Consulta: illegittimità costituzionale degli articoli 442 e 676 c.p.p.

La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 442 e 676 c.p.p.: : (competenza del giudice d’esecuzione per la sospensione di pena).

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La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 442 e 676 c.p.p.: vediamo come. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

Corte costituzionale -sentenza n. 208 del 25-11-2024

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Indice

1. Il fatto


Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola, con sentenza pronunciata in esito ad un giudizio abbreviato, aveva condannato l’imputato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione e 800 euro di multa per i delitti di tentata estorsione e di ricettazione.
Ciò posto, in seguito a tale decisione, il condannato aveva depositato dichiarazione di rinuncia all’impugnazione, chiedendo contestualmente, tra l’altro, la riduzione di un sesto della pena ai sensi della disposizione censurata e la concessione della sospensione condizionale e della non menzione della condanna, previa eventuale proposizione di una questione di legittimità costituzionale nell’ipotesi in cui il giudice ritenesse di non essere facoltizzato dalla medesima disposizione ad applicare tali benefici in sede di incidente di esecuzione.
Investito di tali istanze in qualità di giudice dell’esecuzione, siffatto organo giudicante, in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione, oltre a 667 euro di multa ma, con separata ordinanza, aveva pure sollevato delle questioni di legittimità costituzionale, nei termini che vedremo da qui a breve. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

FORMATO CARTACEO

Codice penale e di procedura penale e norme complementari

Il presente codice per l’udienza penale fornisce uno strumento di agile consultazione, aggiornato alle ultimissime novità legislative (la riforma Nordio, il decreto svuota carceri, modifiche al procedimento in Cassazione).L’opera è corredata dalle leggi speciali di più frequente applicazione nel corso dell’udienza penale e le modifiche del 2024 sono evidenziate in grassetto nel testo per una immediata lettura delle novità introdotte.Gli articoli del codice penale riportano le note procedurali utili alla comprensione della portata pratica dell’applicazione di ciascuna norma.Il volume è uno strumento indispensabile per avvocati e magistrati, ma anche per studenti universitari e concorsisti.Completa il codice una sezione online che mette a disposizione ulteriori leggi speciali in materia penale e gli aggiornamenti normativi fino al 31 gennaio 2025.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma, già componente del Collegio per i reati ministeriali presso il medesimo Tribunale. Docente della Scuola Superiore della Magistratura, è autore di numerose pubblicazioni.Luigi TramontanoGiurista, già docente a contratto presso la Scuola di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza, è autore di numerose pubblicazioni, curatore di prestigiose banche dati legislative e direttore scientifico di corsi accreditati di preparazione per l’esame di abilitazione alla professione forense.

Paolo Emilio De Simone, Luigi Tramontano | Maggioli Editore 2024

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione: competenza del giudice d’esecuzione per la sospensione di pena (artt.442 e 676 c.p.p.)


Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola, in funzione di giudice dell’esecuzione, sollevava talune questioni di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il Giudice dell’esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ove la diminuzione automatica di pena per la mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa in sede di giudizio abbreviato comporti l’applicazione di una pena contenuta nei limiti di legge di cui all’art. 163 c.p. e ricorrendone gli ulteriori presupposti», in riferimento agli artt. 3, 27, commi primo e terzo, 111, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In particolare, per quanto riguarda la rilevanza delle questioni prospettate, il giudice a quo osservava come, a seguito della rideterminazione della pena, essa rientrerebbe ora nei limiti entro i quali è ammissibile la concessione della sospensione condizionale della stessa.
Oltre a ciò, era fatto altresì presente come, nel caso di specie, sarebbero inoltre sussistiti elementi idonei a fondare una prognosi favorevole circa l’astensione da parte del condannato dalla commissione di ulteriori reati: in particolare, l’incensuratezza al momento dei fatti, la partecipazione ad un percorso di recupero dalla dipendenza dal gioco e l’assenza di violazioni della misura cautelare cui era stato nel frattempo sottoposto.
Il rimettente si confrontava, infine, con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale il giudice dell’esecuzione può compiere autonome valutazioni, in ordine alla concessione della sospensione condizionale della pena, solo allorché queste non contraddicano quelle del giudice della cognizione (citandosi all’uopo: Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 20 dicembre 2005-6 febbraio 2006, n. 4687), prendendo però al contempo atto di come nessuna contraddizione sussisterebbe, tuttavia, nel caso di specie, poiché egli stesso, in qualità di giudice della cognizione, aveva escluso l’applicazione della sospensione condizionale della pena solo in ragione dell’entità della pena inflitta, mentre i riferimenti, presenti nella motivazione della sentenza, all’allarme sociale e alla gravità dei fatti commessi riguardava la diversa questione della possibile concessione di una pena sostitutiva.
Ad ogni modo, la citata sentenza delle Sezioni unite consentirebbe, comunque, un giudizio prognostico favorevole ai sensi dell’art. 164, comma primo, del codice penale, da parte del giudice dell’esecuzione, anche tenuto conto di elementi sopravvenuti; ciò che si verificherebbe, appunto, nel caso di specie, dovendosi registrare come elemento sopravvenuto il comportamento dell’imputato successivo alla condanna e la sua partecipazione a un percorso di recupero trattamentale.
Ciò posto, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente, premesso anzitutto che – «onde evitare inutili ripetizioni» – tutti gli argomenti spesi in relazione alla sospensione condizionale della pena avrebbero dovuto intendersi riferiti anche all’istituto «similare e affine» della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, escludeva come fosse possibile un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., che consenta al giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena a seguito della rideterminazione della stessa ai sensi della disposizione censurata atteso che sarebbe ormai pacifico che la sospensione condizionale della pena possa essere concessa in fase esecutiva, dal momento che l’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. lo prevede espressamente nel caso di applicazione in executivis della disciplina della continuazione o del concorso formale di reati mentre le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto al giudice dell’esecuzione analogo potere in altre ipotesi, «mediante una sapiente applicazione della cd. “teoria dei poteri impliciti”» (si richiamavano a tal riguardo: Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza n. 4687 del 2006 e 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107), teoria poi ripresa in ulteriori ambiti dalle sezioni semplici della stessa Corte di Cassazione (si menzionava a tal proposito: Corte di Cassazione, Sezione prima, sentenze 1° marzo-12 aprile 2013, n. 16679 e 30 ottobre 2018-15 novembre 2018, n. 51692).
Cionondimeno, sempre per il giudice rimettente, non risulterebbe praticabile alcuna interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, poiché essa si tradurrebbe in un’applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., la cui praticabilità sarebbe già stata esclusa dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione rispetto alla concessione della sospensione condizionale della pena a seguito di revoca della condanna per abolitio criminis.
In effetti, in tale ipotesi, secondo le Sezioni unite, il giudice dell’esecuzione potrebbe applicare la sospensione condizionale soltanto perché l’art. 673, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che il giudice dell’esecuzione adotta «i provvedimenti conseguenti» alla revoca della condanna, mentre un’applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. sarebbe impedita dalla natura eccezionale di detta disposizione, «la quale deroga al principio generale secondo cui il giudizio prognostico sulla futura condotta del reo – costituente il presupposto per la concessione della sospensione condizionale – è ordinariamente riservato al giudice della cognizione, che ha accertato la responsabilità del soggetto per il fatto cui il beneficio andrebbe applicato» (si citava all’uopo: ancora Cass., n. 4687 del 2006).
