Origini del consenso informato
Per secoli, sulla base dell’insegnamento di Ippocrate, il medico ha esercitato il diritto-dovere di non rivelare nulla al paziente riguardo alle sue condizioni di salute ed i trattamenti a cui era sottoposto[1]: ciò era solo parzialmente giustificabile per il (remoto) timore di passi estremi che poteva prendere il malato[2]. Il rapporto tra medico e paziente era consolidato su due precisi criteri rappresentati dal dovere professionale di fare il bene del malato e dall’obbligo di questi di accettare completamente le decisioni e l’opera del curante[3]. Per moltissimo, quindi, il consenso del malato all’atto medico non ha avuto alcuna rilevanza e la scelta delle terapie e dei sistemi di cura e se darne o (come quasi sempre succedeva) non darne conto al paziente, rimaneva nell’ampia discrezionalità del medico.
Nel XX secolo si avverte in modo più netto un mutamento di questo schema quando, nel 1914, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato il principio secondo cui “ogni essere umano adulto e sano di mente ha diritto di decidere ciò che sarà fatto sul suo corpo, e un chirurgo che effettua un intervento senza il consenso del suo paziente commette un’aggressione per la quale è perseguibile per danni”[4]. Gli Stati Uniti vengono ritenuti il paese d’origine del consenso informato e l’espressione informed consent pare, a qualche Autore[5], che sia stata tradotta in italiano in modo ambiguo in “consenso informato”, per quanto, al contrario, dovrebbe dirsi “informazione per il consenso” soprattutto per una decifrazione più corretta ed una interpretazione più precisa in rapporto ai notevoli concetti che presuppone e racchiude, rilevando che tale impronta dalla lingua inglese porta il rischio di far pensare, erroneamente, che ad essere informato è il consenso, piuttosto che il paziente che lo presta. L’informazione ed il consenso possono essere infatti paragonati a due facce della stessa medaglia che coincidono e si unificano dando contenuto alla responsabilità medica in tema di libertà e dignità della persona: da una parte vi è la fase dell’acquisizione del consenso, preceduta da una corretta e sincera informazione, interpretata e decifrata come una importante fase ed essenziale indicatore della buona condotta e diligenza medico-professionale; dall’altra il consenso stesso direttamente concepito come obbligo finalizzato al pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione, all’indipendenza ed alla autonomia del malato visto come persona.
L’affermazione in campo internazionale di tale principio risale poi al 9 Dicembre 1946 quando, a Norimberga, si apriva (e si chiuse il 20 agosto 1947) il processo ai medici nazisti rei di sperimentazione umana – si tenga presente sempre dunque anche il contesto regolato – e, successivamente, venne redatto il Codice[6] nel quale si è voluto ribadire che “Il consenso volontario del soggetto è assolutamente essenziale. Questo significa che la persona in questione deve avere capacità legale di dare il consenso, ossia deve essere in grado di esercitare il libero arbitrio senza l’intervento di alcun elemento coercitivo, inganno, costrizione, falsità. Deve avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi della situazione in cui è coinvolto, tali da metterlo in posizione di prendere una decisione cosciente e illuminata. Quest’ultima condizione richiede che prima di accettare una decisione affermativa da parte del soggetto dell’esperimento lo si debba portare a conoscenza della natura, della durata e dello scopo dell’esperimento stesso; del metodo e dei mezzi con i quali sarà condotto; di tutte le complicazioni e rischi che si possono aspettare e degli effetti sulla salute o sulla persona che gli possono derivare dal sottoporsi all’intervento. Il dovere e la responsabilità di constatare la validità del consenso pesano su chiunque inizia, dirige o è implicato nell’esperimento”.
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Consenso informato e Costituzione
Su questa scia, ed avvicinandoci al nostro ordinamento, l’art. 32 della Costituzione sancisce che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, in sintonia con il principio fondamentale della inviolabilità della libertà personale di cui all’art. 13 della stessa Carta fondamentale come riconosciuto dal Supremo Consesso, quando ha precisato che la manifestazione del consenso del paziente costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico, afferendo alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica, intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea: tutti profili riconducibili al concetto di libertà della persona, tutelato dall’art. 13 Cost.[7] e come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 438 del 2008 secondo cui il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti inviolabili, e negli artt. 13 e 32 della medesima Carta, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Tale ultima espressione tende a significare che i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, e che il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario.
Dalla circostanza che il consenso informato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32, Cost., nella detta nota Sentenza viene posto in risalto dalla Consulta la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: “quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione. Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale”.
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Consenso informato nel diritto internazionale ed europeo
Ancora, andando per ordine di tempo, sul piano internazionale assume rilevanza in materia la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina), firmata a Oviedo il 4 aprile 1997. Quest’ultima, che com’è noto, sebbene il Parlamento ne abbia autorizzato la ratifica con la Legge 28 marzo 2001, n. 145, non è stata a tutt’oggi ratificata dallo Stato italiano[8], assume comunque certamente una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: essa dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma deve essere utilizzata nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile conforme alle disposizione in essa contenute, e dedica al consenso il capitolo II, precisamente gli artt. 5, 6, 7, 8 e 9, e stabilisce innanzitutto, come regola generale, che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”.
Se volessimo iniziare poi a definire però la qualificazione giuridica del consenso informato, in campo internazionale ci si può ictu oculi accorgere come già la Convenzione di Oviedo non è di particolare ausilio e si esprime sempre in termini abbastanza vaghi, se non si considerasse il Rapporto esplicativo allegato alla stessa dove comunque solo alcuni elementi specifici del consenso informato sono qualificati come diritti individuali, in particolare il diritto del paziente ad essere informato ed il diritto a revocare il proprio consenso[9]. Ancora – notando come sul piano pattizio internazionale e/o dell’Unione Europea si possa fare riferimento ad un ricco bagaglio di riferimenti – l’art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 Novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 Maggio 1991, n. 176, premesso che gli Stati aderenti “riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione”, dispone che “tutti i gruppi della società in particolare i genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore” e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 Dicembre 2000, sancisce, poi, che “ogni individuo ha il diritto alla propria integrità fisica e psichica” e che nell’ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato, tra gli altri, “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”. Mentre quindi tale “diritto” si è oramai ben affermato come tale a livello nazionale e trova ripetute conferme sia in dottrina sia nella giurisprudenza delle Corti interne, sul piano internazionale sembra possibile sostenere la tesi che un diritto umano al consenso informato possa emergere dalla convergenza del diritto internazionale dei diritti umani e del biodiritto internazionale, dalle quali viene in superficie che il diritto al consenso informato si compone di due elementi: uno sostanziale, traducibile nel diritto del soggetto capace di autodeterminarsi di essere adeguatamente informato e di esprimere il proprio consenso, o viceversa il rifiuto, di essere sottoposto ad interventi o trattamenti sanitari di natura preventiva, diagnostica, terapeutica, riabilitativa o che siano finalizzati alla ricerca biomedica ed alla sperimentazione scientifica, e nello speculare divieto posto al personale medico d’intervenire (fatta eccezione per i casi d’urgenza) in mancanza dell’assenso esplicito della persona interessata o, laddove necessario, del suo rappresentante legale, del fiduciario o di altro organismo decisionale sostitutivo; ed uno di natura procedurale, quando si impone agli operatori sanitari di fornire tutte le informazioni necessarie e di acquisire il consenso secondo le modalità richieste dalla legge e dalla prassi medica[10]. Dal punto di vista giuridico, dunque, tale consenso non rappresenta solo il “prerequisito” o la “condizione” di un trattamento sanitario, ma costituisce la legittimazione giuridica dell’atto medico[11], sicché qualsiasi intervento effettuato in assenza di consenso, ancorché rispondente all’interesse del paziente[12] ed appunto perché ormai da considerarsi “diritto”, può essere considerato come illecita “aggressione al corpo” e può impegnare la responsabilità civile e penale del medico o dell’operatore sanitario. La questione della qualificazione giuridica del consenso informato ha riguardato comunque anche il nostro ordinamento prima che il Giudice delle leggi lo qualificasse come “diritto alla persona”. Infatti, in precedenza il consenso del paziente era qualificato come una mera causa di giustificazione quando, per la Suprema Corte, “in linea generale l’attività medica trova fondamento e giustificazione, nell’ordinamento giuridico, non tanto nel consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.) come si riteneva in passato, poiché tale opinione, di per sé, contrasterebbe con l’art. 5 c.c., in tema di divieto degli atti di disposizione del proprio corpo, ma in quanto essa stessa legittima, essendo volta a tutelare un bene costituzionalmente garantito, qual è quello della salute”[13].
