Il fatto
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Salerno aveva emesso nei confronti dell’imputato un decreto penale di condanna «in data 12/13.2.2014» per il «reato p. e p. dall’art. 186 comma 2 lettera b) e comma 2-sexies del Codice della Strada, perché guidava alle ore 03.30 circa del giorno 01.05.2013 l’autovettura […] in stato di ebbrezza alcolica», e contro tale decreto, il 18 marzo 2014, era stata proposta opposizione con la richiesta dell’applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., nella misura di quattordici giorni di arresto e 600,00 euro di ammenda, da sostituirsi con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).
(Sempre) il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Salerno aveva rigettato la richiesta di applicazione della pena perché dall’esame degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero era emerso che l’imputato aveva provocato un incidente stradale con feriti, con la conseguente configurabilità dell’aggravante dell’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992, ostativa all’applicazione della sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.
Nell’udienza camerale del 20 novembre 2014, fissata «per la delibazione dell’istanza di patteggiamento», il difensore dell’imputato, munito di procura speciale, aveva presentato una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, ma il Giudice per le indagini preliminari, dopo la pronuncia di rigetto della richiesta di patteggiamento, aveva rimesso ogni ulteriore determinazione sulla nuova richiesta al «primo giudice (quello che aveva emesso il decreto penale)», il quale, a sua volta, aveva dichiarato «non luogo a provvedere» e rimesso la decisione al giudice del dibattimento, emettendo il decreto di giudizio immediato.
Nell’udienza dibattimentale del 28 ottobre 2015, dopo la costituzione delle parti, il difensore dell’imputato, assente ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen., aveva nuovamente chiesto la sospensione del procedimento con messa alla prova e il giudice a quo, preso atto del parere favorevole del pubblico ministero, si era riservato di decidere, disponendo, nell’udienza del 19 novembre 2015, l’acquisizione di ulteriore documentazione per «completare il quadro informativo necessario alla delibazione della questione».
Nell’udienza del 25 novembre 2015, il pubblico ministero aveva contestato all’imputato assente l’aggravante prevista dall’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992 e il difensore aveva reiterato la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.
In un’udienza successiva, fissata per la decisione su tale richiesta, il Tribunale sollevava le questioni di legittimità costituzionale «nella parte in cui non prevede che, contestata nel corso del giudizio dibattimentale una circostanza aggravante fondata su elementi già risultanti dagli atti di indagine, l’imputato abbia facoltà di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova [ai] sensi degli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e ss. c.p.p. relativamente al reato oggetto della nuova contestazione».
Le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Il giudice rimettente evidenziava prima di tutto che, a norma dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., nel procedimento per decreto la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova deve essere presentata con l’atto di opposizione e che nella specie ciò non era avvenuto perché l’opposizione era stata anteriore all’emanazione della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), che aveva introdotto il nuovo istituto.
Si evidenziava altresì che poi nel dibattimento, tardivamente, era stata contestata all’imputato, a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., la circostanza aggravante prevista dall’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992, e la nuova contestazione avrebbe dovuto consentire all’imputato di chiedere la messa alla prova, così come gli consentiva di chiedere il patteggiamento e il giudizio abbreviato.
Ad avviso del Tribunale rimettente, inoltre, l’art. 517 cod. proc. pen., prevedendo «la contestazione della circostanza aggravante c.d. tardiva», senza dare all’imputato la possibilità di chiedere la messa alla prova, contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 Cost., e le relative questioni di legittimità costituzionale sarebbero rilevanti, dato che non sussisterebbero ragioni per negare la messa alla prova e ciò anche perché la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, avrebbe rilevato che il nuovo istituto ha effetti sostanziali ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio e destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo.
Si rilevava oltre a ciò che, in considerazione dei suoi effetti premiali, la possibilità di accedere a tale procedimento costituirebbe un’estrinsecazione del diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost. ricordandosi a questo proposito che, con la sentenza n. 184 del 2014, la Corte costituzionale aveva già riconosciuto all’imputato il diritto di chiedere il procedimento speciale previsto dagli artt. 444 e seguenti cod. proc. pen. nel caso in cui il pubblico ministero operasse una modificazione dell’imputazione contestando una circostanza aggravante già risultante dagli atti di indagine, e aveva ritenuto che l’opzione per un rito di carattere premiale costituisce una declinazione del diritto di difesa.