L’estensione in via analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. al caso ora all’esame, in assenza di qualsiasi appiglio normativo circa la possibilità di adottare provvedimenti conseguenti alla rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. si porrebbe pertanto, per il giudice a quo, in contrasto con l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, trattandosi di norma che fa eccezione al principio generale dell’ordinamento della «(tendenziale) immodificabilità del giudicato», il quale – secondo quanto affermato in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità – sarebbe derogabile nei soli casi previsti dalla legge (si richiamava a tal proposito: Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenze 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821 e 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858).
Detto questo, quanto ai singoli profili di censura, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata darebbe anzitutto luogo a una «lacuna normativa intrinsecamente irragionevole in relazione alla funzione rieducativa», osservandosi, in proposito, che la sospensione condizionale della pena avrebbe – come riconosciuto dall’unanime giurisprudenza di legittimità (si citava a tal riguardo, tra le altre, Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 23 giugno-5 ottobre 2022, n. 37503) – una funzione specialpreventiva orientata alla rieducazione del condannato.
Essa si collocherebbe, più in particolare, nel quadro degli istituti che mirano a evitare l’esecuzione in carcere delle pene detentive brevi, secondo una linea di politica criminale che trova rispondenza anche nella relazione di accompagnamento del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), cui si deve l’introduzione della disposizione censurata.
L’attuale impossibilità di concedere la sospensione condizionale della pena a seguito della riduzione di pena prevista da tale disposizione produrrebbe quindi, per il giudice rimettente, «effetti distonici rispetto agli scopi prefissati dal legislatore e, pertanto, sproporzionati ed irragionevoli», oltre al fatto che la disciplina censurata determinerebbe, in particolare, una situazione di «vuoto giurisdizionale» – di per sé costituente «indice manifesto» di irragionevolezza – in quanto nessuna autorità giurisdizionale potrebbe vagliare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sospensione condizionale della pena in un caso quale quello sottoposto all’esame del rimettente: non aveva infatti potuto farlo il giudice della cognizione, «in quanto inibito dal quantum di pena (originariamente) inflitto», né potrebbe farlo il giudice dell’esecuzione, che pure abbia rideterminato la pena detentiva al di sotto dei due anni.
Tale disciplina comporterebbe, per di più, «come conseguenza pressoché automatica, l’applicazione di una pena potenzialmente sproporzionata nei confronti del condannato, in astratto meritevole di un trattamento sanzionatorio alternativo quale quello rappresentato dalla sospensione condizionale». Essa violerebbe dunque i commi primo e terzo dell’art. 27 Cost., che richiedono l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio e la proporzionalità della pena irrogata (si citavano a tal riguardo: le sentenze della Consulta n. 40 del 2019, n. 102 del 2020, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 313 del 1990).
In secondo luogo, l’evidenziata «lacuna normativa», per il Tribunale di Nola, risulterebbe «intrinsecamente irragionevole in relazione alla ragionevole durata del processo», principio di rilevanza costituzionale e convenzionale cui si ispirerebbe il disegno complessivo del legislatore del 2022, il quale avrebbe tra l’altro mirato – oltre che a consentire una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione, riconoscendo al giudice di cognizione il potere di applicare pene sostitutive di natura non detentiva – ad alleggerire il contenzioso penale, favorendo definizioni rapide dei processi.
Di contro, l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di applicare la sospensione condizionale in esito alla riduzione di pena prevista dalla disposizione censurata tramuterebbe il condannato «in un cd. “libero sospeso”, il cui trattamento sanzionatorio – con ogni probabilità, extracarcerario stante il quantum di pena – dovrà essere supervisionato e gestito dalla Magistratura di sorveglianza, previa emissione di un ordine di carcerazione da parte del PM, eventualmente sospeso ove ne ricorrano le condizioni», e ciò «in esatta antitesi» rispetto all’obiettivo che il d.lgs. n. 150 del 2022 si era prefisso, di riduzione del numero e di ridimensionamento della patologica situazione dei cosiddetti “liberi sospesi”.
Da ciò deriverebbe, in definitiva, che «la lacuna normativa censurata non solo non consente di raggiungere le finalità rieducative e di deflazione processuale connesse agli istituti coinvolti, ma si pone in chiave antagonista rispetto a queste ultime, ostacolando la realizzazione di trattamenti sanzionatori alternativi al carcere già in fase di cognizione ed inflazionando in misura deteriore il già gravato procedimento di sorveglianza».

