In caso di pluralità di concorrenti nel reato, come va disposta la confisca per equivalente del relativo profitto? Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.
Indice
- 1. Il fatto
- 2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: in caso di pluralità di concorrenti nel reato, come va disposta la confisca per equivalente del relativo profitto
- 3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
- 4. Conclusioni: in caso di concorso di persone nel reato, la confisca riguarda solo il singolo concorrente e solo per ciò che egli ha effettivamente ottenuto
1. Il fatto
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vicenza applicava, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., la pena richiesta dalle parti in ordine ai reati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione tra privati e a più fatti di corruzione.
Ciò posto, avverso questa decisione ricorrevano per Cassazione ambedue gli imputati.
In particolare, uno di questi, tra i motivi addotti, contestava l’applicabilità del principio solidaristico con riferimento alla confisca “per equivalente“.
Più nel dettaglio, richiamandosi alcune pronunce della Corte costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la difesa sosteneva che, anche quando non sia possibile individuare specificamente la quota di profitto attribuibile a ciascun concorrente nel reato, nondimeno la confisca per equivalente dovrebbe essere applicata nei confronti di ognuno di essi nel rispetto dei canoni della solidarietà interna e, dunque, in misura proporzionale al grado di responsabilità del singolo concorrente e, qualora questo non sia determinabile, in parti uguali tenuto conto altresì del fatto che, diversamente ragionando, si finirebbe per violare il principio di legalità, sotto il profilo del divieto di responsabilità per fatto altrui, e il principio di proporzionalità delle sanzioni.
Ad ogni modo, la confisca, anche se disposta per equivalente, non potrebbe dunque superare l’entità del complessivo profitto in concreto conseguito, non essendo consentita nessuna duplicazione.
Orbene, alla stregua di siffatte considerazioni, per il ricorrente, a suo carico sarebbero stati erroneamente computati importi già addebitati al coimputato. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.
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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: in caso di pluralità di concorrenti nel reato, come va disposta la confisca per equivalente del relativo profitto
La Sezione sesta penale, assegnataria dei suddetti ricorsi, ravvisava un contrasto ermeneutico, così prospettata: se, in caso di pluralità di concorrenti nel reato, la confisca per equivalente del relativo profitto possa essere disposta per l’intero nei confronti di ciascuno di essi, indipendentemente da quanto da ognuno eventualmente percepito, oppure se ciò possa disporsi soltanto quando non sia possibile stabilire con certezza la porzione di profitto incamerata da ognuno; ancora se, in quest’ultimo caso, la confisca debba comunque essere ripartita tra i concorrenti, in base al grado di responsabilità di ognuno oppure in parti eguali, secondo la disciplina civilistica delle obbligazioni solidali.
Difatti, per questa Sezione, secondo un primo orientamento, la confisca di valore – così come il sequestro preventivo ad essa funzionale – potrebbe essere disposta indifferentemente nei riguardi di ciascuno dei concorrenti nel reato anche per l’intera entità del profitto accertato: sarebbero irrilevanti sia la quota di profitto in concreto conseguita dal singolo correo, sia la stessa possibilità che questi non abbia ricavato alcunché (in tal senso, con specifico riferimento alla confisca, si citano Sez. 2, n. 9102 del 24/11/2020; Sez. 5, n. 36069 del 20/10/2020; Sez. 6, n. 26621 del 10/04/2018; Sez. 3, n. 27072 del 12/05/2015; Sez. F, n. 33409 del 28/07/2009; negli stessi termini, pronunciandosi in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente con argomenti però polarizzati su quest’ultima, sono indicate Sez. 2, n. 22073 del 17/03/2023; Sez. 1, n. 38034 del 09/07/2021; Sez. 5, n. 19091 del 26/02/2020; Sez. 2, n. 29395 del 26/04/2018; Sez. 3, n. 56451 del 05/12/2017; Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017; Sez. 5, n. 25560 del 20/05/2015; Sez. 2, n. 2488 del 27/11/2014).
In particolare, come osservato da questa medesima Sezione rimettente, si tratta di un orientamento che valorizza il carattere eminentemente sanzionatorio della ablazione di valore; operando nel caso in cui il profitto del reato non sia più acquisibile nella sua identità “storica” o in quella impressagli dagli autori del reato tramite la sua trasformazione, la confisca perderebbe la finalità preventiva tipica delle misure di sicurezza, assolvendo invece ad una funzione afflittiva, connotata anche dalla finalità di ripristino della situazione economica illecitamente modificata in favore del reo.
La confisca per equivalente conseguirebbe, quindi, secondo il modello della sanzione, alla mera commissione del reato produttivo del profitto illecito e non invece alla effettiva disponibilità di quest’ultimo da parte del correo; ciò giustificherebbe la indistinta ablazione nei confronti di tutti i partecipi al reato e non sarebbe in nessun modo violato il principio di proporzionalità, fermo restando che, a favore di codesto orientamento, militerebbe anche la tradizionale concezione monistica della compartecipazione concorsuale, che consente di imputare a ciascun concorrente l’evento delittuoso nella sua globalità, senza alcun frazionamento corrispondente alle condotte singolarmente poste in essere dai correi.
Ciò posto, un diverso indirizzo subordinerebbe, invece, l’applicazione della confisca per equivalente per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascun concorrente nel reato solo alla impossibilità di individuare, nella fattispecie concreta, la quota dal singolo compartecipe conseguita a seguito dell’illecito: in questo caso, infatti, si imporrebbe la ripartizione dell’ablazione in ragione di quanto da ciascuno percepito (in tal senso, Sez. 6, n. 6607 del 21/10/2020; Sez. 6, n. 33757 del 10/06/2022; Sez. 3, n. 11617 del 06/03/2024).
Secondo l’ordinanza di rimessione, vi sarebbe poi una terza e più articolata opzione interpretativa, espressa nell’ambito di quelle sentenze che hanno sostenuto la necessaria ripartizione della confisca per equivalente fra i concorrenti nel reato, anche nel caso in cui non siano chiaramente evincibili le porzioni di profitto da costoro conseguite realizzate.
In tali casi, secondo alcune pronunce, la suddivisione dovrebbe avvenire in parti uguali, richiamando la disciplina civilistica prevista dagli artt. 1298 e 2055 cod. civ., rispettivamente, per le obbligazioni solidali e per la responsabilità da fatto illecito (così, Sez. 1, n. 4902 del 16/11/2016); secondo altre pronunce, invece, si dovrebbe fare riferimento al grado di responsabilità e di partecipazione al profitto del singolo concorrente desunti anche da “criteri sintomatici”, ricorrendosi alla suddivisione fra i correi in parti uguali solo in mancanza di qualsiasi parametro attendibile di riparto (Sez. 6, n. 4727 del 20/01/2021).