Dopo aver richiamato altre pronunce di questa Corte relative agli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., il giudice a quo osservava come con esse la Corte avesse rilevato «il pregiudizio del diritto di difesa, connesso all’impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell’imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari», e avesse stigmatizzato la violazione del principio di eguaglianza «correlata alla discriminazione cui l’imputato si trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell’apprezzamento».
Si faceva oltre tutto presente che nel caso in esame la situazione processuale sarebbe assimilabile a quelle esaminate dalla Corte con le pronunce richiamate, e non sarebbe possibile, a fronte del disposto dell’art. 517 cod. proc. pen. e dell’art. 464-bis cod. proc. pen., procedere ad interpretazioni volte ad adeguare le chiare previsioni normative ai principi costituzionali.
Le argomentazioni sostenute dalle parti
Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e chiedeva che le questioni fossero dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
L’Avvocatura dello Stato faceva presente che la richiesta di sospensione del procedimento avrebbe dovuto essere contenuta nell’atto di opposizione, ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen., ma che in quel momento non era possibile presentarla perché la legge che ha dato vita al nuovo istituto non era ancora stata emanata.
D’altro canto, sempre secondo quanto evidenziato da questa Avvocatura, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, aveva ritenuto come, in mancanza di una disciplina transitoria, rimanesse preclusa la messa alla prova nei procedimenti in cui al momento dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 era già stata superata la fase processuale nella quale la richiesta sarebbe stata proponibile e da ciò ne discenderebbe che la reiterazione della richiesta «al momento dell’apertura del dibattimento non avrebbe potuto avere corso» e dunque che le questioni non sarebbero rilevanti, non potendo la decisione della Corte incidere sul giudizio a quo, oltre al fatto che non inciderebbe sulla rilevanza delle questioni il fatto che l’imputazione era stata modificata.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, per di più, «la contravvenzione oggetto del procedimento, sia nella forma originariamente contestata, che in quella derivante dalla modifica, avrebbe in ipotesi consentito l’accesso al rito speciale, se non già precluso dalla scansione temporale evidenziata nell’ordinanza di rimessione», e quindi non ci si troverebbe in presenza di una situazione come quelle oggetto delle decisioni di questa Corte richiamate dal Tribunale rimettente, in cui, per l’errore del pubblico ministero che non aveva a suo tempo effettuato una contestazione conforme agli elementi già acquisiti, l’imputato aveva subito un pregiudizio, non avendo chiesto, come avrebbe potuto fare, il procedimento speciale posto che, nel caso in questione l’imputato al momento dell’opposizione non avrebbe potuto chiedere la messa alla prova, e di conseguenza anche in seguito la richiesta gli era preclusa, sicché la mancata contestazione dell’aggravante non gli aveva arrecato alcun pregiudizio.
In conclusione, secondo l’Avvocatura dello Stato, «[n]ella fattispecie si può adeguatamente sostenere che la modificazione tardiva dell’imputazione, mediante contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 186 comma 2-bis del codice della strada, già emergente in fase di indagine, è inidonea a determinare una variazione sostanziale ai fini della rivalutazione difensiva per l’accesso al rito alternativo. E ciò perché si tratta di variazione non incidente sulle condizioni di ammissibilità stabilite dai commi 1 e 5 dell’art. 168-bis c.p., senza dunque che sia prospettabile alcuna violazione dei diritti difensivi, in un contesto in cui l’accesso al rito alternativo è precluso in mancanza di disciplina transitoria della legge n. 67/2014».
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
Il giudice delle leggi – dopo aver ritenuta infondata l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato (ossia quella secondo la quale sarebbero state inammissibili le questioni prospettate per difetto di rilevanza) in quanto non consentire all’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, dopo che il pubblico ministero gli ha contestato una nuova circostanza aggravante, darebbe luogo a una lesione del diritto di difesa e a una violazione dell’art. 3 Cost., ed è per questa ragione che veniva chiesto una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. volta a consentire all’imputato di presentare tale richiesta al giudice del dibattimento, indipendentemente dalle ragioni per le quali non era stata presentata in precedenza – osservava prima di tutto che l’“istituto della messa alla prova, introdotto con gli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater del codice penale, «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova» (sentenza n. 240 del 2015)”.