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3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale


La Consulta, dopo avere ritenuto le questioni suesposte ammissibili, quanto al merito delle censure, riteneva come l’interpretazione della disposizione censurata, secondo cui non sarebbe consentito al giudice dell’esecuzione provvedere, contestualmente alla riduzione di pena, sulle istanze di applicazione della sospensione condizionale e della non menzione della condanna, nemmeno quando solo per effetto di tale riduzione la pena risulti contenuta entro i limiti che in astratto consentono la concessione dei benefici, si ponesse effettivamente in contrasto con i parametri costituzionali evocati dal rimettente.
In particolare, ad avviso del Giudice delle leggi, lungi dall’esprimere generiche istanze indulgenziali o di immotivata “fuga dalla sanzione” nei confronti degli autori di reato, tanto la sospensione condizionale della pena quanto la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale sono istituti chiave nell’ottica della funzione oggi costituzionalmente assegnata alla pena dall’art. 27, terzo comma, Cost..
In effetti, la sospensione condizionale – introdotta in Italia dalla legge 26 giugno 1904, n. 267 (Sospensione della esecuzione delle sentenze di condanna) per i condannati a pena detentiva di norma non superiore alla durata di sei mesi, poi progressivamente estesa sino a raggiungere i limiti attuali – fu sin dalla sua origine pensata come funzionale ad assicurare nel condannato per reati di non particolare gravità un effetto di monito associato alla sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, risparmiandogli tuttavia, in particolare nel caso di prima condanna, l’esperienza del carcere.
Del resto, da tempo la dottrina aveva, in effetti, mostrato come le pene detentive brevi – troppo brevi per provocare un cammino di rieducazione, ma già idonee a esporre il condannato all’influenza di subculture criminali e, comunque, a interrompere le sue relazioni affettive, familiari, sociali, lavorative con la comunità – producessero importanti effetti criminogeni e desocializzanti (sul punto, sentenza n. 28 del 2022, punto 5.1. del Considerato in diritto).
Tale ratio, sempre per la Corte di legittimità, tra l’altro, essenziale è ancor oggi alla base dell’istituto, e ciò in piena armonia con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.: finalità che la sospensione condizionale persegue, peraltro, non solo in forma negativa – evitando i menzionati effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve –, ma anche attraverso la minaccia di revoca del beneficio, che stimola l’astensione da ulteriori reati da parte del condannato durante il periodo di sospensione, nonché attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che, secondo i casi, possono o debbono essere imposti al condannato ai sensi dell’art. 165 cod. pen., conferendo così un contenuto risocializzativo anche “positivo” al beneficio.
Quanto alla non menzione della condanna, per i giudici di legittimità costituzionale, si tratta anche in questo caso di beneficio – parimenti di antica tradizione nel nostro ordinamento – funzionale ad evitare, specie nei confronti di persone condannate per la prima volta e comunque per reati non gravi, gli effetti di stigmatizzazione determinati dalla segnalazione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ad uso dei privati, e i conseguenti pregiudizi sull’onorabilità del condannato. I quali sono evidentemente suscettibili di tradursi, in particolare, in altrettanti ostacoli alle sue future possibilità di lavoro e rischiano di costituire, dunque, altrettanti fattori di desocializzazione (sentenze n. 179 del 2020, punto 6.2. del Considerato in diritto; n. 231 del 2018, punto 5.3. del Considerato in diritto), fermo restando come sia evidente, anche rispetto a questo beneficio, il nesso con il principio costituzionale di rieducazione del condannato di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., sia pure declinato qui in forma essenzialmente negativa (come rivolto, cioè, ad evitare per quanto possibile gli effetti desocializzanti della pena).
Orbene, per il Giudice delle leggi, posto che l’applicazione di entrambi i benefici è subordinata dalla legge a una serie di requisiti, tra i quali spicca un limite massimo di pena detentiva concretamente inflitta (ordinariamente, pari a due anni), per effetto di questo meccanismo, la valutazione sull’applicazione di tali benefici da parte del giudice della cognizione diviene parte integrante del processo di “commisurazione in senso lato” della pena, di cui la sentenza di condanna deve dar conto nella parte motiva e nel dispositivo, e che ha ad oggetto non solo la tipologia e il quantum della pena applicata, ma anche la sua concreta eseguibilità e il suo regime di pubblicità per i privati, fermo restando che tale meccanismo vale anche nella