Attuale disciplina legislativa del consenso informato
Sintetizzando si è dunque passati da una concezione, oltre che filosofica, legislativa e giurisprudenziale, di tipo gerarchica del rapporto medico-paziente ad una vera e propria collaborazione tra questi due diretta a combattere la malattia e tesa ad assicurare al secondo il più desiderabile livello di vita e non quello oggettivamente fisicamente migliore. Viene oggi dunque promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico.
Oggi, il legislatore, dopo essere intervenuto in materia di responsabilità professionale medica con la Legge Gelli-Bianco (L. n. 24/2017), ha disciplinato il consenso informato con la Legge del 22 Dicembre 2017, n. 219, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 Gennaio 2018. Di maggior interesse ai nostri fini sono gli artt. 1-3 disciplinanti rispettivamente il consenso informato in genere considerato, la terapia del dolore ed il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita, il consenso informato nei casi in cui trattasi di incapaci o minori. Nessun accenno viene fatto al consenso informato nella Legge Gelli-Bianco e permangono comunque notevoli dubbi sull’onere della prova, in attesa di un intervento chiarificatore della giurisprudenza, soprattutto di legittimità.
Ma ancora prima, anche quasi per giustificare la scelta del legislatore di intervenire con autonoma azione, già da subito è necessario ricordare che, come recentemente definito dagli Ermellini[14], il consenso informato costituisce prestazione altra e diversa (e quindi autonoma) rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, di talché l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti – rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all’integrità psicofisica – pregiudicati nelle due differenti ipotesi[15], integrando tale omissione dell’informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’espletamento dell’atto medico e di beneficiare della conseguente deminutio della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall’esito favorevole dell’intervento[16].
Tale consenso, dunque, è talmente inderogabile – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del deficit di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti e, comunque, si verifica una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali di sofferenza fisica e/o psichica[17]. Quando il medico, senza previa acquisizione del consenso informato – naturalmente in situazione in cui tale acquisizione sarebbe stata possibile – esegue correttamente sul paziente un intervento chirurgico, che ex ante appaia necessitato sul piano terapeutico ed ex post si riveli anche risolutivo della patologia che il paziente presentava, la lesione alla libertà di determinazione del paziente cagionata dalla mancata acquisizione del consenso è comunque idonea a determinare un danno risarcibile (ferme restando le sottili contraddizioni in giurisprudenza che tra poco si dirà). Infatti, in un caso in cui i giudici di merito avevano respinto la domanda risarcitoria presentata dal paziente giustificando tale decisione proprio sul vantaggio conseguito dal paziente attraverso l’eliminazione della patologia[18], è poi intervenuto il Supremo consesso cassando la decisione perché tale prospettiva di costi-benefici non deve essere considerata “in alcun modo condivisibile ed appare frutto di una non corretta percezione della struttura della fattispecie di illecito, sia esso contrattuale o extracontrattuale, che si ricollega all’esecuzione” La prestazione chirurgica comporta una lesione della integrità fisica del paziente e tale informativa è condizione indispensabile per la validità del consenso al trattamento che per essere tale deve essere pienamente consapevole, e senza il quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32, comma 2 quanto dall’art. 13 della Carta costituzionale, nonché dall’art. 33 della Legge del 23 Dicembre 1978, n. 833 (che esclude la possibilità d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se ciò non sia disposto dall’autorità sanitaria che comunque agisce nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura e non trascura comunque che gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato: più genericamente, è esclusa la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari coercitivi se il paziente è in grado di prestare il consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.[19] ovvero si sancisce, all’art. 33, il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari).
In ordine all’onere delle prova ai fini risarcitori, è bene fare riferimento al contrasto tra alcuni Autori ed in seno alla giurisprudenza quando si ritiene, da un lato, che occorre comunque fornire la prova del pregiudizio fisico o morale in rapporto causale con la mancata informazione, non essendo ravvisabile, in tale ambito, un danno in re ipsa[20], essendo necessario, quindi, far riferimento alla c.d. prova controfattuale[21] che consiste nel prevedere la condotta diversa che il paziente avrebbe tenuto ove gli fosse stata fornita l’informazione e le diverse conseguenze, meno dannose, principalmente sotto il profilo non patrimoniale, che il soggetto avrebbe patito ove non avesse acconsentito alla scelta terapeutica, clinica o chirurgica cui è stato sottoposto[22] e, dall’altro lato, che “non è corretta la tesi […] per la quale l’inadempimento dell’obbligo informativo si avrebbe solo in caso di allegazione e prova, da parte del paziente, di un suo probabile rifiuto all’intervento in caso di avvenuta adeguata informazione; al riguardo risultando opportuno premettere – ricordata la natura contrattuale dell’obbligo gravante sul sanitario e quindi la sufficienza dell’allegazione dell’inadempimento da parte del paziente-creditore – che […] deve ritenersi che il paziente, il quale invochi, dispiegando la relativa domanda risarcitoria, l’incompletezza del consenso informato e quindi l’inadempimento del correlativo obbligo dei sanitari di somministrargli le informazioni necessarie per formarlo, alleghi implicitamente il danno a quella sua libera e consapevole autodeterminazione che, in base a quanto accade normalmente e per riferirsi la lesione ad un diritto personalissimo e relativo alla sfera interna del danneggiato (almeno quanto alla sofferenza ed alla contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona dell’esecuzione dell’intervento durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza), si ricollega quale conseguenza ineliminabile alla carenza di un quadro informativo completo e ben compreso o spiegato a chi dovrebbe valutarlo come base di una responsabile decisione”[23].