Posto ciò, una volta evidenziato che l’“art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta di messa alla prova” e che detti termini sono diversi sicché “articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti, e la loro disciplina è «collegat[a] alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo» (sentenza n. 240 del 2015)”, si esaminava che, come “negli altri riti, anche nel procedimento per decreto la mancata presentazione della richiesta nel termine stabilito dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., e cioè con l’atto di opposizione, determina una decadenza, sicché, nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato che prima non l’abbia chiesta non può più chiedere la messa alla prova (sentenza n. 201 del 2016)”.
Fatto presente questo aspetto procedurale, si metteva in risalto come, nel caso di specie, “l’imputato, al momento dell’emanazione della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), priva di normativa transitoria, non era più in termini per richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, ma la contestazione, da parte del pubblico ministero, dell’aggravante di cui all’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992” induceva “il giudice a ritenere che, in presenza della nuova situazione accusatoria, impedire all’imputato di chiedere la messa alla prova costituisca una lesione delle sue facoltà difensive e sia in contrasto con l’art. 3 Cost.” e, più in particolare, a dolersi della “mancata previsione della facoltà di accesso al nuovo rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla prova, in presenza di una contestazione suppletiva cosiddetta “tardiva” o “patologica” di una circostanza aggravante, cioè di una contestazione basata non sulle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale, ma su elementi che già emergevano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale”.
Una volta chiarita la questione devoluta al suo scrutinio giurisdizionale, i giudici di legittimità costituzionale reputavano fondamentale per questo scopo “verificare nuovamente la legittimità della preclusione per l’imputato di un rito alternativo a contenuto premiale nonostante la sopravvenienza di nuove contestazioni dibattimentali, posto che non può non valere anche per il nuovo procedimento speciale della messa alla prova il complesso dei principi enucleati al riguardo da questa Corte per gli altri riti alternativi”
Chiarito ciò, si notava come la giurisprudenza costituzionale sulla facoltà dell’imputato di chiedere il patteggiamento o il giudizio abbreviato dopo nuove contestazioni a norma degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. fosse andata evolvendo nel tempo in modo significativo.
Difatti, in una prima fase, relativa agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice di rito, la Corte costituzionale aveva ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto le norme sulle nuove contestazioni e aveva escluso ogni possibilità di superare l’ordinario limite processuale fissato per la richiesta dei riti alternativi, successivamente, in una seconda fase, la giurisprudenza costituzionale era andata gradualmente evolvendo, e, già con la sentenza n. 265 del 1994, dichiarava costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente quando questo ha formato oggetto di contestazione “tardiva” mentre, con la sentenza n. 184 del 2014, rilevava come la motivazione della sentenza n. 265 del 1994 potesse riferirsi anche alla contestazione “tardiva” di una o più circostanze aggravanti, in quanto «anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale» così come, con la sentenza n. 139 del 2015, la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione.
Tra l’altro, osservava sempre la Corte nella decisione in esame, in tutte queste pronunce venivano accomunate «le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. “in analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette ‘tardive’ o ‘patologiche’, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale” (sentenza n. 273 del 2014)» (sentenza n. 206 del 2017) fermo restando però che, nella successiva evoluzione giurisprudenziale, questo requisito venne superato e la Corte, con tre sentenze più recenti, riconosceva all’imputato la facoltà di accedere ai riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato anche in seguito a nuove contestazioni “fisiologiche”, collegate cioè non a elementi acquisiti nel corso delle indagini ma alle risultanze dell’istruzione dibattimentale.
Infatti: con la sentenza n. 237 del 2012 era dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale. Con la sentenza n. 273 del 2014 era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale. Con la sentenza n. 206 del 2017 era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., per il fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale.
Orbene, si osservava a questo proposito come in queste pronunce fosse stato precisato “che in seguito alla contestazione, ancorché “fisiologica”, del fatto diverso o di un reato concorrente «l’imputato che subisce la nuova contestazione “viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio” stante il fatto che la“condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti” […] (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenze n. 273 del 2014 e n. 206 del 2017)” e, operando in tal guisa, si riteneva perciò che, sia quando all’accusa originaria ne viene aggiunta una connessa, sia anche quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, «non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni» (sentenza n. 237 del 2012) e richiedere il giudizio abbreviato.
Analoga affermazione veniva fatta per il “patteggiamento” sicché, anche rispetto a questo rito speciale, quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, «“non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni” (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 273 del 2014) osservandosi altresì che “la modificazione dell’imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena irrogabile e, di conseguenza, sull’incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale”.