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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite – dopo avere delimitato la questione sottoposta al loro vaglio giudiziale (delineata nei seguenti termini: “Se, in caso di pluralità di concorrenti nel reato, la confisca per equivalente del relativo profitto possa essere disposta per l’intero nei confronti di ciascuno di essi, indipendentemente da quanto da ognuno eventualmente percepito, oppure se ciò possa disporsi soltanto quando non sia possibile stabilire con certezza la porzione di profitto incamerata da ognuno; od ancora se, in quest’ultimo caso, la confisca debba comunque essere ripartita tra i concorrenti, in base ai grado di responsabilità di ognuno oppure in parti eguali, secondo la disciplina civilistica delle obbligazioni solidali”), chiarito, in via preliminare, il ruolo in concreto assunto dagli odierni ricorrente nell’ambito della vicenda processuale in esame e, in particolare, rispetto al reato-contratto di corruzione, oltre ad evidenziare che, per confiscare in via diretta, il prezzo o il profitto del reato devono esistere e devono essere stati conseguiti, esplicitata la natura della confisca diretta e di quella per equivalente – ritenevano necessario trattare, a questo punto della disamina, la questione della natura della confisca avente ad oggetto somme di denaro, ritenendosi tale aspetto, sebbene non prospettato nell’ordinanza di rimessione, comunque rilevante nel processo che era pendente innanzi ad essi.
Orbene, la Corte di legittimità evidenziava in primo luogo come tale questione tradizionalmente risenta della difficoltà di declinare i principi consolidati in precedenza descritti in ragione delle caratteristiche oggettive del denaro, bene strutturalmente fungibile; una declinazione, come si vedrà, che porta a ridisegnare i tratti caratterizzanti la confisca diretta, a sostanzialmente annullare la distinzione tra confisca diretta e confisca per equivalente, e, soprattutto, ad espungere il presupposto fondante la confisca diretta, costituito dalla rigorosa prova della derivazione dal reato del bene oggetto della ablazione, evidenziandosi al contempo come essa sia solitamente affrontata con riguardo al profitto del reato, ma si pone anche nei casi di confisca del prezzo.
Premesso ciò, gli Ermellini notavano come sul tema qui in rassegna si registrino molteplici interventi delle Sezioni unite.
In particolare, si citava a tal proposito la sentenza emessa dalle Sez. U di cui al n. 29951 del 24/05/2004 secondo cui “è ammissibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro che costituiscono profitto di reato sia nel caso in cui la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, sia quando sussistono indizi per i quali il denaro di provenienza illecita risulti depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare”.
Ebbene, osservavano i giudici di piazza Cavour sempre nella pronuncia qui commento, valorizzando la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento, la sentenza esclude che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, dovendosi in realtà apprendere la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque rinvenuta, purché attribuibile all’indagato, e legata dal rapporto pertinenziale con il reato, del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa).
Quindi, pur cogliendo la specificità del denaro, quale res fungibile per antonomasia, la citata sentenza ha ritenuto che la natura del bene non sia di per sé ostativa al necessario accertamento della provenienza del denaro dal reato: la fungibilità, cioè, avrebbe rilievo solo nel momento dell’apprensione del bene, ma non anche in relazione alla necessità di stabilire l’esistenza di un collegamento tra prezzo o profitto del reato e la disponibilità di somme in ragione del reato su cui, non diversamente, le Sezioni unite si sono espresse con la sentenza n. 20208 del 25/10/2007.
Per il Supremo Consesso, la confisca del c.d. surrogato può essere qualificata in termini di confisca diretta solo a condizione che, al di là della fungibilità del bene, vi sia comunque la prova che proprio “quel” denaro – profitto del reato – sia stato utilizzato per acquistare il bene oggetto della ablazione.
In senso di obbiettiva e chiara discontinuità si pongono invece i principi enunciati da Sez. U, n. 10561 del 30 gennaio 2014, che fanno riferimento, da una parte, ad un concetto di profitto confiscabile più ampio e, dall’altra, ad un nesso di derivazione tra il bene confiscabile e il reato declinato in senso estensivo, perché riferibile anche ad ogni utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa.
Con tale decisione, difatti, le Sezioni unite qualificano espressamente, da una parte, come risparmio di spesa il profitto derivante dal reato tributario corrispondente all’imposta evasa e, al contempo, qualificano come diretta la confisca del denaro – corrispondente al risparmio di spesa – rimasto nel patrimonio della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio sia stato commesso il reato tributario, non potendo l’ente considerarsi, salvo il caso in cui costituisca un mero schermo della persona fisica, terzo estraneo rispetto al reato.
D’altronde, per la Corte, si stimava oltre tutto necessario segnalare come l’intero percorso argomentativo sviluppato nella sentenza emessa dalle Sezioni unite n. 2014 del 30/01/2014 risentisse dichiaratamente del fatto che, all’epoca della pronuncia, non era prevista la responsabilità da reato ex D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 con riguardo ai reati tributari: ciò comportava l’impossibilità di aggredire per equivalente il patrimonio della società nel cui interesse era stato commesso il reato.
Dunque, ad avviso degli Ermellini, per superare tale evidente discrasia, originata dal fatto che il profitto del reato tributario commesso dall’imputato persona fisica si determinava e “rimaneva” proprio nel patrimonio della società, è stata valorizzata la peculiarità della confisca avente ad oggetto il denaro qualificata sempre come confisca diretta e non per equivalente, con la conseguente applicabilità della stessa, attesa la previsione generale di cui all’art. 240 cod. pen., anche nei confronti della società, soggetto terzo rispetto all’autore del reato, ma non estraneo rispetto a quest’ultimo, trattandosi, comunque, di una complessa ricostruzione in gran parte venuta meno per effetto dell’inclusione dei principali reati tributari tra quelli presupposto della responsabilità da reato degli enti.
Ciò posto, il principio affermato nella sentenza appena citata, tra l’altro, osservavano le Sezioni unite, è stato ripreso e sviluppato dalle medesime Sezioni, nella sentenza n. 31617 del 26/06/2015, secondo cui: “qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato”.
La delimitazione dei confini tra confisca diretta e confisca per equivalente viene quindi effettuata, non già nell’ottica di stabilire se ed a quali condizioni sia aggredibile il patrimonio del soggetto – diverso dall’autore del reato ma beneficiario del vantaggio che ne è derivato -, quanto, piuttosto, per stabilire se sia possibile disporre la confisca anche nel caso di intervenuta prescrizione del reato.
La sentenza de qua, in effetti, chiarisce che è possibile disporre la sola confisca diretta nel caso di sopravvenuta estinzione del reato, mentre analoga possibilità non può consentirsi nel caso di confisca di valore, attesa la natura sanzionatoria di quest’ultima.
“Ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica”.
Oltre a ciò, si nota altresì che non avrebbe senso “la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo”.
Secondo la predetta sentenza non è pertanto condivisibile l’assunto secondo cui la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato, in assenza di elementi dimostrativi che proprio quella somma sia stata versata su quel conto corrente, determini una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che ciò che rileva è solo la prova della percezione illegittima della somma e non la sua materiale destinazione: “con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario”.
Successivamente, sono state pronunciate rilevanti sentenze che, per la peculiarità della fattispecie concreta, evidenziano la difficoltà di declinare in modo generalizzato il principio affermato dalla sentenza delle S.S.U.U. n. 31617 del 26/06/2015.
