Ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle legis artis, si sia concluso con esito fausto – ovvero con un miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative apprezzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all’art. 582 c.p., che sotto quello del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p..
Con tale sentenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mediante un approccio conforme al diritto vivente e ad una lettura aggiornata della Carta Costituzionale, hanno risolto una questione, quella relativa alla rilevanza penale dell’attività medico-chirurgica a fini terapeutici in caso di mancato consenso del paziente, che da lungo tempo, oramai, aveva dato luogo a rilevanti contrasti giurisprudenziali e dottrinali.
La fattispecie concreta riguardava una paziente, ricoverata nel reparto di ginecologia di una struttura sanitaria, che veniva sottoposta ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità, a salpingectomia con la quale le veniva asportata la tuba sinistra.
Procedutosi contro il medico, l’intervento asportativo risultava essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguito nel pieno rispetto delle leges artis e con una competenza superiore alla media, tuttavia, secondo la prospettazione accusatoria, senza il consenso validamente prestato della paziente, informata soltanto della laparoscopia. Secondo i giudici di primo grado, infatti, già nella fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili: l’evoluzione dell’intervento in asportativo (essendovi un’elevata probabilità di asportazione della salpinge), la non opportunità dell’interruzione dell’intervento e la mancanza del pericolo di vita e, quindi, del presupposto del c.d.”stato di necessità” ex art. 54 c.p., quale causa di giustificazione dell’agire medico in assenza di consenso informato. L’omissione, pertanto, proprio in ragione dell’elevata probabilità dell’intervento doveva configurarsi non come una colpa del medico bensì come una sua scelta consapevole e volontaria.
Il fatto, poi, che ogni trattamento medico eseguito in assenza di un consenso valido e specifico integri una lesione della libertà di autodeterminazione della persona circa le decisioni mediche che la riguardano (art. 32 Cost.), induceva i giudici a considerare il medico responsabile non tanto del reato di lesioni personali volontarie aggravate, come contestato originariamente, quanto piuttosto di quello di violenza privata, per la quale lo stesso veniva condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, sostituita con pena pecuniaria e beneficio della sospensione condizionale della pena.
Impugnata la sentenza da parte del medico, la Corte d’Appello riteneva contradditoria ed insufficiente la prova in ordine all’acquisizione del consenso informato della paziente, sicchè, esclusa, da un lato, l’esimente dello stato di necessità e respinto, dall’altro, l’assunto secondo cui è lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di espresso dissenso, rilevava l’intervenuta prescrizione del reato e revocava le statuizioni civili disposte con la sentenza di primo grado.
Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione sia i difensori dell’imputato (per tre motivi: mancata adozione di una formula di proscioglimento ampia nel merito, mancata assunzione di una prova decisiva in riferimento all’esimente dello stato di necessità ed insussistenza del reato di violenza privata) sia quelli della parte civile (per inosservanza di legge e vizi motivazionali che avevano portato i giudici d’appello a revocare le statuizioni civili).
La Sezione Penale della Corte, ravvisando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale e dottrinale sui temi coinvolti, decideva di rimettere, ex art. 618 c.p.p., alle Sezioni Unite la soluzione pregiudiziale del quesito se “abbia o meno rilevanza penale, sotto il profilo delle fattispecie di lesioni personali o di violenza privata, la condotta del medico che sottoponga il paziente, in mancanza di valido consenso informato, ad un trattamento chirurgico, pure eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis e conclusosi con esito fausto”.
Al riguardo la Sezione assegnataria faceva immediatamente notare come, quanto al primo aspetto, vi fossero in giurisprudenza due distinti orientamenti: uno secondo cui il consenso del paziente deve intendersi come indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico (con la conseguenza che la mancanza del consenso determinerebbe l’arbitrarietà del trattamento, e pertanto la sua rilevanza penale, salvo vi sia uno stato di necessità o si applichino previsioni legislative specifiche, come ad es. in caso di trattamento sanitario obbligatorio) ed un altro secondo cui la volontà del paziente rivestirebbe un ruolo decisivo solo se espressa in forma negativa (con la conseguenza che, anche in assenza di esplicito consenso, il medico è comunque legittimato a sottoporre il paziente al trattamento che egli giudica necessario per la tutela della sua salute, a prescindere da scriminanti quali ad es. il consenso stesso o lo stato di necessità).