All’opposto, non venivano considerati decisivi “in senso contrario gli argomenti fatti valere in passato, relativi, da un lato, alla necessaria correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale e, dall’altro, all’assunzione, da parte dell’imputato (che non abbia tempestivamente chiesto il rito alternativo), del rischio della modificazione dell’imputazione per effetto di sopravvenienze” atteso che “l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, e che in ogni caso le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché «l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa» (sentenza n. 237 del 2012”.
Alla luce di questo scenario giurisprudenziale, la Consulta giungeva in questa decisione a ritenere come fosse chiaro che, “nel caso di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, non prevedere nell’art. 517 cod. proc. pen. la facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova si risolve, come è stato ritenuto per il patteggiamento e per il giudizio abbreviato, in una violazione degli artt. 3 e 24 Cost.” anche perché la “richiesta dei riti alternativi (..) «costituisce […] una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), e si determinerebbe una situazione in contrasto con il principio posto dall’art. 3 Cost. se nella medesima situazione processuale fosse regolata diversamente la facoltà di chiederli” mentre a nulla rileva “la circostanza, dedotta dall’Avvocatura dello Stato, che, nel momento processuale in cui nel procedimento a quo avrebbe dovuto essere presentata la richiesta, la legge n. 67 del 2014 non era ancora stata emanata” dato che, “per valutare l’ammissibilità della richiesta non è a quel momento che occorre fare riferimento, ma al momento in cui è avvenuta la contestazione suppletiva, dato che, come si è visto, il riconoscimento della facoltà di chiedere il rito speciale non deve più ritenersi condizionato dalla “tardività” della contestazione” mentre se “si dovesse riconoscere tale facoltà solo nel caso in cui gli elementi alla base della contestazione suppletiva erano già presenti al momento in cui la richiesta avrebbe dovuto essere presentata, la sua ammissibilità in seguito a tale contestazione costituirebbe il recupero di una facoltà difensiva non potuta esercitare a suo tempo per l’errore compiuto dal pubblico ministero, e quindi si potrebbe argomentare che non esistendo all’epoca quella facoltà nessun recupero sarebbe configurabile” ma se “la facoltà di chiedere un rito speciale deve riconoscersi all’imputato anche quando la contestazione suppletiva è determinata, come del resto dovrebbe normalmente avvenire, da una sopravvenienza dibattimentale, allora è nella sopravvenienza, e soprattutto nella correlativa contestazione suppletiva, che trova fondamento la facoltà di chiedere un rito speciale”.
Tal che si perveniva alla conclusione alla stregua della quale dato rilevante “è la sopravvenienza di una contestazione suppletiva, quali che siano gli elementi che l’hanno giustificata, esistenti fin dalle indagini o acquisiti nel corso del dibattimento, ed è ad essa che deve ricollegarsi la facoltà dell’imputato di chiedere un rito alternativo, indipendentemente dalla ragione per cui la richiesta in precedenza è mancata” dato che è “nel diritto di difesa che la “nuova” facoltà trova il suo fondamento, perché, se, come si è ricordato, la richiesta dei riti alternativi costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio di tale diritto, occorre allora che la relativa facoltà sia collegata anche all’imputazione che, per effetto della contestazione suppletiva, deve effettivamente formare oggetto del giudizio”.
La Corte Costituzionale, pertanto, alla stregua delle considerazioni giuridiche sin qui esposte, perveniva a ritenere come, per il contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., l’art. 517 cod. proc. pen. andasse dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Conclusioni
La sentenza in oggetto è sicuramente condivisibile sicché si allinea lungo il solco di un pregresso orientamento sostenuto sempre dalla Consulta in subiecta materia.
Difatti, se già nel passato la Consulta aveva riconosciuto all’imputato la facoltà di accedere ai riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato anche in seguito a nuove contestazioni “fisiologiche”, collegate cioè non a elementi acquisiti nel corso delle indagini ma alle risultanze dell’istruzione dibattimentale, non si vedono le ragioni per cui lo stesso diritto non possa competere a costui anche quando chieda di essere ammesso alla prova in caso di contestazione, operata in sede dibattimentale, di una circostanza aggravante.
Non avrebbe difatti alcun senso, logico ancor prima che giuridico, limitare l’esercizio di questo diritto solo per un rito speciale, consentendolo invece per gli altri.
Non si può quindi che ribadire quanto appena esposto poco prima ossia come tale declaratoria di illegittimità costituzionale sia assolutamente condivisibile.
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