Difatti, sono state individuate almeno quattro categorie di fatti in cui le indicate tensioni assumono carattere di evidenza, così descritte dalle Sezioni unite, nella pronuncia qui in commento, nei seguenti termini: “La prima riguarda la configurabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del denaro che non sia ancora presente nel patrimonio del reo, in quanto destinato a confluirvi in epoca successiva anche rispetto alla data di adozione della misura cautelare (Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, omissis, non massimata, secondo cui è legittimo il sequestro finalizzato alla confisca diretta dell’importo pari al profitto del reato “ovunque e presso chiunque custodito e quindi anche di quello pervenuto sui conti e/o depositi in data successiva all’esecuzione del provvedimento genetico”). La seconda riguarda tutte quelle fattispecie in cui oggetto della confisca diretta sia denaro di provata provenienza lecita (tanto antecedente che successiva rispetto alla commissione del reato), ipotesi in cui la qualificazione della confisca in termini di confisca diretta “passa”, inevitabilmente, attraverso il completo superamento del requisito della pertinenzialità del bene rispetto al reato: una confisca diretta fondata solo sul carattere fungibile del bene (cfr., Sez. 6, n. 6816 del 29/01/2019, omissis, Rv. 275048 con cui si è affermata la necessità di apportare un correttivo alle conseguenze della fungibilità del denaro e della incidenza di tale aspetto sulla confisca del profitto del reato nel senso di ritenere diretto il sequestro preventivo, purché si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento; nello stesso senso Sez. 6, n. 15923 del 26/03/2015, omissis, Rv. 263124). Il tema attiene non solo ai casi in cui vi sia la prova della derivazione lecita del denaro, ma anche a quelli in cui, al contrario, vi sia la prova che il prezzo del reato o il profitto sia stato, in un dato momento precedente al sequestro o all’ablazione, consumato, occultato, disperso. La terza classe di fattispecie riguarda i casi di denaro depositato su conto corrente cointestato con soggetti diversi dall’autore del reato, che siano in grado di dimostrare la provenienza lecita del bene; una confisca diretta, in questi casi, non solo avulsa da ogni prova del nesso di derivazione del bene dal reato, ma che produce indistinti effetti sul patrimonio del terzo, estraneo al reato (Sez. 6, n. 19766 del 11/12/2019, dep. 2020, omissis, Rv. 279277; Sez. 6, n. 25427 del 4/03/2020, omissis, non mass., in cui si è evidenziato come l’analisi debba essere “spostata” al momento precedente la costituzione della comunione sul denaro, atteso che, diversamente, si ammetterebbe, in via generalizzata, il sequestro funzionale alla confisca diretta del prezzo o del profitto del reato di beni che possono appartenere a soggetti diversi dall’indagato. La quarta classe di fatti riguarda le ipotesi in cui il denaro sia già nella disponibilità del reo prima ancora della commissione del reato; si tratta di casi in cui il profitto non è costituito tanto da un effettivo accrescimento patrimoniale, quanto, piuttosto, da un mancato decremento, da un mancato esborso (Sez. 3, n. 23040 del 01/07/2020, omissis, Rv. 279827; Sez. 3, n. 22061 del 23/01/2019, omissis, Rv. 275754; Sez. 3, n. 6348 del 04/10/2018, dep. 2019, omissis, Rv. 274859; Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, dep. 2017, omissis, Rv. 272353)”.
Orbene, in questo quadro di riferimento, obiettivamente articolato, che ha prodotto disallineamenti e che lascia sullo sfondo irrisolte rilevanti questioni, si notava come, con ordinanza n. 7021 del 23/02/2021, la Sesta sezione avesse rimesso nuovamente la questione alle Sezioni unite sollecitando un intervento chiarificatore sul se, ai fini del sequestro e della confisca diretta, la fungibilità del bene possa esentare “sempre” dalla prova del nesso di derivazione del denaro – costituente prezzo o profitto – dal reato, ovvero configuri solo una presunzione superabile, sollecitando alle Sezioni unite un intervento chiarificatore dei principi affermati con la sentenza n. 31617 del 26/06/2015, che, peraltro, sulle peculiari questioni indicate, non aveva assunto una posizione specifica.
Dal canto loro, le Sez. U, con la decisione n. 42415 del 27/05/2021, hanno ribadito il principio già affermato con la sentenza appena menzionata, estendendolo nella sua portata, avendo infatti ritenuto “in ogni caso” del tutto indifferente l’identità fisica dei beni numerari oggetto di ablazione, cioè la loro corrispondenza materiale a quelli illecitamente conseguiti, tenuto conto delle peculiarità ontologiche e normative del bene-denaro, diverso rispetto a qualsiasi altro tipo di “utilità”; la natura e la funzione del denaro renderebbero recessiva la sua consistenza fisica, determinando la sua automatica confusione nel patrimonio del reo, che ne risulta correlativamente accresciuto.
Da ciò deriverebbe quindi, per la Corte, la sostanziale irrilevanza, da una parte, della eventuale esistenza di altri attivi monetari eventualmente confluiti nel patrimonio del reo – anche a seguito di versamenti di denaro aventi origine lecita nel conto corrente bancario – e, dall’altra, delle vicende riguardanti le somme percepite successivamente rispetto alla misura di confisca o di sequestro.
Ebbene, in questa prospettiva, per il Supremo Consesso, la confisca diretta del denaro non determinerebbe alcuna deroga rispetto agli ordinari standard probatori, essendo sempre necessario provare l’effettivo conseguimento da parte del reo del profitto o del prezzo del reato; l’esistenza di tale legame pertinenziale, giustificativo della confisca diretta di una somma corrispondente, si collocherebbe “a monte”, ovvero nell’effetto di illecito incremento patrimoniale conseguente alla perpetrazione del reato, trattandosi di una sentenza i cui principi sono stati sostanzialmente applicati nella giurisprudenza successiva nella quale, tuttavia, si sono continuati a registrare significativi disallineamenti in tema di mancati esborsi (Sez. 3, n. 6577 del 24/10/2023; Sez. 3, n. 11086 del 28/03/2022) e, soprattutto, con riguardo alla assolutezza del principio nei casi in cui vi sia la prova della derivazione lecita del denaro sopraggiunto sul conto dopo la commissione del reato, ovvero la prova della impossibilità di confusione tra il prezzo o il profitto conseguito e le somme sopravvenute (Sez. 5, n. 36223 del 28/06/2024; Sez. 5, n. 31186 del 27/06/2023).
In particolare, il ragionamento delle Sezioni unite era costruito su due argomentazioni costitutive: da una parte, il carattere intrinseco di “fungibilità” del denaro e, dall’altra, l’effetto normativo di automatica “confusione” nel patrimonio del reo del profitto o del prezzo monetario conseguito attraverso il reato dato che sarebbe il carattere fungibile del bene a svuotare, nullificandolo, il canone della pertinenzialità; da ciò deriverebbe l’irrilevanza della possibilità di risalire alla identità fisica del denaro di provenienza illecita.
Pur tuttavia, per le Sezioni, quelle appena indicate sono argomentazioni che, anche alla luce della successiva giurisprudenza, non offrono risposte alle numerose questioni che ancora sono sul campo.
In generale, quanto al tema della fungibilità, è sufficiente ribadire come esso inerisca alla cosa in sé, al suo carattere oggettivo, alla natura del bene, ma è esterno rispetto alla prova del nesso di pertinenzialità tra il bene e il reato che, invece, si risolve in un giudizio di relazione diverso rispetto alla natura giuridica del bene; un giudizio, quello sulla pertinenzialità, che non riguarda le caratteristiche del bene ma il legame (eziologico) di provenienza della res.
