CONSOB o AGCM ? Un breve commento al parere del Consiglio di Stato n. 3999/2008

Il citato parere del Consiglio di Stato di fine 2008, formulato su espressa sollecitazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) in ordine alla ‘applicabilità del Titolo III del Codice del Consumo (d. lgs. n.206/2005) e sulle competenze dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel settore dei servizi finanziari’, ha in realtà, a nostro modesto avviso, chiarito solo parzialmente la complessità della questione proposta.
Ricordiamo brevemente che nel caso di specie l’Autorità a Garanzia della Concorrenza e del Mercato ha richiesto il parere del Consiglio di Stato per un possibile conflitto di competenza in ordine alla disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa nel settore finanziario, ovvero in ordine alla applicabilità, in tale settore, della Parte II, Titolo III del Codice del Consumo (‘Pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni commerciali’). In particolar modo, le perplessità dell’AGCM ineriscono la sussistenza, per il settore finanziario, a sèguito della riforma del 2007 dell’art.27 del Codice, di un possibile conflitto tra la AGCM, quale Autorità generalmente competente per la concorrenza ed il mercato, e la CONSOB, quale Autorità competente per tale settore ai sensi del Testo Unico Finanziario (d. lgs. 58/1998, c.d. T.U.F.) e successive modifiche e regolamenti attuativi.
Stante pertanto la disciplina generale in tema di pratiche commerciali scorrette prevista dal Codice del Consumo e la disciplina di settore che regolamenta l’emissione e la circolazione dei prodotti finanziari, l’AGCM si interroga
a)      se “sussista la competenza dell’AGCM ad intervenire al fine di accertare la scorrettezza delle condotte degli operatori del settore [dei servizi finanziari] e di irrogare le relative sanzioni” ed, eventualmente,
b)      entro quali limiti”.
Per comprendere il merito della decisione del Consiglio di Stato, si considerino tali elementi di diritto:
          La Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, il cui recepimento ha modificato il Libro III della Parte II del Codice del Consumo, non esclude il settore finanziario, ma al contrario prende espressamente in considerazione le peculiarità dei relativi servizi, il cui ‘mercato’, rispetto ad altri, esige ancora maggiore tutela e trasparenza;
          Nonostante poi la Direttiva, contrariamente ad altre, miri non già ad una previsione di tutela minima, bensì ad un regime di vera e propria uniformazione (c.d. di piena armonizzazione), quindi neanche migliorabile da parte delle discipline nazionali, esclusivamente per il settore dei servizi finanziari il testo comunitario (considerando n.9) “non pregiudica il diritto degli Stati membri di andare al di là delle sue disposizioni al fine di tutelare gli interessi economici dei consumatori”;
          Inoltre, anche il ‘considerando n.15’ e l’art.3, par.9 della Direttiva prevedono, per tale settore, la facoltà da parte degli Stati membri di “mantenere o introdurre disposizioni maggiormente restrittive”, ovvero “obblighi più dettagliati o vincolanti di quelli previsti” dal testo comunitario.
          Infine, l’art.3, par.4 della Direttiva specifica ad ogni modo che “in caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano tali aspetti specifici”.
Sulla base di tali premesse, il Consiglio di Stato, rilevata la generale necessità di non duplicare né soggetti, né tantomeno possibili giudizi tra loro contrastanti (ne bis in idem), ravvede la necessità di individuare un’unica Autorità competente nella materia sottoposta al suo parere.
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Premesso che il Consiglio di Stato si era già espresso (cfr. C.d.S., sez. VI, sentenza del 05.10.2002, n. 5640) per la competenza dell’AGCM in questioni inerenti sia aziende ed istituti bancari che altri soggetti, ovvero se i fatti contestati hanno prodotto effetti anche su mercati diversi da quello bancario, nel caso in esame sottolinea come ci si trovi in un “duplice apparato normativo” ma per la “cura di un interesse che è il medesimo”. Da un lato, infatti, vi sarebbe una precedente normativa, “di ordine speciale”, quella del T.U.F. del 1998, dall’altro troviamo la “normativa di ordine generale”, ovvero gli artt. 18 – 27 del Codice del Consumo, così come novellati nel 2007 (D. Lgs. n.146/07) per il recepimento della Direttiva CE n. 2005/29. Conseguentemente, dato che “qui pare trattarsi di realizzare il medesimo interesse generale – seppure da perseguire non con i medesimi strumenti” e che “il confronto a questo proposito è tra due ordinamenti di settore, non tra due strumentazioni operative”, la questione, nel caso esaminato, non è quella delle eventuale “sovrapponibilità […] delle diverse strumentazioni”, bensì quella dell’“identificazione […] di quale dei due ordinamenti si debba qui invocare”.
