Consenso informato: è valido anche quando prestato oralmente dopo ripetuti incontri informativi tra paziente e medico

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  1. I fatti

Nella pronuncia oggetto di commento, i familiari di una paziente deceduta avevano citato in causa l’Azienda sanitaria per chiedere il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza del decesso della loro familiare, accaduto a causa di uno shock emorragico all’esito di una angiotac che era stata effettuata dalla paziente.  A fronte della pronuncia di primo grado del Tribunale di Udine che aveva rigettato la suddetta richiesta risarcitoria, gli stessi familiari avevano proposto appello dinanzi alla Corte d’Appello di Trieste e, di fronte ad una nuova sentenza di rigetto delle loro pretese risarcitorie, avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione presentando cinque motivi di ricorso.

Nei primi quattro motivi i ricorrenti avevano denunziato, rispettivamente: una errata valutazione della prova del “fatto-condotta” e della prova del nesso di causalità; una errata valutazione circa la rilevanza della cartella clinica; una errata e mancata valutazione delle prove testimoniali; la mancanza di un’alternativa causa di morte. Tutti i suddetti motivi sono stati, però, rigettati dalla Corte Suprema. Innanzitutto, perché il ricorso, per le suddette motivazioni, veniva considerato dai giudici della Suprema Corte inammissibile in quanto, in violazione di quanto disposto nell’art. 366, comma 1, n°6 c.p.c. i ricorrenti non avevano allegato le prove dei documenti e degli atti di cui chiedevano il riesame: infatti, i ricorrenti nel proprio ricorso si erano limitati a richiamare i suddetti atti e documenti (di cui sostenevano un’ errata valutazione da parte dei giudici di merito), senza però essersi preoccupati di riprodurli e senza neppure fornire indicazione alcuna che fosse idonea all’individuazione degli stessi. In secondo luogo, i giudici della Corte hanno rigetto i suddetti primi 4 motivi di ricorso, affermando che i ricorrenti avevano proposto ricorso per ottenere una rivalutazione nel merito della causa, nonostante questo sia compito esclusivo dei giudici di merito, essendo, invece, compito della Corte di Cassazione quello di giudicare sulla legittimità della questione.

Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il quinto motivo di ricorso con il quale i ricorrenti avevano denunziato la “mancata valutazione ed errata applicazione della disciplina sul consenso informato”.

Si legga anche:”Consenso informato: profili evolutivi e rapporto medico-paziente”

  1. Le questioni di diritto sul consenso informato

Con il suddetto ultimo motivo di ricorso, i ricorrenti, in sostanza, hanno lamentato che la corte di merito non si è pronunciata sulla mancanza di consenso informato della paziente sia per gli interventi effettuati in data 2 maggio e 3 maggio 2017, sia per l’angiotac con mezzo di contrasto che era stata eseguita sulla paziente in data 3 maggio 2017.

In considerazione di ciò, i familiari hanno affermato che, se la paziente fosse stata adeguatamente informata sui possibili esiti infausti, non avrebbe acconsentito a sottoporsi al trattamento o comunque avrebbe scelto di rivolgersi ad un’altra struttura ospedaliera.

Più specificamente, i ricorrenti hanno lamentato la mancanza del modulo di consenso informato che descrivesse in modo chiaro l’intervento che è stato poi eseguito, le modalità di intervento e i rischi cui veniva sottoposta la paziente.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato gli orientamenti della medesima Corte per i quali l’acquisizione da parte del personale sanitario del consenso informato costituisce prestazione autonoma e separata rispetto all’intervento medico, assumendo, così, autonoma rilevanza ai fini di un’eventuale responsabilità risarcitoria.

Secondo gli Ermellini, il consenso informato attiene al presupposto di legittimità dell’attività medica, con il quale il paziente esprime consapevolmente adesione al trattamento sanitario che gli viene proposto dal medico. Il paziente, dunque, viene adeguatamente informato su tutti i possibili e probabili risvolti del trattamento sanitario, atteso che non vi può essere obbligato a sottoporsi se non per disposizione di legge.

In considerazione di ciò, in mancanza di consenso informato, l’intervento del medico è illecito, anche se posto in essere nell’interesse del paziente, in quanto lo stesso costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario.

Ebbene, i giudici di legittimità ricordano che, sulla base della normativa dettata in materia, il consenso al trattamento terapeutico deve essere prestato dal paziente solo dopo una scelta consapevole conseguente ad un’adeguata informazione, da parte del personale sanitario, circa le conseguenze e le possibili evoluzioni dell’intervento.

Pertanto, secondo l’orientamento della Corte, il personale sanitario viene meno all’obbligo di acquisire un adeguato e valido consenso del paziente quando lo stesso viene acquisito con modalità improprie oppure quando vengono omesse alcune informazioni circa la natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo.

Per quanto riguarda, invece, il caso del consenso prospettato solo oralmente la Corte Suprema ritiene di non dover escluderne a priori la relativa idoneità, bensì che devono essere valutate le modalità concrete caso per caso. In particolare, i giudici supremi hanno ritenuto che, nel caso in cui vi siano stati ripetuti incontri tra medico e paziente in cui il primo ha illustrato al secondo oralmente tutte le informazioni sull’intervento il dovere del medico di informare adeguatamente il paziente sia da ritenersi assolto a fronte di un consenso prestato dallo stesso paziente anche se solo oralmente.

 

  1. La decisione della Suprema Corte

Nel caso di specie, i giudici della Corte di Cassazione hanno ritenuto che nel giudizio di merito siano stati disattesi i principi sopra detti.

I giudici di merito, infatti, hanno concluso che, sulla base della CTU, il decesso della paziente non sia stato conseguente ad “incongrua manovra in sede di angiotac” e perciò l’evento di shock emorragico era totalmente imprevedibile e non prevenibile. Tuttavia, secondo i giudici di legittimità, nella sentenza impugnata non vi è alcun riferimento domanda di risarcimento formulata dai ricorrenti per la mancanza del consenso informato del paziente all’effettuazione dell’angiotac. Infatti, già nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, secondo i ricorrenti, la familiare deceduta non avrebbe acconsentito al trattamento e si sarebbe rivolta ad un’altra struttura se le fossero stati prospettati correttamente i rischi e se la stessa fosse stata informata delle altre tecniche di controllo meno invasive e meno pericolose effettuate da altre strutture sanitarie.

Sulla base di tutto quanto sopra, i Giudici della Corte di Cassazione hanno accolto il motivo di ricorso dei familiari, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa per un nuovo giudizio di merito che affronti il tema del consenso informato e verifichi, sulla base dei principi di diritto sopra esposti, se nel caso di specie i sanitari abbiano fornito alla paziente tutte le adeguate e necessarie informazioni per farla decidere in maniera effettivamente consapevole sull’esecuzione dell’intervento.

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