In effetti, è indubbio che il denaro costituisce un mezzo generale di acquisto dei beni e assolve ad una generale funzione di pagamento; è senz’altro vero che al denaro si riconosce anche la funzione di misura generale dei valori, atteso che le entità patrimoniali devono tradursi in quantità monetarie quando sia necessaria una loro valutazione, e, tuttavia, il carattere della fungibilità del denaro è irrilevante rispetto alla prova – decisiva rispetto alla qualificazione della confisca come diretta – che la cosa “derivi” da una determinata fonte, cioè dal reato commesso.
La circostanza che il bene sia fungibile (cioè, privo di individualità specifica e, pertanto, passibile di sostituzione senza trasformazione in ragione della confusione) ovvero infungibile (cioè, non suscettibile di sostituzione se non attraverso una conversione per equivalente di valore), costituisce quindi un dato muto rispetto al diverso requisito riguardante il suo legame con il reato.
Il presupposto indefettibile per la confisca diretta – il nesso di derivazione – viene in sostanza annichilito in ragione della fungibilità del bene attraverso l’attribuzione al termine “fungibile” di un valore semantico che non gli è proprio: non vi è nessuna norma che autorizzi una confisca diretta prescindendo, in ragione della natura fungibile del bene, dalla necessità di accertare il legame tra l’oggetto della ablazione e il reato.
Del resto, se la monetizzazione del profitto rende certamente più complesso il tracciamento del legame con il reato, ma non impossibile, la circostanza che il denaro non abbia, di regola, un suo elemento identificativo, riconoscibile ex post, non è decisiva in quanto ciò vale per il prezzo e per il profitto del reato.
Invero, il prezzo e il profitto, come acutamente osservato dalla dottrina, costituiscono “evento” in senso tecnico e devono avere proprie e contingenti coordinate spaziotemporali.
D’altronde, operando diversamente, la mutilazione della fattispecie ablatoria diretta si consumerebbe attraverso una generalizzazione – la confusione indistinta del denaro nel patrimonio – che opererebbe sul piano astratto e senza specificità.
Il denaro che costituisce il profitto o il prezzo derivante dal reato si tramuterebbe, secondo l’opzione interpretativa in esame, in un tutto indistinto, confiscabile sempre, senza nessun riferimento alla “storia” del bene che si sottrae, alla sua causale specifica, al rapporto con il reato.
Due considerazioni ulteriori si impongono per le Sezioni unite.
La prima è che, volendo ragionare con i principi enunciati da Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, non erano chiari né i casi in cui la confisca avente ad oggetto somme di denaro potrebbe essere di valore, né la ragione per cui la confisca di valore dovrebbe essere relegata ad un mero simulacro; né, come detto, all’interno delle norme che consentono la confisca per equivalente dei beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo o al profitto (si vedano, esemplificativamente, gli artt. 322-ter cod. pen. e 12-bis D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), si opera una distinzione con riguardo al denaro.
La generalizzazione totalizzante, muovendo dal tema della fungibilità, difatti, per la Corte di legittimità, giunge di fatto a espungere dall’ordinamento la confisca di valore in favore della confisca diretta in tutti i casi in cui il profitto o il prezzo siano costituiti da denaro.
La seconda considerazione è che, se davvero la confisca di denaro deve sempre essere considerata come confisca diretta, la conseguenza che ne deriva è l’esistenza nell’ordinamento di un terza e non prevista figura di confisca.
Si avrebbe nell’ordinamento un triplice modello di confisca:
la confisca di proprietà, che impone l’accertamento del nesso di derivazione della cosa dal reato;
la confisca di valore, che invece prescinde dall’accertamento del nesso in questione;
la confisca di denaro, che sarebbe “sempre” diretta, prescindendo, di fatto, da una parte, dall’accertamento del nesso di derivazione del denaro dal reato in ragione della natura del bene, cioè dalla sua fungibilità, e, dall’altra, anche dalla eventuale prova positiva della liceità ed estraneità del denaro che si sequestra rispetto al reato.
A non diverse conclusioni deve pervenirsi anche con riguardo al tema della confusione.
Volendo ragionare con la tesi della fungibilità e della indistinta confusione, la conclusione a cui si dovrebbe pervenire dovrebbe in realtà essere opposta a quella indicata: quando si tratta di denaro, la confisca dovrebbe ritenersi sempre per equivalente, cioè il tantundem ritrovato, a prescindere dalla sua identificazione/identificabilità, salvo che non vi sia la prova del nesso di derivazione del denaro dal reato.
In altri termini, per il Supremo Consesso, la confisca del denaro è per equivalente tutte le volte in cui si smarrisce la rintracciabilità fisica del bene: la circostanza che un bene non possa essere rintracciato perché di per sé non marcabile, porta alla conclusione per cui, per effetto della contaminazione del denaro nel patrimonio del reo, il bene perde la sua individualità e l’ablazione ha ad oggetto il suo valore corrispondente: una confisca che attiene al tantundem.
A diverse conclusioni, del resto, sempre per la Suprema Corte, non pare potersi giungere nemmeno nel caso in cui si intenda fare riferimento ad un effetto di confusione che si realizza non in relazione all’intero patrimonio, come in passato sostenuto, ma al conto corrente o, comunque, al “luogo” su cui il prezzo o il profitto sono versati, perché anche in tali casi la consegna comporta l’acquisto in capo al depositario della proprietà della somma ed il sorgere dell’obbligo di restituzione del tantundem, cioè della somma corrispondente al valore nominale di quella di cui si è acquisita la proprietà (cfr. Sez. 1 civ., n. 788 del 20/01/2012).
Ebbene, per gli Ermellini, sulla base della ricostruzione compiuta, è possibile – senza pretesa di esaustività – indicare in positivo quando la confisca di somme di denaro debba essere qualificata come diretta e quando, invece, debba essere ritenuta per equivalente.
In particolare, la confisca del denaro è diretta nei casi in cui:
risulti che la somma confiscata sia proprio “quella” derivata dal reato;
si sia in presenza di “metamorfosi” del profitto o del prezzo del reato, cioè si sia in presenza di una utilità economica mediata ed indiretta acquisita successivamente al reato (surrogato, reimpiego), ma, in ogni caso, collegata eziologicamente all’illecito e, soprattutto, all’uso del profitto o del prezzo derivante dal reato: occorre la prova che la somma di denaro o il bene utilizzato per il reimpiego siano derivanti dal reato;
sussista la prova, sulla base delle concrete circostanze di tempo e di luogo, che proprio il denaro che costituisce il prezzo o il profitto del reato – versato sul conto – sia poi stato prelevato e utilizzato per l’impiego e per l’acquisto di un ulteriore bene (es. transito immediato della somma, che è versata e prelevata in circostanze di tempo e di fatto dimostrative del fatto che si tratti della stessa somma).
