Conduttore moroso: la tolleranza del locatore rende inoperante la clausola risolutiva espressa

Abstract

La tolleranza del locatore nel ricevere il canone oltre il termine stabilito rende inoperante la clausola risolutiva espressa prevista in un contratto di locazione, la quale riprende la sua efficacia se il creditore, che non intende rinunciare ad avvalersene, provveda, con una nuova manifestazione di volontà, a richiamare il debitore all’esatto adempimento delle sue obbligazioni.

Giudizio di merito e questione controversa

Tizio e Alfa concludevano un contratto di locazione avente ad oggetto un appezzamento di terreno e prevedevano espressamente che il mancato pagamento del canone entro il termine stabilito avrebbe implicato la risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c.

Alla scadenza del 1° luglio 2012 Alfa non corrispondeva il canone di locazione pattuito, sicché Tizio notificava l’intimazione di sfratto per morosità e, contestualmente, dichiarava di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa.

Alfa si difendeva sostenendo che, in realtà, il ritardo nel pagamento era conseguente alla normale prassi di tolleranza da parte del locatore e che tale tolleranza avrebbe reso inoperante la suddetta clausola. Tant’è che solo in data 23 novembre 2010 Tizio l’aveva richiamata ad adempiere tempestivamente all’obbligo di pagamento del canone e che, nonostante tale sollecito, fino al 2012 Tizio aveva sempre accettato pagamenti in ritardo.

Il tribunale accoglieva la domanda di Tizio, dichiarava risolto di diritto il contratto per effetto della clausola risolutiva espressa e condannava Alfa al rilascio dell’immobile.

La corte territoriale confermava la decisione di prime cure, assumendo che l’esistenza di una prassi di tolleranza del ritardo nei pagamenti non era stata provata e che la clausola risolutiva espressa imponeva al conduttore l’obbligo di pagamento del canone entro il primo giorno di ogni mese, esonerando il locatore dall’onere di provare la gravità dell’inadempimento.

Alfa proponeva ricorso per cassazione.

La sentenza della Suprema Corte

La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che la tolleranza del locatore nel ricevere il canone oltre il termine stabilito rende inoperante la clausola risolutiva espressa prevista in un contratto di locazione, la quale riprende la sua efficacia se il creditore, che non intende rinunciare ad avvalersene, provveda, con una nuova manifestazione di volontà, a richiamare il debitore all’esatto adempimento delle sue obbligazioni.

La regola suesposta, tuttavia, deve essere coordinata con il generale principio di buona fede nell’esecuzione del contratto.

Osserva la Corte che, per effetto di tale principio, non può imporsi al locatore l’onere di contestare ciascuno dei singoli analoghi inadempimenti del conduttore per escludere un’eventuale condotta di tolleranza.

Con il provvedimento annotato la Corte rileva che – a prescindere dalla non sindacabile valutazione sull’esistenza o meno di una prassi di tolleranza – in data 23 novembre 2010 Tizio aveva comunque richiamato Alfa all’esatto adempimento, così escludendo in radice la sua intenzione di rinunciare ad avvalersi della clausola risolutiva espressa.

Osservazioni

La sentenza in commento offre un’interessante occasione per approfondire i rapporti fra la tolleranza del creditore e la clausola risolutiva espressa avente ad oggetto proprio l’inadempimento tollerato.

Come noto, la clausola risolutiva espressa è il patto accessorio con cui le parti assumono un determinato e specifico inadempimento a condizione risolutiva del contratto.

La clausola attribuisce al creditore un potere negoziale di autotutela contro l’inadempimento specificamente dedotto:  ai sensi dell’art. 1456 comma 2 c.c., infatti, la risoluzione del contratto ha effetto solo quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva[1].

È altrettanto noto che la clausola risolutiva espressa elimina l’indagine dell’importanza dell’inadempimento che, invece, è richiesta per la pronuncia costitutiva ex artt. 1453 e 1455 c.c.[2]

Ciò non significa che lo scioglimento del contratto consegue automaticamente al fatto oggettivo dell’inadempimento; a tal fine, invero, è sempre necessario accertare che l’inadempimento è imputabile al debitore[3].

