degne di note.

  1.  
    1. In primo luogo, si manifesta il depotenziamento processuale del concetto di presunzione, che è sempre stato, invece, discutibilmente evocato quale elemento idoneo a dimostrare la destinazione allo spaccio della sostanza detenuta.

La Corte, infatti, deplora – nella fattispecie – la mancata esplicita indicazione di canoni, che risultino atti a dimostrare che si verta in una situazione prodromica al successivo commercio di droga, piuttosto che in un ambito di “approvvigionamento per esclusivo uso personale”.

Tale vizio specifico appare riconducibile alla più ampia e generica censura che il giudice di legittimità muove verso la sentenza, in ordine alla genetica carenza di motivazione che pare affliggere la stessa anche in relazione ad altre doglianze sollevate dagli imputati.

Il principio che si può desumere dal pensiero della Corte è, dunque, quello che qualsiasi decisione non può discostarsi dal rigoroso obbligo di un vaglio critico del materiale probatorio fornito ex parte.

  1.  
    1. In secondo luogo, viene ribadita, ai fini del giudizio di eventuale destinazione della droga a scopo di uso esclusivamente personale del detentore, la rilevanza di circostanze di natura soggettiva (le cd. circostanze dell’azione).

Nel caso che ci occupa, esse vengono individuate, da un lato, nella disponibilità da parte del ricorrente di congrue risorse finanziarie e dall’altro nella di lui necessità – peraltro di ordine strettamente metodologico – di effettuare una tantum acquisti di quantitativi di un certo rilievo ponderale, non potendo egli rifornirsi di stupefacente, con cadenza quotidiana, per ostative ragioni di lavoro.

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Ritiene, quindi, chi scrive che la giurisprudenza stia, in modo inequivoco (e pur con le doverose e specifiche cautele interpretative del caso), introducendo nella quotidianità e nella prassi forense, una nuova e più ampia interpretazione dell’uso personale.

Si strada, infatti, l’idea che possa effettivamente rientrare nel concetto di uso esclusivamente personale anche quel quantitativo di stupefacente, che il singolo – conclamato assuntore – abbia acquistato con il fine di creare una provvista, in relazione ad oggettive o soggettive difficoltà di rifornimento, che egli avverta.

Si tratta, dunque, di una forma di ampliamento concettuale della nozione di detenzione di stupefacenti a fini di uso personale.

L’orientamento in questione, infatti, sposta la prospettiva interpretativa usualmente adottata in tema di condotta detentiva, dalla decisiva preponderanza del dato puramente e strettamente quantitativo, che, in caso di sua modicità, poteva anche farsi apprezzare come sintomo dell’uso personale, all’indagine in ordine alla effettiva volontà della condotta del detentore.

In quest’ultima ottica, acquisiscono significativo rilievo tutti gli elementi, che risultino connessi con la persona del soggetto imputato, vale a dire proprio quei dati che vengono ricompresi sotto la dizione circostanze dell’azione, che sono stati in precedenza ricordati e che vengono espressamente valorizzati dalla sentenza.

Giovi osservare, da ultimo che anche la sentenza della Suprema Corte non può essere esente da critica, per il fatto che essa si uniforma alla scelta dei giudici di merito, di utilizzare il concetto di dose (dose media giornaliera), in luogo di quello di unità di quantità massima detenibile, molto più pertinente al caso concreto.

Nella fattispecie, infatti, il quantitativo di stupefacente rinvenuto nella disponibilità del ricorrente, (pari a circa gr. 11 di cocaina), viene convertito, già nei precedenti gradi di giudizio, nel concetto di dosi (30).

A parere di chi scrive, invece, il concetto di unità di quantità massima detenibile, che è recentemente assurto a parametro qualificato in relazione alla metodica per ravvisare la sussistenza della circostanza aggravante dell’ingente quantità1, si fa preferire perchè si verte in ambito di condotta esclusivamente detentiva.

Il parametro quantitativo adeguato per determinare il grado di potenziale offensività del compendio detenuto, deve, quindi, essere – diversamente da quanto affermato in tutto il corso del processo ed anche in sede di giudizio di legittimità – quello della Q.M.D2.

A sostegno di tale convincimento soccorre anche la stessa forma lessicale adottata dal legislatore.

Va, poi, sottolineato che la ratio di questo canone si rinviene nel fatto che esso è stato concepito dal legislatore, onde favorire il giudicante nel senso di meglio orientarsi e comprendere, (in relazione agli specifici casi che possono essere prospettati), quante volte la parte netta di un singolo campione drogante possa eventualmente superare il limite del principio attivo teoricamente detenibile ex lege.

Si tratta, quindi, di un indicatore assai utile (e nella sostanza di maggiore aderenza alla fattispecie detentiva ed a tutte quelle ad essa assimilabili) per determinare il teorico livello di offensività della condotta detentiva.

Esso evidenzia, in relazione ad uno specifico caso, il livello di diffusività dello stupefacente e, altresì, permette di comparare tale attitudine, con le richiamate condizioni soggettive, onde inferire il giudizio sulla liceità della detenzione e sulla attendibilità della sua destinazione ad uso personale

La dose media giornaliera, invece, costituisce altro tipo di criterio aritmetico, che può venire utilizzato solo in quei casi in cui la condotta illecita, contestata all’imputato, in quanto espressione di una di lui attività e volontà di diffusione dello stupefacente (la cessione a terzi ad esempio) appaia del tutto differente rispetto a quella detentiva (o da quelle ad essa assimilabili).

Rimini, lì 18 gennaio 2013

 

1V. SSUU 24 maggio 2012 n. 36258/12 R.G. 24594/12

2Il Q.M.D. si ottiene moltiplicando il quantitativo di principio attivo stabilito per la dose media giornaliera per un parametro che è 20

Zaina Carlo Alberto

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