La confisca del denaro non è invece diretta se ha ad oggetto somme sopravvenute o preesistenti rispetto al reato ovvero, comunque, a questo certamente non riconducibili; in particolare, la confisca di somme giacenti sul conto corrente non è diretta in tutti i casi in cui, attraverso il “tracciamento” degli incrementi patrimoniali in denaro, non sia provato che si tratti di denaro derivante da reato.
A mero titolo esemplificativo, non è diretta la confisca di: a) somme relative ad emolumenti stipendiali o assimilabili; b) somme relative a pagamenti da parte di soggetti terzi in adempimento di prestazioni non collegabili al reato; c) somme provento di vendita di beni, acquistati in epoca antecedente alla commissione dell’illecito; d) somme confluite su un conto corrente cointestato, ma relative a proventi di uno dei correntisti estraneo al reato.
Ciò posto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, per la Cassazione, possono, dunque, a questo punto della disamina, essere declinati una serie di principi che assumono rilievo rispetto alla questione devoluta e alla valutazione dei motivi dei ricorsi, così enunciati: “Costituisce prezzo del reato il compenso dato o promesso per indurre, determinare o istigare un soggetto a commettere il reato. Costituisce profitto il vantaggio che il reo consegue dal reato. La confisca del denaro che costituisce il prezzo o il profitto del reato è diretta se vi è la prova del nesso di derivazione del denaro dal reato.
L’estensione della nozione di profitto, e, quindi, la possibilità di disporre la confisca diretta del “provento” del reato (surrogati, utilità mediate, reimpieghi) non esime, come anche nel caso di ablazione del prezzo del reato, dalla prova del nesso di derivazione della res dal reato. La confisca, anche diretta, del profitto o del prezzo ha carattere punitivo solo quando eccede il valore del vantaggio economico che l’autore ha tratto dal reato. La confisca per equivalente del prezzo e del profitto costituisce una modalità di apprensione dei beni alternativa a quella diretta, assolve ad una funzione ripristinatoria, ha una componente sanzionatoria e può solo eventualmente assumere carattere punitivo, nel senso in precedenza indicato (Corte cost., sent. n. 112 de 2019)”.
Orbene, alla stregua di siffatto quadro ermeneutico, per le Sezioni unite, la sentenza impugnata rivelava, dunque, un vizio di violazione e non corretta applicazione della legge penale per: a) errata indicazione dell’oggetto della ablazione come profitto e non prezzo e ai profili connessi alla natura giuridica della confisca per equivalente; b) assunzione come diretta della confisca del denaro disposta senza, tuttavia, occuparsi del nesso di derivazione di quel denaro dal reato; c) mancata individuazione da parte del Tribunale della provenienza delle somme versate sul conto che incide (per la Corte) sulla decisione in concreto assunta.
Chiariti tali aspetti, i giudici di piazza Cavour ritenevano altresì come il provvedimento impugnato fosse viziato anche per avere il Tribunale ritenuto sempre diretta la confisca avente ad oggetto somme di denaro, così come a conclusioni diverse rispetto a quelle del Tribunale doveva giungersi anche per quel che concerne la specifica questione rimessa alle Sezioni unite, oggetto di orientamenti divergenti.
Ebbene, gli Ermellini – dopo avere richiamato i diversi orientamenti nomofilattici formatisi in subiecta materia – evidenziavano prima di tutto che quello maggioritario, cioè quello che fa riferimento, in modo indistinto, alla solidarietà passiva, a sua volta, fondato dal riferimento alla natura e alla funzione “sanzionatoria” della confisca di valore; dalla responsabilità del correo nel reato plurisoggettivo, atteso che proprio la fissità della responsabilità concorsuale giustificherebbe l’ablazione per ciascun concorrente dell’intero prezzo o profitto, prescindendo dall’arricchimento in concreto conseguito dal singolo e dal riferimento civilistico alla solidarietà passiva dell’obbligazione, non potesse essere condiviso.
In particolare, per la Cassazione, a proposito della natura e alla funzione “sanzionatoria” della confisca di valore, e quindi quello per cui il principio solidaristico conseguirebbe dalla natura sanzionatoria della confisca per equivalente, esso prova troppo dal momento che, da un lato, la confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato non è una pena patrimoniale, quanto, piuttosto, un surrogato della confisca diretta, dall’altro, la confisca per equivalente, pur avendo una componente sanzionatoria, assolve fisiologicamente ad una funzione di riequilibrio, nel senso che tende a rimettere la sfera giuridica patrimoniale del reo nella stessa situazione che avrebbe avuto se il reato non fosse stato commesso, e non ha carattere strettamente punitivo, perché, come spiegato dalla Corte costituzionale, essa tendenzialmente non tende a sottrarre al reo più di quanto abbia conseguito indebitamente dal reato.
Quindi, non essendo la confisca per equivalente una pena patrimoniale, il riferimento al carattere “sanzionatorio” della confisca per equivalente, pur condivisibile per le ragioni già indicate in precedenza, non giustifica il richiamo, ai fini della indistinta responsabilità solidale, alla pena, al reato, alla disciplina della compartecipazione criminosa.
L’assunto secondo cui la confisca del prezzo o del profitto può essere disposta per l’intero prezzo o profitto nei confronti di uno qualsiasi dei concorrenti anche quando questi non abbia accresciuto in nulla – o solo in parte – il proprio patrimonio, d’altronde, potrebbe al più giustificarsi solo riconoscendo alla confisca in esame una fisiologica e intrinseca funzione punitiva, in realtà, tendenzialmente assente rispetto allo schema del mero riallineamento economico mentre la funzione sanzionatoria della confisca di valore è invocabile, semmai, solo in quanto funzionale ad ampliarne le garanzie, in ossequio ai dettami della Corte costituzionale e della giurisprudenza Europea al fine di superare i formalismi in cui si annidano i rischi delle c.d. “frodi classificatorie”.
Chiarito ciò, ad avviso delle Sezioni unite, non appare decisivo nemmeno il riferimento al concorso di persone nel reato e al modello unitario del reato concorsuale.
Prescindendo dalla questione relativa alla natura unitaria o meno della compartecipazione criminosa (sul tema, di recente, Sez. U., n. 27727 del 14/12/2023) e pur volendo ragionare facendo riferimento alla concezione monistica, invero, per gli Ermellini, questa non giustifica l’applicazione in concreto a tutti i concorrenti della stessa sanzione in modo fisso e predeterminato poiché la tradizionale concezione giuridica del fenomeno concorsuale individua nell’art. 110 cod. pen. una disposizione che accede alle singole fattispecie incriminatrici di parte speciale – costruite secondo il paradigma del reato monosoggettivo – consentendo in tal modo di configurare altrettante fattispecie eventualmente plurisoggettive nella cui struttura si inseriscono – e diventano per il medesimo titolo di reato punibili – tutte le condotte che abbiano materialmente o moralmente contribuito alla realizzazione del reato anche quando di per sé non realizzano l’intera fattispecie.
Un istituto – quello del concorso nel reato – che permette di attrarre nella stessa cornice edittale “astratta” i singoli contributi concorsuali, ma che, tuttavia, non giustifica la fissità della risposta punitiva e, soprattutto, non consente a taluno dei correi di farsi carico della pena da infliggere all’altro compartecipe.
L’ordinamento conosce istituti in grado di conformare, di graduare la risposta sanzionatoria applicabile in “concreto” a ciascun correo.