La giurisprudenza di legittimità ha avuto più volte occasione di chiarire che, nella corretta applicazione della clausola, si deve tenere conto dei diversi profili emersi in sede di esecuzione del contratto, sia soggettivi (quale, appunto, la tolleranza) sia oggettivi, che possono aver determinato un diverso tipo di equilibrio[4].

Ebbene la tolleranza del creditore, laddove non vada ad integrare gli estremi di una vera e propria rinuncia tacita alla clausola risolutiva espressa, può incidere sulla posizione soggettiva del debitore escludendone la colpa.

E’ in questi termini che deve essere intesa la massima ricorrente per cui la tolleranza del locatore, nel ricevere il canone oltre il termine stabilito, rende “inoperante” la clausola risolutiva espressa prevista in un contratto di locazione[5].

Se il debitore riesce a dimostrare che il proprio inadempimento trova ragione in una consolidata e abituale tolleranza del creditore, allora il suo inadempimento deve dirsi esente da colpa; da ciò consegue che l’inadempimento non è imputabile al debitore e che, quindi, non ricorrono i presupposti per l’”operatività” della clausola risolutiva espressa.

Per converso (prosegue la massima ricorrente) la clausola “riprende efficacia” se il creditore, che non intende rinunciare ad avvalersene, provveda, successivamente al suo precedente comportamento contrario al mantenimento in vita di detta clausola, con una nuova manifestazione di volontà, a richiamare il debitore all’esatto adempimento delle sue obbligazioni.

Per la verità la clausola non ha mai propriamente “perso efficacia” in ragione della tolleranza del creditore: quello che si intende dire è che, ora, l’inadempimento può qualificarsi a buon diritto “imputabile” e che, quindi, il contratto può sciogliersi per l’operatività della clausola risolutiva espressa, sussistendone tutti i presupposti.

La pronuncia in commento ha cura di chiarire un secondo aspetto di fondamentale importanza, vale a dire la necessità di interpretare il significato di tolleranza alla luce del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).

Ciò è senza dubbio di forte impatto pratico: il locatore abituato a ricevere il canone in ritardo non deve aver timore di cadere, sempre e comunque, in una pericolosa prassi di tolleranza in grado di rendere inoperativa la clausola risolutiva espressa.

In forza del generale principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, avutesi le prime reazioni avverso ritardi nel pagamento del canone, non può imporsi al locatore di reagire avverso ciascuno dei singoli analoghi inadempimenti al fine di escludere una sua condotta di tolleranza.

Del resto, ragionando al contrario, si finirebbe per abilitare il conduttore a sistematici ritardi e per costringere il locatore, onde escludere una propria tolleranza, ad agire per ogni successivo ritardo relativo a ratei o scadenze posteriori[6].

[1] Con atto unilaterale, recettizio, avente la stessa forma prescritta per il contratto risolto e, deve ritenersi, soggetto a trascrizione per l’opponibilità ai terzi dell’intervenuta risoluzione (su quest’ultimo punto v. C.M. Bianca, V, 2015, p. 340 ss.).

[2] Giacché sono le parti che collegano la risoluzione del contratto ad un determinato adempimento, non vi è spazio per una valutazione intesa a stabilire se un tale evento sia sufficientemente grave per giustificare l’effetto risolutivo (v. C.M. Bianca, V, cit., p. 344).

[3] La clausola risolutiva espressa non comporta automaticamente lo scioglimento del contratto a seguito del previsto inadempimento, essendo sempre necessario, per l’articolo 1218 c.c.., l’accertamento dell’imputabilità dell’inadempimento al debitore almeno a titolo di colpa (così, ex pluribus, Cass. n. 2553/2007; in dottrina, v. su tutti C.M. Bianca, V, 2015, p. 343).

[4] Cass. n. 26508/2009; Cass. n. 15026/2005.

[5] Principio costante: fra le più recenti v. Cass. n. 18991/2016, Cass. n. 24564/2013; fra le più risalenti v. Cass. n. 1316/1998.

[6] Cass. n. 2111/2012.

Sentenza collegata

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Dott. Galbero Nicolò

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