Ancora, a sostegno della prima tesi, è utile evidenziare quanto riportato dalla recentissima Sentenza del Tribunale di Napoli, Sez. VIII, del 2 Febbraio 2017, n. 1325, laddove il giudice partenopeo ha stabilito che “non può che evidenziarsi che l’attore non ha in alcun modo allegato che, ove adeguatamente informato, non si sarebbe sottoposto all’intervento (condizione indispensabile al fine di ritenere integrato un danno risarcibile, in ipotesi di violazione dell’obbligo di informazione: cfr. sul punto, Cass., sez. III, 13 luglio 2010, n. 16394: Il medico è tenuto al risarcimento del danno lamentato dal paziente non ogni qual volta si sia discostato dalle regole della buona pratica clinica od abbia omesso di informare adeguatamente il paziente stesso, ma soltanto allorché la violazione di tali obblighi sia stata la causa (o concausa) efficiente di un danno effettivo. Ciò vuol dire che, là dove il paziente alleghi la violazione delle “leges artis” da parte del medico, ha altresì l’onere di provare che da tale inadempimento è derivato un peggioramento delle proprie condizioni di salute altrimenti evitabile; là dove, per contro, alleghi la violazione dell’obbligo di informazione da parte del medico, ha l’onere di provare che, ove l’informazione fosse stata fornita, avrebbe rifiutato il trattamento sanitario)”. Le note Sentenze di San Martino (Cass. Civ., SS.UU., del 11 Novemrbe 2008 nn. 26972/3/4/5) qualificano poi il danno non patrimoniale quale “conseguenza” e non quale evento[24]; quindi, non è sufficiente, a fini risarcitori, la mera violazione del consenso, ma occorre anche la prova del danno subito dal paziente che non può più essere individuato in re ipsa nella mera violazione dell’interesse leso, in quanto il danno, quale componente dell’illecito, è una conseguenza meramente eventuale dell’evento lesivo, potendo anche configurarsi illeciti non produttivi di danni[25]. In caso di mancata informazione in astratto sussiste sempre l’illecito, in base al diritto a scegliere in ordine alla propria esistenza, ma se manca il pregiudizio in concreto non sussistono i presupposti per il risarcimento del danno; in tal caso il pregiudizio è inesistente perché l’intervento è riuscito e la salute del paziente è migliorata. A sostegno della seconda tesi si riporta invece l’inciso al quale una mancata condivisione, a parere di chi scrive, potrebbe e dovrebbe aversi considerando che alla luce della Legge Gelli-Bianco il sanitario risponderebbe per responsabilità aquiliana o extracontrattuale[26], oltre al fatto che il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura come previsto espressamente dal comma 8 dell’art. 1, L. 219/2017:“quanto all’obbligo d’informazione ed all’onere della relativa prova basta ricordare che la responsabilità professionale del medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato – ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il medico gravato dell’onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione (Cass. n. 2847/10)”[27]. Ritenuto dunque che la violazione, in tutto o in parte, del dovere di informazione dà luogo a un’ipotesi di inadempimento contrattuale, l’onere della prova si distribuisce tra le parti in conformità alle consuete norme in materia e com’è noto, in materia di obbligazioni contrattuali, il creditore deve dimostrare l’inadempimento e il contenuto dell’obbligazione rimasta inadempiuta, mentre il debitore è tenuto, dopo tale prova, a giustificare ex art. 1218 c.c. l’inadempimento che il creditore gli attribuisce.
Basterà dunque al creditore-paziente allegare l’inadempimento, mentre graverà sul debitore-medico l’onere di fornire la prova dell’assolvimento dell’obbligo contrattuale posto a suo carico, secondo i principi generali in materia di onere della prova nell’adempimento delle obbligazioni ribaditi dalla Cassazione: “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative del beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”[28]. In merito si segnala poi che, per risolvere il nodo di cui si discute, la L. n. 219/2017, pur avendo disciplinato l’obbligo del consenso informato, nulla ha previsto per quanto riguarda le conseguenze risarcitorie che possono derivare dalla sua violazione da parte del sanitario, considerandosi quindi valevole a tale scopo quanto maturato in giurisprudenza dovendo necessariamente poi quest’ultima mantenere il passo coi tempi. Ci pare utile comunque sottolineare un terzo indirizzo, anche per sollevare qualche dubbio sia che si accolga la tesi sulla responsabilità aquiliana ovvero quella contrattuale del medico relativamente al livello di presunzione di responsabilità ed il correlativo onere della prova a carico del sanitario, il fatto che In Italia sono circa 600.000 all’anno gli interventi di chirurgia estetica[29], senza considerate il c.d. turismo estetico, cioè gli italiani che vanno all’estero per sottoporsi all’intervento.
È adesso indubbio che chi si rivolge ad un chirurgo plastico lo fa per finalità spesso esclusivamente estetiche e, dunque, per rimuovere un difetto, e per raggiungere un determinato risultato, e non per curare una malattia. Ne consegue che qui il risultato, rappresentato dal miglioramento estetico dell’aspetto del paziente, non è solo un motivo, ma entra a far parte del nucleo causale del contratto, e ne determina la natura. È inutile negarsi adesso che questo dovere di informazione è particolarmente pregnante nella chirurgia estetica, perché il medico è tenuto a prospettare in termini di probabilità logica e statistica al paziente la possibilità di conseguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico. Da questo punto di vista, tanto le caratteristiche tanto le finalità del trattamento medico-estetico, impongono una informazione completa proprio in ordine all’effettivo conseguimento del miglioramento fisico e – per converso – ai rischi di possibili peggioramenti della condizione estetica. La necessità di una informazione puntuale, completa e capillare è funzionale alla delicata scelta del paziente: se rifiutare l’intervento o accettarlo correndo il rischio del peggioramento delle sue condizioni estetiche. “Va, in definitiva, ribadito che – nel caso di interventi non necessari – il “consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario […]che il giudizio controfattuale va compiuto, non con una avventurosa indagine nella, psiche del paziente, ma facendo richiamo alle categorie della razionalità e della normalità. Ci si dovrebbe cioè chiedere cosa avrebbe deciso una persona normale e razionale se avesse avuto tutte le informazioni rilevanti. Ora, in difetto di una corretta e puntuale informazione sulle possibilità che l’esito del trattamento potesse addirittura risolversi in un peggioramento del suo aspetto fisico […] deve ritenersi che la paziente – come qualsiasi soggetto normale e razionale – avrebbe opposto un rifiuto a sottoporsi alla tecnica di intervento proposta. La particolarità del risultato perseguito dal paziente e la sua normale non declinabilità in termini di tutela della salute consentono infatti di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l’informazione fosse stata offerta e rendono pertanto superfluo l’accertamento, invece necessario quando l’intervento sia volto alla tutela della salute e la stessa risulti pregiudicata da un intervento pur necessario e correttamente eseguito, sulle determinazioni cui il paziente sarebbe addivenuto se dei possibili rischi fosse stato informato”[30]. In definitiva, per concludere la nostra parentesi sull’onere probatorio in tema di consenso informato, nel caso di interventi (o esami) necessari è il paziente che deve dimostrare che, se avesse ricevuto un’informazione completa avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (o all’esame), mentre nel caso di interventi (o esami) non necessari, in mancanza di adeguata informativa si presume che il paziente non avrebbe dato il suo consenso[31]. Il secondo indirizzo (come, a conseguenza delle evidenti analogie, il terzo), come dicevamo, non ci sembra condivisibile alla luce della riforma Gelli-Bianco, infatti, secondo questa, ai sensi dell’art. 7, comma 3, ove sia citato in giudizio il medico, l’azione nei suoi confronti sarà extracontrattuale, con conseguente onere della prova a carico del paziente; in tal caso non trova applicazione il principio della vicinanza alla prova[32] anche perché, soprattutto in ambito di consenso scritto, entrambe le parti sono nella condizione di fornirla. Nel caso in cui venga citata la struttura sanitaria per la mancata informazione al paziente da parte del medico operante al suo interno – considerando che, come vedremo dopo, anche questa è gravata di obblighi in tema di consenso informato – la responsabilità della struttura per il fatto del medico, ex art. 1228 c.c. sarà contrattuale, ai sensi dell’art. 7, comma 1, L. n. 24/2017, trattandosi di norma imperativa. A seguito della mutata natura dell’azione nei confronti del medico (da contrattuale e extracontrattuale) sia che trattasi di consenso scritto o meno, è il paziente a dover fornire la prova della mancanza di informazione.