Dunque, per il Supremo Consesso, la regola, che imputa la confisca di valore per l’intero a carico di ciascun concorrente a prescindere dalla quota di conseguimento di quest’ultimo del profitto o del prezzo generato dal reato, non costituisce un corollario necessitato della teoria monistica del concorso eventuale di persone nel reato, ponendosi la stessa, di contro, in senso asimmetrico con la sua disciplina, nonché, più in generale, con i principi di colpevolezza, e, in ultima analisi, con il principio di uguaglianza (Corte cost., sent. n. 322 del 2007; 1085 del 1988; n. 42 del 1965).
Ciò posto, sempre ad avviso della Suprema Corte, non è nemmeno obiettivamente chiaro il senso del riferimento all’istituto di matrice civilistica della “solidarietà” passiva della obbligazione, utilizzato dalla citata giurisprudenza per giustificare il criterio totalizzante di imputazione della confisca al singolo nel reato concorsuale; non è chiara, in particolare, la ragione che “lega” il tema della obbligazione solidale civile con quello del concorso del reato e con la confisca per equivalente, essendo stato correttamente fatto notare in dottrina come l’istituto della solidarietà evochi in ambito penale al più l’art. 187 cod. pen., che sancisce il principio della solidarietà per le obbligazioni ex delicto, ma si tratta, tuttavia, di un riferimento che mal si presta ad essere conciliato con la logica della confisca per equivalente.
Sotto ulteriore profilo, le Sezioni unite reputavano come la tesi della solidarietà passiva sia difficilmente conciliabile con il principio di proporzionalità che, come noto, è trasversale al sistema ed ha trovato genesi ed espressione nei vari contesti, distinti ma sovrapposti, del diritto dell’Unione Europea (ove trova riferimento negli artt. 5 par. 3 e 4 T.U.E., art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta di Nizza, elevata in forza dell’art. 6T.U.E., a fonte primaria dell’Unione, al pari dei Trattati), della giurisprudenza di Strasburgo, e dell’ordinamento interno.
Il giudizio di proporzionalità si snoda in quattro verifiche successive, relative: a) alla sussistenza di una finalità legittima della misura; b) all’idoneità della misura stessa a conseguire quella finalità; c) alla necessità della misura, intesa come inesistenza di misure egualmente idonee ma meno incidenti sui diritti fondamentali dell’interessato; d) alla sua proporzionalità in senso stretto, ossia al carattere non eccessivo della compressione del diritto fondamentale rispetto all’importanza dello scopo perseguito.
Si tratta di un principio che trova applicazione in diversi ambiti e rappresenta un generale criterio applicativo per il giudice comune.
Quanto in particolare alla confisca, si evidenziava che il Regolamento 2018/1805/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 sul mutuo riconoscimento dei provvedimenti di congelamento e confisca prevede espressamente, all’art. 1 par.3, che “nell’emettere un provvedimento di congelamento o un provvedimento di confisca, le autorità di emissione assicurano il rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità”.
Anche la Direttiva 2014/42/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014, di cui sì è già detto, contempla uno specifico riferimento alla proporzionalità della confisca di valore al Considerando n. 17 (“Nell’attuazione della presente direttiva con riguardo alla confisca di beni di valore corrispondente ai beni strumentali al reato, le pertinenti disposizioni potrebbero essere applicate se, alla luce delle circostanze particolari del caso di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati”).
Al Considerando n. 18 è previsto inoltre che “nell’attuazione della presente direttiva, gli Stati membri possono prevedere che, in circostanze eccezionali, la confisca non sia ordinata qualora, conformemente al diritto nazionale, essa rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato, sulla base delle circostanze del singolo caso, che dovrebbero essere determinanti”, pur precisando che “è opportuno che gli Stati membri facciano un ricorso molto limitato a questa possibilità e abbiano la possibilità di non ordinare la confisca solo quando essa determinerebbe per l’interessato una situazione critica di sussistenza.
La nuova Direttiva 2024/1260 UE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 24 aprile 2024 (in vigore dal 22 maggio 2024) e che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 23 novembre 2026 (art. 33), analogamente richiama il principio di proporzione con specifico riferimento alla confisca per equivalente dei beni strumentali (Considerando n. 27) nonché la possibilità che gli Stati prevedano, in circostanze eccezionali, che la confisca non sia ordinata qualora rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato in base alle circostanze del caso (Considerando n. 49).
Il principio di proporzionalità, invero, può assumere una valenza c.d. prospettica, che involge, cioè, il rapporto tra la misura limitativa dei diritti e la finalità legittima perseguita dalla norma; una proporzione che attiene al rapporto tra mezzi impiegati o scopo perseguito (Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. Srl c. Italia), fermo restando che tale proporzionalità può anche assumere una valenza c.d. retrospettiva, che attiene invece alla valutazione del se una norma sanzionatoria – e, in particolare, “punitiva” – produca una compressione eccessiva dei diritti fondamentali del suo destinatario.
Orbene, in questo caso, assume rilievo, per la Cassazione, la valutazione della congruità della risposta sanzionatoria rispetto al fatto che ha dato causa alla sanzione; si tratta di una valutazione di proporzionalità a cui ha fatto riferimento la Corte costituzionale proprio in tema di confisca (Corte cost., sent. n. 112 del 2019, di cui si detto sopra) e che verte non sul rapporto tra la misura sanzionatoria e la finalità legittima perseguita, quanto, piuttosto, sul rapporto tra la severità della sanzione punitiva e la gravità dell’illecito sanzionato.
La norma, ha spiegato la Corte costituzionale, è costituzionalmente illegittima quando la reazione sanzionatoria appaia manifestamente eccessiva rispetto al disvalore, oggettivo e soggettivo, del fatto.
Il giudizio di proporzionalità – si è ancora chiarito in dottrina in modo condivisibile – è retrospettivo rispetto alle misure di natura punitiva; è invece prospettico rispetto ad ogni altra misura restrittiva di diritti fondamentali, a natura preventiva o ripristinatoria, in cui ciò che rileva è che il legislatore non incida sui diritti fondamentali della persona in maniera inidonea, non necessaria o non proporzionata (in senso stretto) rispetto alle legittime finalità di tutela liberamente perseguite dalla norma.
Un sindacato sulla proporzionalità che, rispetto alle pene, trova il proprio fondamento nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nell’art. 27, terzo comma, Cost., con riguardo al necessario orientamento alla rieducazione della pena, e al principio della personalità della responsabilità penale, che è alla base della necessaria individualizzazione della pena.
Un sindacato di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito – ha spiegato la Corte costituzionale – “applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative”, quindi non solo a quelle c.d. punitive in senso stretto, trovando in tal caso il principio in esame la propria base normativa nell’art. 3 Cost. “in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione” (Corte cost., sent. n. 112 del 2019).