Riguardo, poi, al tipo di reato eventualmente configurabile, veniva fatto notare come esistessero egualmente due interpretazioni: una prima per la quale il medico che interviene su un paziente in assenza di previo consenso risponde di lesioni volontarie anche quando l’esito dell’intervento è favorevole (ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se a scopo di cura, implica necessariamente il compimento di atti che integrano il concetto di malattia di cui all’art. 582 c.p.) ed un’ulteriore per la quale l’arbitrarietà dell’intervento – che non potrà mai realizzare il delitto di lesioni essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a provocare una malattia – può assumere rilevanza penale solamente come attentato alla libertà individuale e pertanto configurare soltanto il delitto di violenza privata.
A queste dovevano altresì aggiungersi delle soluzioni intermedie, come ad es. quella di ravvisare la sussistenza del reato di violenza privata in caso di trattamento non chirurgico ovvero quella di ritenere che la violenza privata sia configurabile solo se il trattamento chirurgico viene eseguito in presenza di un espresso e consapevole rifiuto del paziente.
Investite della questione e recependo le summenzionate osservazioni, le Sezioni Unite procedevano preliminarmente ad esaminare alcune tra le più significative sentenze in materia di responsabilità medica e di consenso informato degli ultimi decenni.
L’excursus iniziava con una pronuncia che in passato era stata oggetto di diffusi rilievi critici e di ampio clamore tra la classe medica in quanto aveva stabilito che l’intervento chirurgico di maggiore entità rispetto a quello per cui era stato prestato il consenso – effettuato in assenza di un effettivo stato di necessità ed urgenza – portava il medico a rispondere del reato di lesioni personali volontarie, essendo irrilevanti sia gli aspetti psichici che la finalità curativa della condotta; salvo invece rispondere del più grave reato di omicidio preterintenzionale se dall’evento ne fosse derivato il decesso del paziente (Cass. Pen. Sez. V 1992/5639, caso “Massimo”).
Venivano successivamente esaminate quattro sentenze, rese all’inizio del 2000, esprimenti una posizione decisamente meno rigorosa ed in parte modificativa della suriportata pronuncia, nelle quali venivano statuiti i seguenti principi.
Qualora, in assenza di uno stato di necessità, l’intervento chirurgico demolitivo venga effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato per un intervento di minore entità, e dallo stesso ne derivi il decesso del paziente, il medico non risponde di omicidio preterintenzionale, in quanto manca una condotta consapevole ed intenzionale (rectius dolosa) diretta a provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica (Cass. Pen. Sez. IV 28132/2001, caso “Barese”). Il medico non può manomettere l’integrità fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso esplicito dissenso (Cass. Pen. Sez. IV 36519/2001, caso “Ciccarelli”). Ancora, premesso che il consenso costituisce requisito indispensabile per garantire la libertà di autodeterminazione costituzionalmente prevista, è configurabile una responsabilità penale per lesioni personali colpose ex art. 590 c.p. a carico del medico che compia sul paziente un intervento chirurgico nell’erroneo convincimento, ascrivibile a propria negligenza o imprudenza, dell’esistenza di un preventivo consenso del paziente, secondo quanto previsto dall’art. 59, comma 4, c.p. (Cass. Pen. Sez. IV 35822/2001, caso “Firenzani”). Infine, il medico è sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente – anche in mancanza di esplicito consenso – dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso e consapevole rifiuto eventualmente manifestato, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare un aggravamento dello stato di salute o, persino, il decesso; se poi, in concreto, vi siano tutti i requisiti per ritenere l’intervento chirurgico eseguito con puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica, si deve, solo per tale ragione, anche se mancano specifiche cause di liceità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale del medico, quantunque l’intervento abbia avuto esito infausto (Cass. Pen. Sez. I 26446/2002, caso “Volterrani”; in caso contrario cfr. Tribunale di Novara, sent. n. 409/2007, dove i giudici di merito hanno invece statuito che “la correttezza tecnica dell’intervento (…) non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato”).