Dopo aver correttamente evidenziato come la scelta del criterio di specialità in questioni inerenti la competenza tra autorità amministrative sia un criterio comunque “suppletivo” che non opera in caso di limiti “estrinseci” (ovvero quando il conflitto viene espressamente risolto da una norma di legge) o limiti “intrinseci” (quando vi sono casi di ‘specialità reciproca’, di sussidiarietà o di ‘reciproco assorbimento’), il Consiglio di Stato specifica che, nel caso di specie, “è la caratteristica distinta del settore finanziario a identificare […] le ragioni della specialità” e che è il soggetto ‘investitore’, ovvero il ‘risparmiatore’ (inteso come investitore non professionale) ad essere “una specie del genere consumatore, in quanto destinatario finale di un prodotto standardizzato seppur finanziario”, ovvero un “consumatore di servizi finanziari”. Se l’AGCM, allora, è l’Autorità posta a tutela della concorrenza nel mercato in generale ed il suo beneficiario naturale è il ‘consumatore’, la CONSOB è l’Autorità prevista dal T.U.F. a tutela degli “investitori e della efficienza, trasparenza e sviluppo del mercato mobiliare” e pertanto trova i suoi beneficiari naturali nei ‘risparmiatori’ e negli ‘investitori’, species del genusconsumatori’.
Da qui la conclusione che, relativamente al settore dei servizi finanziari, “la disciplina generale sulle pratiche commerciali scorrette, per la quale è competente l’AGCM, non si applica se ed in quanto operano disposizioni sugli obblighi informativi e di correttezza nella commercializzazione dei servizi finanziari, la cui applicazione è riservata alla CONSOB”.
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Nonostante il ragionamento del Consiglio di Stato sia ben motivato e porti ad un risultato in larga parte condivisibile, tuttavia, a parere dello scrivente, la risoluzione inerente la caratteristica della ‘specialità’ dell’Autorità individuata come unica competente (la CONSOB) si presta in realtà ad alcune limitazioni, apparendo in alcuni casi, sui medesimi presupposti di diritto considerati dal Consiglio, una soluzione non sempre corrispondente alla disciplina giuridica vigente, nazionale e comunitaria.
Il primo aspetto da sottolineare è la fonte comunitaria, unica per tutte le tipologie di mercato (e quindi anche per quello finanziario) che, prevedendo la “complessità” ed i “gravi rischi inerenti” i servizi finanziari, prevede l’adozione di “obblighi particolareggiati” per tale settore, non pregiudicando (e di fatto esortando) il diritto degli Stati membri ad “andare al di là” delle disposizioni della Direttiva 2005/29/CE (considerando n.9).
Da qui, un primo ordine di riflessioni:
a)      La Direttiva 2005/29/CE si impone come una tutela minima ma inderogabile anche per il settore finanziario, che può essere rafforzata, ma non certo disattesa, dai singoli Stati membri;
b)     Il settore dei servizi finanziari deve quanto meno garantire le medesime tutele di ogni altro ‘mercato’ e pertanto essere sottoposto, pur con le sue proprie caratteristiche, ai medesimi ‘principi generali.
Inoltre, la Direttiva europea esplicita che anche in merito ai “servizi finanziari definiti alla direttiva 2002/65/CE […] gli Stati membri possono imporre obblighi più dettagliati o vincolanti di quelli previsti dalla presente direttiva” (Art. 3, par. 9), rendendo pertanto le tutele minime previste, applicabili anche alle fattispecie regolamentate dal testo normativo europeo relativo alla commercializzazione di servizi finanziari ‘a distanza’.
Ma è il nostro diritto interno, all’art. 19, co. III, del (novellato) Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005) che, prevedendo come “in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”, individua il vero fulcro del problema sottoposto.
Perché in realtà, l’assunto della presunta ‘specialità’ della disciplina prevista dal T.U.F. (e successive modificazioni) risulta tutt’altro che verificata, e ciò proprio partendo dai medesimi presupposti considerati dal Consiglio di Stato in ordine a possibili “limiti estrinseci” o “intrinseci” delle normative considerate.