Ebbene, alla luce di codeste considerazioni, per i giudici di piazza Cavour, a questo punto della disamina, è possibile, dunque, formulare alcune considerazioni, così rappresentate: “- la confisca è misura sottoposta anch’essa al controllo di proporzione, a prescindere dalla sua formale “etichetta”; – anche rispetto alla confisca si deve valutare se la compromissione del diritto di proprietà sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto al fine prefissato; – se l’ablazione non è diretta ad un mero ripristino ma assume connotati punitivi, nel senso in precedenza esplicitato (Corte cost., sent. n. 112 del 2019), il controllo di proporzionalità assume una valenza retrospettiva, con particolare riguardo alla proporzione della sanzione complessivamente irrogata rispetto alla gravità del singolo fatto; – se l’ablazione è invece diretta al ripristino della situazione anteriore all’illecito, il controllo di proporzionalità ha una valenza prospettica ed è volto a verificare la congruità del mezzo – cioè della misura- rispetto al fine. – gli automatismi e le rigidità sanzionatone possono essere elementi indicativi di sproporzione”.
Or dunque, in questa prospettiva, l’orientamento interpretativo, fondato sulla c.d. solidarietà passiva dei concorrenti, non ha tradizionalmente ravvisato nessuna tensione con il principio di proporzionalità, essendo stato affermato che, anche nei casi in cui l’esproprio abbia ad oggetto l’intero prezzo o profitto e colpisca il singolo compartecipe in modo indifferente e avulso dal concreto arricchimento da questi conseguito, lo strumento sarebbe comunque proporzionato in relazione al vantaggio complessivamente derivato dall’illecito collettivo; l’assunto, cioè, è che la valutazione di proporzionalità debba essere compiuta non con riferimento alla singola posizione personale e, dunque, rispetto alla quota di prezzo o di profitto conseguita dal correo, quanto, piuttosto, rispetto al profitto complessivo derivato dal reato; una impostazione rispetto alla quale si coglie la valorizzazione della natura “sanzionatoria-afflittiva” della confisca per equivalente in grado di giustificare, in quanto pena ed anche attraverso la evocazione della solidarietà passiva, l’inflizione di una ablazione eccedente il mero recupero del vantaggio che il reo, attraverso il delitto, si è illecitamente procurato.
Orbene, per le Sezioni unite, questa impostazione doveva essere rivisitata.
In particolare, una volta preso atto che il tema, da doversi trattare in questa parte della sentenza, è quello della legittimità di una confisca senza arricchimento e della sua compatibilità con il principio di proporzionalità, e rilevato come si sia già spiegato come la confisca per equivalente, pur avendo una componente sanzionatoria, non assolva, tendenzialmente, ad una funzione punitiva, essendo invece fisiologicamente finalizzata ad assicurare il ripristino della situazione pregressa al reato e, dunque, il richiamo alla funzione “punitiva”, alla pena, al concorso di persone non può essere condiviso per giustificare l’ablazione indistinta, tuttavia, pur volendo ragionare nel senso dell’indirizzo interpretativo che attribuisce alla confisca in esame una funzione “eminentemente” punitiva, nondimeno, per i giudici di piazza Cavour, la possibilità di disporre una indistinta confisca senza arricchimento rivela comunque una forte tensione con il giudizio di proporzionalità e, più in generale, con il principio di colpevolezza.
Se, infatti, la pena è misura della colpevolezza, infliggere una “punizione” (l’ablazione) in misura maggiore, fissa, automatica e in modo del tutto scollegato dalla situazione concreta – cioè da quanto sia stato davvero conseguito dal singolo correo – ovvero, addirittura, confiscare al singolo correo l’intero prezzo o profitto anche nei casi in cui alcun arricchimento sia a questi derivato, non è compatibile con il principio di proporzionalità in senso retrospettivo, non solo quanto ai profili di idoneità e “necessità” – ben potendo la misura essere rivolta a chi si sia effettivamente arricchito -, ma, soprattutto con riguardo al giudizio di proporzionalità in senso stretto, il soggetto, che ha concorso a commettere il delitto, subirà la pena prevista dalla legge per detto delitto in ragione del quantum di colpevolezza personale sicché anche la confisca “punitiva” non può essere sganciata dal peso e dal quantum di vantaggio in concreto conseguito.
Il principio di proporzionalità della pena deve infatti consentire “l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2016).
Dunque, non è obiettivamente chiaro perché sarebbe proporzionata una confisca punitiva in cui il singolo che non abbia conseguito dal reato alcunché dovrebbe subire una confisca totalizzante – magari di entità consistente – rispetto al correo che abbia accresciuto la propria sfera giuridico patrimoniale mentre, ove invece si voglia fare riferimento alla funzione di ripristino della confisca, di cui si è detto in precedenza, l’ablazione indistinta, fissa e totalizzante nei riguardi del correo che non abbia conseguito nessun arricchimento, nessuna porzione dì profitto, ovvero abbia conseguito una quota parte di profitto inferiore rispetto all’oggetto della ablazione, non risulta proporzionata sotto il profilo della adeguatezza del mezzo scelto per raggiungere gli obiettivi prefissati: si realizza, cioè, una frattura dell’intervento ablatorio – fisso e automatico – rispetto al rapporto tra gli obiettivi da raggiungere – il rispristino – e i diritti “da sacrificare”, che vengono senza ragione compressi in modo immediato ed eccessivo.
Quindi, per la Corte di legittimità, in caso di pluralità di concorrenti, ai fini della confisca diretta o per equivalente avente ad oggetto denaro costituente prezzo o profitto del reato è illegittima ogni forma di solidarietà passiva fra i correi.
Escluso pertanto ogni riferimento alla solidarietà passiva, agli automatismi e alle semplificazioni probatorie da essa derivanti, il tema della confisca senza arricchimento e della quantificazione del prezzo o del profitto conseguito da ciascun compartecipe nel reato diventa allora, ad avviso delle Sezioni unite, un tema del processo, e, in particolare, un tema oggetto di prova, trattandosi di un accertamento che deve essere compiuto caso per caso, in concreto; un accertamento rispetto al quale è possibile individuare un presupposto, una massima di esperienza, una generalizzazione empirica, tratta dall’esperienza comune – da ciò che normalmente accade – e cioè che chi partecipa alla commissione di un reato generatore di lucro lo fa per conseguire personalmente un vantaggio che, nella maggiore parte dei casi, ha una sua consistenza economica.
Una massima di esperienza che, tuttavia, ha come statuto epistemico quello tipico delle massima d’esperienza: uno statuto per definizione incerto, debole, collocato nell’area del verosimile, sicché tale debolezza di base deve essere compensata da una ancora più rigorosa opera giudiziale di investigazione e verifica della sua affidabilità nel caso concreto, trattandosi di una verifica giudiziale che “passa” dalla funzione accertativa del processo, dal diritto alla prova, dal contraddittorio delle parti.
Una massima di esperienza che, per la Corte, potrà essere superata attraverso la allegazione di fatti dimostrativi della partecipazione del singolo concorrente al reato per ragioni diverse rispetto a quella di trarre una indebita locupletazione e che potrà condurre ad un accertamento anche della inesistenza di un effettivo arricchimento da parte del compartecipe (es. partecipazione al reato per costrizione, per fatto illecito altrui, per conseguire vantaggi non derivanti dal reato, per acquistare “fama criminale”).