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La responsabilità dell’ortopedico
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Domenico Vasapollo (a cura di) | 2019 Maggioli Editore
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Nel caso di consenso scritto tale onere dovrebbe ricadere sul paziente anche nel caso di azione contrattuale nei confronti della struttura, dovendosi modificare, si ritiene, la giurisprudenza che, in forza di un erronea applicazione del principio della vicinanza alla prova (applicabile nei rapporti medico paziente ma con riferimento alla corretta esecuzione dell’intervento medico, non estendendosi all’informazione) pone la prova a carico della struttura sanitaria. Il paziente si noti infatti che non avrà interesse alla produzione in giudizio di tale modulo ove intenda provare la mancata o insufficiente informazione e, generalmente, il modulo comunque sarà prodotto in giudizio dal medico, in via di eccezione, ove il relativo onere della prova gravi invece sul paziente, come ormai dovrebbe affermarsi, in forza della responsabilità aquiliana del sanitario affermata dall’art. 7, comma 3, L n. 24 del 2017. Tale prova documentale si ritiene sia sufficiente per gli interventi di semplice esecuzione, mentre, per quelli di difficile esecuzione occorre anche fornire la prova, da parte del paziente, in forza del mutato regime di responsabilità (extracontrattuale) della mancanza di una informazione completa in relazione alle conoscenze specifiche del paziente; il documento sottoscritto costituisce solo un elemento di prova, onerando il paziente della sua incompletezza e potendo pur sempre il medico specificare, in via di eccezione, la completezza della informazione e del relativo consenso da parte del paziente. Si noti poi ancora che in tali casi parte della giurisprudenza, di merito con decisione poi cassata[33], ammette la prova testimoniale o la prova documentale rappresentata dalla eventuale registrazione o videoregistrazione della conversazione tra medico e paziente. Ciò pare giustificarsi se si considera che la sottoscrizione del modulo in cui si afferma che il paziente ha vagliato tutte le conseguenze dell’intervento o della terapia ha valore di semplice presunzione e che non basta, tenuto conto che da tale circostanza non può desumersi che il consenso prestato sia stato effettivamente informato, cioè prestato sulla base di una adeguata ed esplicita informazione. In caso di consenso scritto, con un’evidente anomalia processuale, dettata dall’esigenza di tutela del paziente, non troverebbe applicazione, secondo quei giudici, il divieto di prova testimoniale previsto dall’art. 2722 c.c. il quale espressamente prevede che “la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea”.
Tale norma invece deve ritenersi che non si applica quindi solamente ai contratti ma anche alle dichiarazione di scienza non negoziali, qual è il consenso informato, facendo riferimento a “documenti”, senza ulteriori specificazioni sulla loro natura e dovrà essere, quindi, inammissibile una prova testimoniale idonea a superare quanto emerge dal documento scritto. Il paziente danneggiato, ove dunque citi direttamente il medico con l’azione extracontrattuale, comunque non può limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, ma deve, oltre che allegare, anche provare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; non è più il medico tenuto a dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante, ma tale onere si sposta sul paziente. Ove venga citata, invece, la struttura sanitaria nulla muta rispetto alla giurisprudenza precedente e sarà la struttura a dover fornire la prova della adeguata informazione[34]. In precedenza la giurisprudenza era pacificamente orientata nel senso di ritenere che era onere del medico provare, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente, l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente (nella specie, avvocato), potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell’informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone[35]. Mentre con riferimento alla struttura sanitaria (la cui responsabilità è contrattuale anche ai sensi dell’art. 1228 c.c.) o al medico libero professionista che ha stipulato un contratto con il paziente, nulla cambia con riferimento all’onere della prova che continua a gravare sull’ente pubblico o privato, la previsione della responsabilità extracontrattuale del medico “strutturato” (cioè dipendente di una struttura pubblica) inverte l’onere della prova ponendolo a carico del paziente. Si ritiene che in tale evenienza non trovi applicazione il principio della c.d. vicinanza alla prova, in quanto sia il medico sia il paziente si trovano sullo stesso piano probatorio, potendo entrambi fornire la relativa prova. Dovrebbe, nel caso di consenso scritto, circostanza prevalente ed ormai obbligatoria, trovare applicazione il divieto di prova testimoniale previsto dall’art. 2722 c.c. Tale principio, si ritiene, non trova applicazione solamente con riferimento ai contratti, ma anche alla dichiarazione di scienza non negoziale, qual è il consenso. In tal caso una prova testimoniale non potrebbe essere idonea a superare quanto emerge dal documento scritto.
Tuttavia potrebbe essere ammissibile la prova testimoniale relativa alle modalità di somministrazione dell’informazione, potendo essere insufficiente la informazione fornita in concreto al fine di far comprendere al paziente il contenuto del modulo sottoscritto. Deve considerarsi anche il fatto che nelle strutture ospedaliere capita che l’informazione venga data da un sanitario diverso da quello che poi effettuerà l’intervento e in tal caso sarà applicabile l’art. 2055 c.c. in quanto il sanitario operante, in base al principio della successione nella posizione di garanzia, deve accertare che l’informazione sia stata fornita correttamente dal medico delegato. Potrebbe, quindi, essere configurabile una responsabilità aquiliana nei confronti del medico non operante, per non aver fornito una corretta informazione, mentre nei confronti del sanitario operante potrà essere imputata sia una responsabilità solidale, ex art. 2055 c.c. per il deficit informativo, comunque imputabile anche a quest’ultimo, sia la responsabilità per la non corretta esecuzione dell’intervento. Il paziente non deve solo allegare l’inesatto adempimento dell’obbligo di informazione ma deve anche fornire la relativa prova. Rimane sempre a carico del paziente, una volta accertata la mancanza di informazione, l’onere probatorio relativo alla circostanza che non si sarebbe sottoposto all’intervento in caso di corretta informazione, anche in via presuntiva, in forza delle seguenti considerazioni: perché il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; perché la prova del nesso causale tra la prestazione e il danno comunque compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui; perché il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico costituisce un’eventualità che non corrisponde all’id quod plerumque accidit.