Le Sezioni proseguivano poi nel considerare anche la giurisprudenza più recente che sembra collocarsi in linea con i principi codificati nelle massime c.d. “intermedie”, ovvero, a titolo indicativo ma non esaustivo, con il principio per cui la mancanza o l’invalidità del consenso “determinano l’arbitrarietà del trattamento medico chirurgico, e quindi la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul suo corpo” (Cass. Pen. VI 11640/2006, caso “Caneschi”), con il principio per il quale se il medico effettua un trattamento chirurgico in assenza di consenso o con un consenso prestato per un trattamento diverso ed il paziente decede, non può configurarsi a suo carico il reato di omicidio preterintenzionale poiché la finalità curativa comunque perseguita dal medico deve ritenersi concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica del paziente necessaria, invece, per l’integrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni ex art. 584 c.p. (Cass. Pen. Sez. VI 11335/2008, caso “Huscer”); ordine di idee questo, peraltro, recuperato in un’altra pronuncia del medesimo anno (Cass. Pen. Sez. IV 37077/2008, caso “Ruocco”) nella quale veniva statuito come dalla mancanza di un valido consenso non possa farsi discendere una responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie o, in caso di decesso, di omicidio preterintenzionale. Ciò poiché il sanitario agisce con una finalità curativa che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni, salvo, ovviamente, il caso in cui si verifichino situazioni anomale o distorte che possano portare alla configurabilità di tali reati (es. mutilazioni o menomazioni procurate per scopi esclusivamente scientifici).
Conclusa l’analisi giurisprudenziale, le Sezioni Unite rilevavano come, in sede penale, sia stata essenzialmente recepita la tesi civilistica della c.d. “autolegittimazione dell’attività medica” che rinverrebbe il proprio fondamento non tanto nell’art. 50 c.p. (in tale senso cfr. anche la pronuncia relativa al caso “Caneschi”), quanto piuttosto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito (art. 32 Cost.). Ed, invero, nel testo della sentenza si legge infatti “l’attività sanitaria, pertanto, proprio perché destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute (…) ha base di legittimazione (fino a potersene invocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come “costituzionalmente imposta”), direttamente dalle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo”, con la conseguenza che ai giudici di legittimità sembra “davvero incoerente l’ipotesi che una professione ritenuta, in se, di “pubblica necessità” (art. 359 c.p.), abbisogni per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico, ancorché attuate secondo le regole dell’arte e con esito favorevole per il paziente”.
Sulla necessità del consenso, come espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario e come vero e proprio diritto della persona, in sentenza si evidenzia come si siano peraltro espresse anche la Corte Costituzionale (sent. n. 438/2008, nella quale i giudici hanno rilevato come il consenso abbia funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: “quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative”), nonché, in particolare, la Convenzione sui diritti del fanciullo (1989), la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (Orviedo, 1997), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000).
Appurata, dunque, la configurabilità del consenso come vero e proprio principio fondamentale in materia di tutela della salute, sia in ambito nazionale che internazionale, nonché l’illiceità, non solo sotto il profilo civilistico ma anche sotto quello penalistico, della condotta del medico che opera contro la volontà del paziente, a prescindere dall’esito fausto o infausto, le Sezioni Unite spostavano la loro attenzione su un diverso problema, ovvero che cosa accada, invece, nel caso in cui, in assenza di espresso consenso allo specifico trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente.
Si affrontava quindi il quesito prendendo in considerazione dapprima l’esistenza dei requisiti per la sussistenza del reato di violenza privata e, successivamente, di quelli per la sussistenza del reato di lesioni personali.