Proprio a partire da un approfondimento di tali limiti, infatti, potremmo verificare come ben difficilmente la Direttiva 2005/29/CE possa ritenersi superata da una disciplina (di origine europea, l’unica che la Direttiva stessa considera) più specifica e più analitica, quantomeno nel settore che ci interessa, ovvero quello finanziario. E a suggerire tali perplessità è, ancora una volta, lo stesso Consiglio di Stato che nelle motivazioni del suo parere, trattando dei ‘limiti intrinseci’, ricorda opportunamente l’“ambito particolare” della questione proposta e la necessità di “una più attenta considerazione, da sviluppare di volta in volta, qualora […] il settore che può apparire speciale si limiti a regolare soltanto alcuni specifici aspetti dell’attività circa la quale vi è bisogno di intervento”. Pur concludendo, tuttavia, che tale considerazione debba venir fatta “altrove” e quindi per altri settori diversi da quello esaminato, a nostro modesto avviso il sapiente suggerimento del Consiglio è al contrario calzante soprattutto per il settore finanziario.
Se infatti si avesse cura di considerare tanto il succedersi temporale dei differenti interventi normativi europei, che l’analisi del loro contenuto, si potrebbe legittimamente concludere che:
a)      la Direttiva CE 2005/29 si pone come normativa d’insieme, dal carattere generale per tutti i settori del mercato, di cui ne detta i principi inderogabili (neanche in melius…);
b)      Relativamente al settore finanziario, non solo è pacifico che la Direttiva trovi applicazione (considerando n. 9 ed Art.3, Par.9), ma è altrettanto pacifico che tale disciplina europea detti principi minimi rispetto ai quali gli Stati possono (dovrebbero?) prevedere norme più stringenti a tutela dei risparmiatori / consumatori.
c)      La Direttiva, inoltre, non solo è testo più recente rispetto ad altri interventi comunitari specifici per il settore finanziario (basti pensare alla c.d. MiFID, Direttiva 2004/39/CE), ma interviene anche su elementi che non sono perfettamente sovrapponibili a quelli affrontati in precedenza in tale settore. Basti pensare, a riguardo, alla mancata previsione, per il settore bancario e finanziario, delle tipizzazioni legali delle ‘pratiche commerciali aggressive’ di cui agli artt. 25 e 26 Codice del Consumo, ovvero, con le dovute specificità, delle ‘pratiche commerciali ingannevoli’ assolutamente non previste in tale settore.
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Da tali considerazioni, è allora possibile concludere quanto segue:
1)      Sembra sussistano ‘limiti’ (‘intrinseci’ o ‘estrinseci’) per l’individuazione di una perfetta ‘specialità’ delle previsioni di cui al T.U.F. italiano, nonché della Direttiva europea ‘MiFID’ (e relativa traduzione italiana), con le generali previsioni di cui alla Direttiva 2005/29/CE (e conseguenti modifiche al vigente Codice del Consumo);
2)      Da tale non perfetta (o non completa) specialità, ne deriva che ad oggi sussistono, all’interno dell’ordinamento italiano, alcuni aspetti del settore finanziario che godono di una disciplina specifica, mentre altri suoi aspetti devono essere ancora sottoposti (quantomeno in via interpretativa) alla disciplina generale posta a tutela della Concorrenza e del Mercato;
3)      A seconda pertanto della natura della verifica e della tipologia di attività sottoposta a vigilanza, in parziale difformità rispetto a quanto concluso dal Consiglio di Stato nel suo parere, può concludersi che le Autorità competenti possano essere tanto la CONSOB, per quegli aspetti normativi espressamente previsti per il settore finanziario (e come tali effettivamente ‘speciali’), che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per quegli aspetti che rientrano nelle previsioni comuni poste a tutela di qualsiasi settore economico, ivi compreso quello finanziario, che non trovano espresso riscontro nella normativa specifica di settore;
4)      In più, proprio per le ragioni ‘sistematiche’ invocate nel parere del Consiglio di Stato, sarebbe oltremodo legittimo concludere che all’AGCM potrà riconoscersi anche la competenza a valutare le questioni inerenti la compatibilità (e la tutela minima prevista dalla Direttiva 2005/29/CE) tra le previsioni generali del Codice del Consumo e quanto previsto dalla disciplina ‘speciale’ del settore del mercato mobiliare e finanziario.
 
Avv. Antonio M. Polito,
Studio Legale Fiorentino –  Mincato, Torino.

Polito Antonio M.

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