La responsabilità del medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nella condizione di esprimere un valido ed effettivo consenso “informato” è comunque ravvisabile anche sia quando le informazioni siano assenti od insufficienti sia quando vengano fornite assicurazioni errate in ordine all’assenza di rischi o complicazioni derivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire, estendendosi l’inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere[36].
Spostando la nostra attenzione ora sulla forma e sul contenuto del consenso informato, il comma 4 dell’art. 1, L. n. 219/2017 prevede che “Il consenso informato […] è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”. Questa può essere considerata una novità da parte del legislatore poiché, fino a questo suo intervento normativo, esclusi alcuni casi[37], la prestazione del consenso del paziente non era generalmente a livello normativo soggetta ad alcuna forma particolare bastando quella verbale, anche se l’art. 35 Codice di Deontologia medica parlava di “informazione scritta”. Certo è che il modulo di consenso compilato e sottoscritto dal paziente e dal medico agevola lapalissianamente la prova della sussistenza del consenso stesso, purché sia fornito in modo dettagliato, completo, chiaro e perfettamente intellegibile[38]; in difetto, laddove fosse comunque sottoscritto ma sintetico, non dettagliato e generico, il modulo del consenso non potrebbe fare ritenere assolto l’onere di informazione[39]. Tutto in senso conforme all’indirizzo ormai pacifico dei Giudici di piazza Cavour, i quali hanno più volte chiarito che l’obbligo di informazione in questione non può ritenersi debitamente assolto mediante la mera sottoscrizione di un generico e non meglio precisato “apposito modulo”, dovendo risultare per converso acclarato con certezza che il paziente sia stato dal medico reso previamente edotto, tra l’altro, delle specifiche modalità dell’intervento, dei relativi rischi, delle possibili complicazioni[40]. Insomma, il giudice deve valutare l’attendibilità della dichiarazione considerando che non è sufficiente la sola firma del paziente ai fini di ritenere prestato il consenso, sussistendo l’obbligo per il medico di spiegare compiutamente e con chiarezza il contenuto dello scritto[41] che deve essere redatto in modo da essere facilmente leggibile e comprensibile dal paziente, meglio ancora utilizzando ove possibile delle illustrazioni.
Il consenso informato non deve essere inteso come un atto puramente formale e burocratico, ma deve essere frutto di un rapporto leale ed onesto tra medico e paziente in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento; generalmente quindi si conclude con la compilazione di un modulo recante la decisione del paziente, ma va rilevato che senza una informazione adeguata, qualsiasi modulo di consenso sottoscritto non è validamente prestato[42].Oltre ad avere quindi la forma scritta, il consenso deve essere caratterizzato dei seguenti requisiti: 1. informato, nel senso che si deve rispettare le caratteristiche della corretta informazione che, a sua volta, deve essere: 1.1 personalizzata, quindi adeguata alla condizione di salute, psicologica, culturale e linguistica del paziente e proporzionata alla tipologia della prestazione proposta; 1.2. comprensibile, cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, attraverso l’uso di notizie e dati specialistici forniti senza sigle o termini scientifici (se indispensabili, accompagnati da spiegazione in lingua corrente), schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi; in casi particolari va fornito anche un interprete o materiale informativo tradotto, ove possibile, in presenza di paziente straniero, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto, sempre con grafia leggibile per tipologia e dimensioni; 1.3. veritiera, ovvero non falsamente illusoria, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste; 1.4. obiettiva, ossia basata su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico-scientifica e indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla Struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l’ente è in grado di offrire permanentemente o in quel momento; 1.5. esaustiva, cioè finalizzata a fornire le notizie inerenti l’atto sanitario proposto nell’ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente, in particolare su: rischi ragionevolmente prevedibili (complicanze), loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti, quindi non sono ricompresi i rischi anomali, cioè quelli che possono essere ascritti solo al caso fortuito[43], insomma, nel caso in cui le complicanze dovessero verificarsi senza colpa alcuna del sanitario, il medico non sarebbe tenuto a risarcirgli alcun danno sotto l’aspetto del difetto di informazione, salva la sua possibile responsabilità per avere, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o male operato; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie; 1.6. non imposta, nel senso che il paziente ha la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni. Di questo deve rimanere evidenza scritta. A breve vedremo come oggi, con la L. n. 219/2017, il terzo eventualmente incaricato a ricevere le informazioni, può avere riconosciuta, se il paziente lo vuole, anche la facoltà di esprimere il consenso in sua vece. 2. Consapevole, quindi, espresso da soggetto che, ricevuta correttamente e completamente l’informazione, sia capace di intendere e di volere. 3. Personale, nel senso che ha titolo ad esprimere il consenso esclusivamente il paziente; l’informazione a terzi (si intendono compresi anche i familiari), è ammessa soltanto con il consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante – per i minorenni e gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda ad uno studio a parte. Questo requisito è da considerare però coi limiti di cui si iniziava a parlare, e che verranno approfonditi a breve, nel punto 1.6. precedente 4. Manifesto, nel senso che il paziente deve acconsentire o dissentire alla esecuzione delle prestazioni proposte, soprattutto per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa in modo inequivocabile e non può mai essere presunta. 5. Specifico, cioè riferito allo specifico atto sanitario proposto. Inoltre, il consenso prestato per un determinato trattamento non può legittimare il medico ad eseguirne uno diverso, per natura od effetti, dal percorso di cura intrapreso, salvo sopraggiunga una situazione di necessità ed urgenza, non preventivamente prospettabile, che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. 6. Preventivo, prestato prima dell’atto proposto. Ad ogni modo, l’intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l’attuazione dell’atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso in prossimità della realizzazione dell’atto. 7. Revocabile, nel senso che il paziente può revocare il consenso in qualsiasi momento, anche nell’immediatezza dell’intervento o cura. A prescindere dalla natura contrattuale o aquiliana del consenso, per essere giuridicamente valido, esso deve inoltre essere libero, ovverossia esente da vizi, coercizioni, inganni, errori e non può essere esercitata alcuna pressione psicologica per influenzare la volontà del paziente. 8. Continuato, nel senso che non può essere prestato una tantum all’inizio della cura, ma va richiesto e riformulato per ogni atto terapeutico o diagnostico che sia idoneo a cagionare autonomi rischi. Ognuna di queste considerazioni sono oggi, alla luce della L. n. 219/2017, ancora più attuali, segnalando solo che, come si anticipava, per quanto riguarda il requisito secondo cui il consenso debba essere personale, resta riconosciuto, ai sensi dell’art. 1, comma 3 della stessa Legge, un diritto a “non conoscere” il proprio stato di salute e precisamente “Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole”. Tuttavia, l’appena detta disposizione suscita qualche perplessità ed in ogni caso, a parere dello scrivente, sembra doversi interpretare nel senso più restrittivo possibile, ovvero che ci si debba riferire esclusivamente al caso del “consenso” e non all’ipotesi di rifiuto della cura. Ciò è ancora più avvalorato nel (seppur remoto) caso in cui la persona indicata a conoscere delle condizioni di salute ed eventualmente ad esprimere il consenso per il paziente, non conosca “così bene” lo stesso malato. Al comma 5 infatti, inoltre, la Legge prevede anche il diritto del paziente (solo di questo) di rifiutare in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Sempre (solo) il paziente ha, ancora, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.La giurisprudenza si era comunque da tempo interessata alla delicata questione del rifiuto del paziente a prestare il proprio consenso ai trattamenti sanitari. Si noti poi che “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. Nel caso in cui il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.