Quanto alla sussistenza del reato di violenza privata, questa veniva immediatamente esclusa in quanto, richiedendo l’art. 610 c.p. quale elemento oggettivo il compimento di una violenza o minaccia che abbia l’effetto di costringere taluno a fare, omettere o tollerare qualcosa – quindi un comportamento da cui consegue un risultato determinato, distinto dalla violenza o dalla minaccia -, non si può certo dire che il “tollerare” l’operazione chirurgica soddisfi tale requisito: “la violenza, infatti, è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualcosa; deve dunque trattarsi di “qualcosa” di diverso dal “fatto” in cui si esprime la violenza. Ma poiché, nella specie, la violenza sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poiché l’evento di coazione risiederebbe nel fatto di “tollerare” l’operazione stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di “costrizione a tollerare” rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all’art. 610 c.p.”.
Quanto, invece, alla sussistenza del reato di lesioni personali, originariamente contestato al medico nella sentenza de quo, le Sezioni Unite ritenevano egualmente di doverla escludere in primis (come già d’altronde evidenziato da una significativa parte della dottrina e della giurisprudenza) per una sostanziale incompatibilità concettuale tra lo svolgimento dell’attività sanitaria (compresa quella chirurgica) e l’elemento soggettivo che deve sussistere affinché possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie ex art. 582 c.p.. Invero “una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta volta a cagionare quel “male. Ciò non esclude, però, che l’atto chirurgico integri – ove isolato dal contesto medico terapeutico – la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale l’antigiuridicità non può che ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente: in una parola, al consenso informato, che compone la “istituzionalità” della condotta “strumentale”del chirurgo, costretto a “ledere” per “curare”. Come veniva giustamente fatto notare dalle Sezioni, quindi, il versante del problema si spostava dall’antigiuridicità, derivante dall’assenza del consenso, al diverso intervento chirurgico, alla “tipicità” delle lesioni dell’intervento e delle conseguenze derivatene, “giacchè, se l’atto operatorio ha in definitiva prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del fatto, sub specie di conformità al modello delineato dall’art. 582 c.p., a venire seriamente in discussione”. E’ evidente, come da ragionamento posto in essere dai giudici, che la questione coinvolge la nozione stessa di “malattia”, della quale si possono rinvenire sostanzialmente due linee interpretative.
Per un primo approccio (seguito prevalentemente dalla dottrina) integrerebbe tale concetto solamente una lesione che determina un processo patologico ovvero una compromissione significativa delle funzioni dell’organismo, con la conseguenza che una mera alterazione anatomica del corpo non potrebbe ritenersi sufficiente. Per un secondo approccio (seguito in passato dalla giurisprudenza di legittimità), al contrario, comporterebbe una malattia ogni alterazione anatomica e funzionale dell’organismo, con la conseguenza che ogni sensibile variazione dell’integrità fisica o psichica renderebbe configurabile il reato di lesioni personali.
Le Sezioni Unite, vagliati i due orientamenti, accoglievano un’impostazione del concetto di malattia in chiave c.d. “funzionalistica”, sottolineando come, essendo la stessa classe medica già da tempo concorde nel ritenere “la malattia come un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo, ne deriva che le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di “malattia”, correttamente intesa” (in questo senso cfr. anche Cass. Pen. Sez. IV 10643/1996, caso “Francolini”; Cass. Pen. Sez. V 714/1998, caso “Rocca”; Cass. Pen. Sez. IV 3448/2004, caso “Perna” e Cass. Pen. Sez. IV, 17505, caso “Pagnani”).
L’accedere a tale impostazione comporta però, come rilevato nella sentenza, anche il trarre i necessari riflessi per ciò che attiene l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 582 c.p., “giacchè, se si ritiene che non possa integrare il reato la lesione che coincida, come evento casualmente derivato, in una mera alterazione anatomica senza alcuna apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo, se ne deve dedurre che l’elemento psicologico non potrà non proiettarsi a “coprire” anche la conseguenza “funzionale” che dalla condotta illecita è derivata”.