Una verifica, sotto altro profilo, che impone, secondo le regole ordinarie del processo, al pubblico ministero di provare il quantum di profitto conseguito dai singoli correi in relazione a ciascun reato; una verifica dinamica in cui, da una parte, il pubblico ministero è tenuto a provare il quantum confiscabile nei riguardi di ciascun compartecipe per ciascun reato e, dall’altra, ciascun concorrente potrà, a sua volta, dimostrare a discarico di non avere conseguito nessun vantaggio ovvero di averne conseguito una parte inferiore rispetto a quella indicata dalla pubblica accusa, potendo assumere rilievo, al riguardo, la situazione concreta, i rapporti tra i correi, le aspettative specifiche del singolo – cioè il movente della condotta del singolo concorrente – il senso, il tempo, le condizioni e il contenuto dell’accordo di compartecipazione, il ruolo, le aspettative e la condotta in concreto compiuta del singolo rispetto al piano organizzativo del reato.
Deve essere di conseguenza accertato il “senso” del “patto”, delle intese tra i concorrenti, il suo oggetto specifico, la “qualità” dell’adesione alla compartecipazione, il tipo di percorso che l’ha preceduta, la “serietà” del contesto ambientale in cui la decisione di partecipare al reato è maturata: occorre, in altri termini, fare riferimento ad indici di verifica da calibrare caso per caso.
Una quantificazione del prezzo o del profitto che viene provata non in via presuntiva, ma sulla base di un accertamento probatorio concreto, in ragione degli atti del processo.
Una verifica che giustifica una regola di chiusura, che opera in modo oggettivo nel solo caso in cui sia stato “provato” il conseguimento da parte del singolo partecipe di una quota di profitto o di prezzo del reato, ma, al tempo stesso, nessuna delle parti sia stata in grado di quantificare in concreto il vantaggio, di “dividere” il complessivo arricchimento indebito.
Una regola di chiusura che, sul presupposto provato che una parte del profitto o del prezzo del reato sia stato conseguito dal compartecipe, consente di ripartire il vantaggio derivante dal singolo reato in parti uguali tra i correi.
Ciò dunque costituisce, per la Corte di legittimità, il limite quantitativo della confisca, trattandosi di principi che assumono valenza anche in sede cautelare con riguardo al sequestro preventivo finalizzato alla confisca.
Le Sezioni unite, del resto, hanno già spiegato come, in ragione della loro natura strumentale e anticipatoria rispetto al successivo provvedimento di merito (la confisca), ogni misura cautelare (il sequestro) non può di per sé incidere sui diritti in misura maggiore rispetto a quanto sia destinato a fare il provvedimento definitivo al quale la cautela è servente, essendo principi che trovano avallo nella necessità, anche in sede cautelare, di rispettare i criteri di proporzionalità, adeguatezza e gradualità della misura e della esigenza di evitare un’indistinta compromissione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata dei singoli (cfr., Sez. U, n. 36959 del 24/06/2021; Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018; Sez. U, n. 51660 del 25/09/2014; Sez. U, n. 5876 del 28/10/2004).
Dunque, per gli Ermellini, non vi sono ragioni per consentire in sede cautelare di sequestrare indistintamente l’intero profitto o prezzo a ciascun concorrente oppure di rispristinare la solidarietà passiva tra correi – destinata, invece, a non operare, come detto, all’esito del giudizio – ovvero, ancora, di sequestrare nei confronti di ciascuno più di quanto da questi sia stato conseguito.
In effetti, la motivazione, anche in sede cautelare, deve chiarire le ragioni della sussistenza dei presupposti che legittimano il ricorso al sequestro e deve necessariamente spiegare i motivi per cui si ritiene che il singolo partecipe al reato abbia conseguito una determinata quantità di prezzo o di profitto derivante dal reato; deve cioè essere garantita la possibilità di verificare, alla luce del complessivo contenuto informativo e argomentativo del provvedimento, l’adeguatezza del mezzo rispetto alla funzione anticipatoria ad esso assegnata.
La motivazione assolve ad una ineliminabile funzione di garanzia perché, attraverso essa, si consente di verificare la conformità della misura cautelare rispetto a quegli stessi principi che giustificano la confisca.
D’altronde, è stato peraltro già spiegato dalle Sezioni Unite come la fase cautelare comporti una diversa modulazione del contenuto motivazionale del provvedimento, che tenga conto delle caratteristiche proprie della fase procedimentale, del suo sviluppo, degli elementi acquisiti, e, in particolare, “dello stato interlocutorio del provvedimento, e, dunque, della sufficienza di elementi di plausibile indicazione” (Sez. U, n. 36959 del 24/06/2021).
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulavano i seguenti principi di diritto: “La confisca di somme di denaro ha natura diretta soltanto in presenza della prova della derivazione causale del bene rispetto al reato, non potendosi far discendere detta qualifica dalla mera natura del bene. La confisca è, invece, qualificabile per equivalente in tutti i casi in cui non sussiste il predetto nesso di derivazione causale. In caso di concorso di persone nel reato, esclusa ogni forma di solidarietà passiva, la confisca è disposta nei confronti del singolo concorrente limitatamente a quanto dal medesimo concretamente conseguito. li relativo accertamento è oggetto di prova nel contraddittorio fra le parti. Solo in caso di mancata individuazione della quota di arricchimento del singolo concorrente, soccorre il criterio della ripartizione in parti uguali. I medesimi principi operano in caso di sequestro finalizzato alla confisca, per il quale l’obbligo motivazionale del giudice va modulato in relazione allo sviluppo della fase procedimentale e agii elementi acquisiti”.
4. Conclusioni: in caso di concorso di persone nel reato, la confisca riguarda solo il singolo concorrente e solo per ciò che egli ha effettivamente ottenuto
Se, in caso di pluralità di concorrenti nel reato, la confisca per equivalente del relativo profitto possa essere disposta per l’intero nei confronti di ciascuno di essi, indipendentemente da quanto da ognuno eventualmente percepito, oppure se ciò possa disporsi soltanto quando non sia possibile stabilire con certezza la porzione di profitto incamerata da ognuno; od ancora se, in quest’ultimo caso, la confisca debba comunque essere ripartita tra i concorrenti, in base ai grado di responsabilità di ognuno oppure in parti eguali, secondo la disciplina civilistica delle obbligazioni solidali.
È stato risolto in questa pronuncia tale contrasto affermandosi che, nel concorso di persone, la confisca riguarda solo il profitto effettivamente ottenuto da ciascun concorrente, da accertare nel contraddittorio mentre, se non è possibile determinarlo, soccorre il criterio della ripartizione in parti uguali.
Inoltre, sempre in tale pronuncia, è stato postulato un ulteriore criterio ermeneutico, essendo stato affermato che la confisca di denaro è diretta solo se provato il nesso causale col reato mentre, in assenza di tale nesso, essa è per equivalente.
Oltre a ciò, è stato altresì precisato che tutti questi principi rilevano pure nel caso di sequestro finalizzato alla confisca, per il quale l’obbligo motivazionale del giudice va modulato in relazione allo sviluppo della fase procedimentale e agii elementi acquisiti.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba comprendere se ricorra la confisca diretta o per equivalente, e per capire come deve essere disposta siffatta misura ablatoria nel caso di concorso di persone nel reato.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, poiché fa chiarezza su tali tematiche giuridiche sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere positivo.
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