Queste previsioni solo apparentemente sembrano comunque andare in contrasto con la giurisprudenza formatasi sulla questione che sembrava giustificare l’intervento medico anche contro il dissenso di cure manifestato dal paziente. Infatti, anche nel caso di espresso rifiuto di cure da parte del paziente, il medico poteva e può comunque legittimamente intervenire nel momento in cui si verifica un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del malato, quando, pur essendo il paziente incapace di intendere e di volere, possa ritenersi certo o altamente probabile che il dissenso precedentemente manifestato non fosse più valido: si veda la Sentenza n. 4211 del 23 Febbraio 2007 quando la Corte di cassazione fu chiamata ad accertare se il rifiuto al trattamento trasfusionale, esternato da un testimone di Geova al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie. Il giudice del gravame, conformemente a quello di primo grado, ha ritenuto che “la risposta […] è, se non sicuramente negativa, quanto meno fortemente dubitativa” in quanto “è più che ragionevole chiedersi se il S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’attuale pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il proprio dissenso”. Ciò in virtù delle seguenti considerazioni: che anche il dissenso, come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole; che l’originario dissenso era stato espresso dal paziente in un momento in cui le sue condizioni di salute non facevano temere un imminente pericolo di vita, tanto che il paziente era stato trattato con terapie alternative; che lo stesso paziente aveva chiesto (dato importante, questo, che non si riscontra, almeno così dichiaratamente, nel caso Englaro di cui anche parleremo a breve), qualora fosse stato ritenuto indispensabile ricorrere ad una trasfusione, di essere immediatamente trasferito presso un ospedale attrezzato per l’autotrasfusione, così manifestando, implicitamente ma chiaramente, il desiderio di essere curato e non certo di morire pur di evitare l’intervento trasfusionale; che alla luce di questi elementi e di un dissenso espresso prima dello stato d’incoscienza conseguente all’anestesia, era lecito domandarsi se sicuramente il paziente non volesse essere trasfuso, o se invece fosse altamente perplesso e dubitabile, se non certo, che tale volontà fosse riferibile solo al precedente contesto temporale, meno grave, in cui l’uomo non versava ancora in pericolo di vita.
La Suprema Corte confermando la Sentenza impugnata, respinse il ricorso. Di conseguenza, anche considerando la novella legislativa, pare corretto considerare che il dissenso alle cure, perché possa essere valido debba essere inequivoco ed attuale, e che il dissenso precedentemente espresso non impedisce al medico di effettuare cure salvavita quando ricorrono tre condizioni in particolare: ci si trovi di fronte ad un peggioramento del quadro clinico del paziente; il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà (nel caso di cui prima il paziente era sotto anestesia); possa ragionevolmente presumersi che, se fosse stato informato, il paziente non avrebbe confermato il proprio dissenso alle cure. Si badi inoltre che quanto appena detto conferma quanto prima si sosteneva rispetto al fatto che solo il paziente, anche nel caso in cui deleghi altri a conoscere del suo stato di salute ed esprimere il proprio consenso in sua vece, questo “terzo” comunque non possa esprimere il dissenso alle cure, sempre se la volontà in tal senso di quest’ultimo non risulti coincidente con quella del paziente dopo un’approfondita analisi delle sue inclinazioni. Lo stesso orientamento è stato ancora dopo confermato nella famosa decisione presa nel caso di Eluana Englaro[44], la quale giaceva in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranicoencefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non aveva predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento, laddove venne affermato che “Né il tutore né il curatore speciale – hanno statuito i primi giudici – hanno la rappresentanza sostanziale, e quindi processuale, dell’interdetta con riferimento alla domanda dedotta in giudizio, involgendo essa la sfera dei diritti personalissimi, per i quali il nostro ordinamento giuridico non ammette la rappresentanza, se non in ipotesi tassative previste dalla legge, nella specie non ricorrenti” e che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite neanche laddove da esso derivi un sacrificio del bene della vita. Così, dinanzi ad un paziente che rifiuti le cure dopo che questo abbia ricevuto le informazioni e che sia stato anche inutilmente indotto a recedere dal proprio intento, il medico deve astenersi dall’intervenire. I Giudici nel “caso” Englaro premettendo che, anche ove il curatore o il tutore fossero investiti del potere di rappresentanza, la domanda di interruzione della alimentazione forzata “dovrebbe essere rigettata, perché il suo accoglimento contrasterebbe con i principi espressi dall’ordinamento costituzionale. Infatti, ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost., un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando, come nella specie, il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. In base agli artt. 13 e 32 Cost. ogni persona, se pienamente capace di intendere e di volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico o nutrizionale fortemente invasivo, anche se necessario alla sua sopravvivenza, laddove se la persona non è capace di intendere e di volere il conflitto tra il diritto di libertà e di autodeterminazione e il diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest’ultimo, in quanto, non potendo la persona esprimere alcuna volontà, non vi è alcun profilo di autodeterminazione o di libertà da tutelare. L’art. 32 Cost. porta ed escludere che si possa operare una distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute”.
Per maggiore chiarimento ancora la Corte stabilisce che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui. Spiega ancora la Corte però che nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Gli Ermellini cassavano la Sentenza impugnata con rinvio stabilendo il seguente principio di diritto:”Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.Sempre nella Sentenza n. 21748 del 2007 si chiariva che il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. Il chiarimento è attuale ed apprezzabile quando alcuni sembrano spingersi nell’interpretare la disposizione nella quale si prevede che la nutrizione e l’idratazione artificiale devono considerarsi trattamenti sanitari nel senso che si vuole autorizzare una eutanasia passiva. A dire il vero, ed a voler essere più precisi, costoro non hanno tutti i torti, potendosi sicuramente escludere che il legislatore abbia invece concretamente introdotto l’eutanasia “attiva” o il suicidio assistito, dal momento che il paziente “non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali” ma non quella “passiva”, che si concretizza quando è provocata l’interruzione o l’omissione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo (come appunto nutrizione artificiale e idratazione artificiale). Fa discutere anche il caso Charlie, bimbo inglese affetto da sindrome da deplezione del DNA mitocondriale (impedisce di alimentare gli organi interni come fegato e cervello che deperiscono inesorabilmente – malattia genetica che colpisce solo 16 persone al mondo). I Giudici della Suprema Corte inglese hanno autorizzato i medici a “staccare la spina” “per tutelare l’interesse del piccolo”. In tale caso il bambino non può prendere decisioni e i genitori in un primo momento si erano opposti a tale scelta che, tuttavia, la stessa CEDU ha ritenuto legittima e corretta legittimando, di fatto l’eutanasia.Ad ogni buon fine è anche previsto che “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”. In questa previsione, contenuta al primo periodo dell’art. 1, comma 6, L. 219/2017, l’”esonero” sembra essere utilizzato in modo improprio in quanto se di questo deve parlarsi, allora si presuppone anche la commissione di un fatto illecito civile o penale, rispetto al quale il medico è scriminato dalla sussistenza del consenso. In realtà, a fronte di un rifiuto valido ed efficace – essendo questo un pieno diritto del paziente – l’attività del medico dovrebbe semplicemente ritenersi non illecita e, così: a) non si configura un fatto illecito; b) non sussiste una fattispecie incriminatrice penale.In questo contesto sono giustificati i dubbi di alcuni medici (per ragioni religiose ed etiche) circa la liceità dell’esercizio da parte loro del diritto di obiezione di coscienza, che non è previsto dalla Legge n. 219/2017 e di cui, pertanto, non sembra potersi sostenere la validità.