Di qui le conclusioni delle Sezioni secondo cui in caso di intervento medico – chirurgico realizzato per fini terapeutici “la condotta del medico è non soltanto teleologicamente orientata al raggiungimento di uno specifico obiettivo “prossimo” quale può essere, in ipotesi, la riuscita, sul piano tecnico – scientifico, dell’atto operatorio in sé e per sé considerato, quanto – e soprattutto -per realizzare un beneficio per la salute del paziente. E’ quest’ultimo, infatti, il vero bene da preservare; ed è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire copertura costituzionale alla legittimazione dell’atto medico. L’atto operatorio in sé, dunque, rappresenta solo una “porzione” della condotta terapeutica, giacchè essa, anche se ha preso avvio con quell’atto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze, soltanto in ragione degli esiti “conclusivi” che dall’intervento chirurgico sono scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente”.
Affermazioni, queste, dalle quali si ricava l’assunto secondo cui “le conseguenze dell’intervento chirurgico ed i relativi profili di responsabilità (…) non potranno coincidere con l’atto operatorio in sé e con le “lesioni” che esso “naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute”; ragione per cui il medico non potrà essere chiamato a rispondere del delitto di lesioni per il solo fatto di essere intervenuto chirurgicamente sul corpo del paziente.
In realtà veniva rilevato come, essendo la condotta del sanitario rivolta a fini terapeutici, è proprio “sugli stessi esiti dell’obiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza dell’agere, in rapporto, anche, alle regole dell’arte”; con la conseguenza che solo in questo frangente andrà verificato l’esito fausto o infausto dell’intervento e quindi parametrato ad esso il menzionato concetto di “malattia”.
In accoglimento quindi delle suriportate prospettazioni, le Sezioni ritenevano di statuire senza dubbio alcuno che “ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis, e cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, dall’atto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacchè l’atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha provocato (…) una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia”, motivo, questo, per cui, difettando il relativo “evento”, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 582 c.p..
A diverse conclusioni deve invece giungersi qualora l’esito dell’intervento sia stato infausto, situazione quest’ultima in cui la condotta del sanitario, avendo cagionato una malattia, realizzerà un fatto conforme al tipo, come può accadere ad es. in caso di errore sull’esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo del medico.
In tal modo argomentato, le Sezioni Unite annullavano, senza rinvio, “perché il fatto non sussiste”, la decisione della Corte d’Appello che aveva dichiarato l’intervenuta prescrizione del reato di violenza privata contestato in primo grado al medico e dichiaravano inammissibile il ricorso della parte civile condannandola al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle Ammende.
E’ importante rilevare come le Sezioni Unite, in questa singolare sentenza, abbiano spostato il tema di indagine non tanto sul fatto che ci sia stato o meno il consenso da parte del paziente – poichè da tale punto di vista è stato chiarito come esista sia un diritto costituzionalmente garantito del paziente all’autodeterminazione, sia un diritto costituzionalmente garantito del medico di adempiere alle proprie funzioni – quanto piuttosto sull’eventuale rilevanza penale del fatto, giungendo a concludere per la sua assenza qualora l’intervento sia stato eseguito a) nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, b) abbia avuto esito fausto e c) non vi sia stato un espresso dissenso del paziente.
In ogni caso, una volta esclusa la rilevanza penale del fatto, appare tuttavia pacifico come il fatto in sé possa comunque rilevare su altri piani, quale quello civilistico, potendo esservi spazio per un eventuale risarcimento del danno a favore del paziente che riesca a provare che dall’intervento – effettuato in mancanza di consenso – ne è a lui derivato un danno.
In proposito appare interessante una recente sentenza del Tribunale di Milano (sent. n. 2847/2008), nella quale i giudici di merito hanno statuito che, in caso di esecuzione di intervento diverso da quello per cui il paziente aveva prestato il consenso, non è l’inadempimento da mancato consenso che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il c.d. “danno consequenziale”, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c., con la conseguenza che lo stesso deve essere provato dallo stesso paziente. Nella fattispecie concreta, tuttavia, all’esito dell’intervento per cui non era stato prestato il consenso informato, non soltanto risultavano inesistenti sia una colpa medica che un pregiudizio per la salute del paziente, ma ne era addirittura derivato un miglioramento delle condizioni psico – fisiche di quest’ultimo, così da portare i giudici di merito a sentenziare la mancanza del danno biologico e del relativo risarcimento.
Avv. Stefania Bertollo
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