Tuttavia pare prevedibile un intervento della Corte costituzionale, magari di tipo additivo, in ragione del contrasto tra la (mancata) statuizione in merito e gli artt. 2, 13 e 19 Cost.: dall’art. 19 in particolare, che tutela il diritto di professare liberamente la propria religione, ne conseguirebbe il dovere di assistere il malato non privandolo dell’alimentazione e/o idratazione. Si noti comunque come l’art. 23 Cost. preveda “nessuna prestazione personale […] può essere imposta se non per legge” e, nel nostro caso, la Legge 219/2017 prevede che “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”.Per quanto riguarda il consenso informato, infine, è bene chiarire che le stesse strutture sanitarie non sono esenti da doveri. La stessa Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha previsto l’obbligo, ancorandolo alla previsione di cui all’art. 8 della Convenzione, per tutti gli Stati membri di imporre, alle aziende ospedaliere pubbliche o private, la predisposizione di mezzi adeguati per assicurare che sia effettivamente acquisito il consenso del paziente al trattamento medico, corredato di una esaustiva informazione sui rischi prevedibili connessi a tale trattamento[45]. Su questo indirizzo, il comma 9 ed il comma 10 dell’art. 1, L. 219/2017, prevedono rispettivamente che “Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale” e che “La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative”. Anche prima dell’intervento normativo, comunque, per la giurisprudenza di merito la relazione informativa tra medico e paziente, costituisce parte integrante del contratto di assistenza sanitaria intercorrente tra il paziente e la struttura sanitaria, non potendo lo stesso più essere chiuso in un obbligo di natura precontrattuale attinente al piano dell’art. 1337 c.c., né ridursi a quello meramente accessorio e strumentale rispetto alle prestazioni di diagnosi, di cura o di esecuzione dell’eventuale intervento chirurgico[46].
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[1] “Tieni all’oscuro il paziente circa ogni evento futuro”, Corpus ippocraticum, V Sec. A.C.
[2] M. Liguori, La responsabilità medica. Dalla teoria alla pratica processuale, 2011, p. 129.
[3] V. Mallardi, Le origini del consenso informato. in ACTA Otorhinolaryngologica Italica, 2005, vol. 25, p. 312.
[4] Court of Appeals of New York, 14 April 1914, Schloendorff v. The Society of New York Hospitals (105 N.E. 92), Opinion of Justice Benjamin Cardozo, reperibile al sito https://biotech.law.lsu.edu/cases/consent/Schoendorff.htm:“Every human being of adult years and sound mind has a right to determine what shall be done with his own body; and a surgeon who performs an operation without his patient’s consent, commits an assault, for which he is liable in damages”.
[5] Così V. Mallardi, Le origini del consenso informato, 322.; M. Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, in L. Lenti – E. Palermo Fabris – P. Zatti (cur.), I diritti in medicina, Trattato di Boetica, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, 2011, p. 205.
[6] È stato redatto nel 1947 in seguito alla sentenza che il Tribunale Internazionale ha emesso in quella città a Norimberga al termine del processo contro i medici nazisti che avevano eseguito criminali esperimenti nei campi di sterminio su prigionieri di guerra ed anche bambini. La sua importanza risiede appunto nel fatto che, per la prima volta, viene introdotto il concetto del consenso informato di un soggetto a partecipare ad uno studio clinico dopo avere ricevuto informazioni circostanziate sugli scopi, le modalità di esecuzione dello stesso e sui possibili rischi inerenti alla partecipazione.
[7] Cass. Pen., Sez. IV, Sent. del 11 Luglio 2001, n. 35822.
[8] Vedi Atto n. 1-00854, Pubblicato il 17 ottobre 2017, nella seduta n. 899, del Senato dove è riportato che la legge n. 145 del 2001, che avrebbe dovuto regolare i rapporti tra il diritto interno e il diritto internazionale, in realtà ha, da una parte, autorizzato il Presidente della Repubblica alla ratifica e, dall’altra, ha dato piena e completa esecuzione alla Convenzione e al protocollo attraverso la previsione di una clausola di adattamento del diritto interno alle previsioni della Convenzione e del protocollo medesimi a mezzo di una delega non ancora esercitata;
l’iter di ratifica non è stato ancora perfezionato con il deposito del dispositivo presso il Consiglio d’Europa;
il mancato deposito del dispositivo presso il Consiglio d’Europa e il mancato esercizio della delega, pertanto, hanno determinato, nel nostro Paese, una sorta di “sospensione” dell’efficacia della Convenzione di Oviedo determinata, in particolare, da una ratifica, prevista ma non ancora perfezionata;
[9] parr. 34, 40, 48, 101 e 136.
[10] S. Negri, Consenso informato, diritti umani e biodiritto internazionale.
[11] Cfr. anche il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, 20 giugno 1992, p. 9, reperibile al link http://bioetica.governo.it/media/170635/p10_1992_informazione-e-consenso_it.pdf.
[12] Cass.Civ., Sez. I, 16 Ottobre 2007, n. 21748.
[13] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 23 Maggio 2001, n. 7027.
[14] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 20 Maggio 2016 n. 10414.
[15] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 13 Febbraio 2015, n. 2854 e Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 16 Maggio 2013, n. 11950, che ha ritenuto preclusa ex art. 345 c.p.c. la proposizione nel giudizio di appello, per la prima volta, della domanda risarcitoria diretta a far valere la colpa professionale del medico nell’esecuzione di un intervento, in quanto costituente domanda nuova rispetto a quella – proposta in primo grado –basata sulla mancata prestazione del consenso informato, differente essendo il rispettivo fondamento.
[16] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 12 Giugno 2015, n. 12205.
[17] Cass.Civ., Sez. III, Sent. del 28 Luglio 2011, n. 16543.
[18] Nella stessa Sentenza la Suprema Corte afferma che dalla sentenza impugnata poteva ricavarsi il seguente (errato) principio: “quando il medico, senza previa acquisizione del consenso informato e, naturalmente in situazione in cui tale acquisizione sarebbe stato possibile, esegue correttamente sul paziente un intervento chirurgico, che ex ante appaia necessitato sul piano terapeutico ed ex post si riveli anche risolutivo della patologia che il paziente presentava, la lesione alla libertà di determinazione del paziente cagionata dalla mancata acquisizione del consenso, si dovrebbe considerare inidonea a determinare un danno risarcibile. Poichè i danni risarcibili, nel caso di illecito contrattuale ed extracontrattuale sono individuati dall’art. 1223 c.c., (richiamato dal’art. 2056 c.c.) questa affermazione sottende il convincimento che in una simile evenienza la violazione del diritto al consenso informato non cagionerebbe nè quello che la norma definisce “perdita”, nè quello che la norma definisce “lucro cessante”. E ciò perchè detta lesione sarebbe giustificata dal vantaggio conseguito dal paziente con l’eliminazione della patologia”.
[19] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 14 Marzo 2006, n. 5444.
[20] Si segnala M. Gazzara, Responsabilità per omessa o insufficiente informazione pre-operatoria, in Danno e resp., 2016, 4, p. 394.
[21] In merito si legga la nota Sentenza Franzese, Cass. Pen., SS.UU. del 11 Settembre 2002, n. 30328, dove è riportato che “E’ dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza. di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva che si pone come condizione ‘necessaria’ – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al ‘giudizio controfattuale’, articolato sul condizionale congiuntivo ‘se … allora …’ (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale ‘doppia formula’, nel senso che: a) la condotta umana `è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana ‘non è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato. Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N, 6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, ‘già da prima’, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento”.
[22] Sull’impiego dell’argumentum a fortiori e del giudizio contro fattuale, D. Farace, Due revirements della Cassazione sul consenso ai trattamenti sanitari?, in Danno e resp., Wolters Kluwer Italia, 2016, 4, p. 379.
[23] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 5 Luglio 2017, n. 16503.
[24] Già nella prima troviamo infatti che “E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”.
[25] Cass. Civ., Sez. III, 31 Maggio 2003, n. 8827 e Cass. Civ., Sez. III, 31 Maggio 2003, n. 8828;
Cass. Civ., Sez. III, 24 Ottobre 2003, n. 16004.
[26] Il Tribunale di Milano, Sez. I, con Sentenza del 24 Luglio 2017, n. 8243, ha stabilito la natura della responsabilità nel caso che si occupava di carattere contrattuale sulla base dei fatti che l’attrice risultava avere contattato il sanitario direttamente stipulando con questi un vero e proprio contratto d’opera professionale; la struttura sanitaria ove è stato eseguito l’intervento risultava essere stata individuata dal chirurgo e quest’ultimo ha prestato ivi la propria opera professionale in favore della attrice per precisi e precedenti accordi contrattuali e non in regime di servizio sanitario nazionale. Appariva quindi del tutto fuorviante la dissertazione effettuata dalla parte convenuta in ordine alla natura extracontrattuale della responsabilità sanitaria a seguito del decreto Balduzzi (e della recente riforma della responsabilità delle professioni sanitarie).
[27] Cass. Civ., Sez. III, Sentenza del 19 Maggio 2011, n. 11005
[28] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 20 Gennaio 2015, n. 826.
[29] Fonte http://www.jdm.it/interventi/chirurgia_estetica.html
[30] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 6 Giugno 2014, n. 12830.
[31] M. Rodolfi, Consenso informato e DAT: tutte le novità, in Il civilista, p. 24.
[32] Secondo cui l’onere della prova debba essere ripartito tenendo conto in concreto della possibilità per ognuna delle parti in giudizio di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione, per cui è ragionevole gravare dell’onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare (ad esempio, nei rapporti bancari, la banca).
[33] Si veda il primo motivo di ricorso deciso con Sentenza da parte della Cass. Civ., Sez. III, del 29 settembre 2015, n. 19212.
[34] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 30 Settembre 2014, n. 20547.
[35] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 20 Agosto 2013, n. 19220.
[36] Cass. Civ., Sez. III, Sentenza del 28 Novembre 2007, n. 24742.
[37] Le Leggi dello Stato che rendono necessaria la forma scritta sono le seguenti: DPR 16/06/1977 n. 409 in materia di trapianti di organi; Legge 05/06/1990 n. 135 in materia di AIDS; Decreto Ministeriale 15/01/1991 in materia di terapia con plasma derivati ed emoderivati; Decreto Ministeriale 27/04/1992 in materia di sperimentazione scientifica; Legge 12/08/1993 n. 201 in materia di prelievo ed innesto di cornea; Legge 08/04/1998 n. 94 in materia di uso di medicinali al di fuori delle indicazioni autorizzate; Legge 19/02/2004 n. 40 in materia di procreazione assistita.
Dal canto suo, il Codice di Deontologia Medica obbliga alla raccolta del consenso informato in forma scritta per le seguenti situazioni particolari: Prescrizione di farmaci per indicazioni non previste dalla scheda tecnica o non ancora autorizzati al commercio, purché la loro efficacia e tollerabilità sia scientificamente documentata (in pratica ricalca l’obbligo già previsto dalla Legge 94/1998); Prescrizione di terapie mediche non convenzionali, che possono essere attuate senza sottrarre il paziente a trattamenti scientificamente consolidati e previa acquisizione del consenso informato scritto quando si tratti di pratiche invasive o con più elevato margine di rischio, oppure quando il paziente ponga pregiudizialmente scelte ideologiche; Prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche che, a causa delle possibili conseguenze sull’integrità fisica della persona o per il grave rischio che possono comportare per l’incolumità della persona, rendano opportuna una manifestazione documentata della volontà del paziente. Nella pratica si tratta delle ipotesi di: Interventi chirurgici; Procedure ad alta invasività; Utilizzo di mezzi di contrasto; Trattamenti con radiazioni ionizzanti; Trattamenti che incidono sulla capacità di procreare; Terapie con elevata incidenza di reazioni avverse; Trattamenti psichiatrici di maggior impegno.
Al di fuori di queste ipotesi, il consenso può essere raccolto in forma orale, fermo restando che se il medico ritiene, in scienza e coscienza e motivatamente, di formalizzare tale consenso con un atto scritto, gli è comunque consentito farlo.
[38] Tribunale di Milano, Sent. del 23 Febbraio 2005, n. 2331.
[39] Tribunale di Milano, Sent. del 29 Marzo 2005, n. 3520 e del 8 Novembre 2006, n. 12224.
[40] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 21 Aprile 2016, n. 8035; Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 08 Ottobre 2008, n. 24791.
[41] P. Pardolesi, C. Baldassarre, Lo statuto sostanziale e processuale del consenso informato, in Corr. giur., 2016, 10, p. 1248.
[42] Cass. pen., Sez. IV, Sent. del 14 Marzo 2008, n. 11335; Cass., n. 21748/2007.
[43] Cass. Civ., Sez. III, Sent. del 29 Settembre 2009, n. 20806.
[44] Cass. Civ., Sez. I, Sentenza del 16 Ottobre 2007, n. 21748.
[45] Corte E.D.U., Sez. III, Sent. 15 Gennaio 2013, Csoma c. Romania.
[46] Tribunale di Venezia, Sez. III Civile, Sent. del 4 Ottobre 2004.
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