generalità delle ipotesi in cui il codice di procedura penale prevede riduzioni di pena finalizzate a incentivare, a scopi deflattivi del contenzioso, definizioni processuali alternative rispetto al dibattimento (rito abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto), fermo restando che, in tutte queste ipotesi, la diminuzione di pena connessa al rito si opera sulla pena già determinata in base alle regole generali del codice penale, essendo, quindi, la pena diminuita per il rito a costituire il punto di riferimento, ai sensi degli artt. 163 e 175 cod. pen., per la valutazione, da parte dello stesso giudice della cognizione, sull’eventuale applicazione della sospensione condizionale e della non menzione, il che ha, del resto, una solida giustificazione: la diminuzione della pena conseguente a scelte processuali individuali non è una graziosa concessione al condannato, ma riflette la precisa logica sinallagmatica – la cui legittimità costituzionale non è qui in discussione – adottata dal legislatore, che garantisce un minor carico sanzionatorio a chi volontariamente rinunci a esercitare parti integranti del proprio diritto costituzionale di difesa, fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso: il che non è senza significato nemmeno ai fini della valutazione della “necessità di pena” del singolo condannato.
Sicché, per la Corte, è del tutto logico che la valutazione sui presupposti della sospensione condizionale e della non menzione venga operata rispetto alla pena così come determinata “a valle” delle scelte processuali dell’imputato, che costituiscono, esse pure, elementi significativi nella “commisurazione in senso lato” della pena a lui applicabile.
Ciò posto, a questo punto della disamina, la Consulta evidenziava come pure l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. stabilisca anch’esso un meccanismo premiale, per effetto del quale la pena viene «ridotta di un sesto» nell’ipotesi in cui il condannato in esito a un giudizio abbreviato non proponga impugnazione contro la sentenza, essendo tale riduzione espressamente indicata quale “ulteriore” rispetto a quella della metà o di un terzo prevista dal comma 2.
Del resto, in entrambi i meccanismi normativi, la pena originariamente determinata dal giudice sulla base degli ordinari criteri di cui agli artt. 133 e 133-bis cod. pen. subisce una modificazione ex lege, in omaggio a logiche deflattive del contenzioso penale: rispetto all’ipotesi del comma 2, al fine di incentivare il ricorso al rito abbreviato, caratterizzato dalla rinuncia alle garanzie del contraddittorio nella formazione della prova; rispetto a quella, ora all’esame, del comma 2-bis, allo scopo di indurre il condannato a rinunciare ad impugnazioni miranti unicamente a una riduzione della pena inflittagli (così la relazione finale della Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al disegno di legge A.C. 2435, pagina 27).
Nell’una e nell’altra ipotesi, il legislatore si ripromette dunque di ottenere un risparmio di tempi e di energie per il già sovraccarico sistema penale italiano, riducendo per quanto possibile – rispettivamente – il numero di giudizi dibattimentali e di impugnazioni.
La peculiarità della riduzione “ulteriore” di pena di cui al comma 2-bis risiede, però, per la Corte costituzionale, nella circostanza che alla rideterminazione della pena è chiamato il giudice dell’esecuzione, anziché il giudice della cognizione e ciò perché, da un lato, è conseguenza necessaria del meccanismo normativo, che presuppone la rinuncia all’impugnazione nei termini di legge da parte del condannato e, dunque, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, dall’altro lato, questa peculiarità pone, sul piano esegetico, il quesito se, nel silenzio del legislatore, anche il giudice dell’esecuzione abbia il potere (o il dovere) di valutare se applicare la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna, quando soltanto per effetto della nuova riduzione la pena risulti in concreto rientrare nei limiti di legge che rendono possibile l’applicazione di uno o entrambi i benefici.
Concluso questo excursus di ordine prevalentemente normativo, la Consulta giungeva ad una prima conclusione secondo la quale il fornire una risposta negativa a tale quesito risulti, in effetti, incompatibile con i principi costituzionali evocati dal rimettente.
Anzitutto, poiché chi rinuncia al proprio diritto all’impugnazione della sentenza di condanna pronunciata all’esito di un giudizio abbreviato, in cambio di un ulteriore sconto di pena rispetto a quello già ottenuto per effetto della scelta del rito, si troverebbe in una posizione significativamente deteriore rispetto a tutti coloro che si avvalgano di analoghi sconti di pena, in cambio della rinuncia a proprie facoltà processuali parimenti coperte dal diritto costituzionale di difesa e dai principi del giusto processo.
Rispetto a tutti costoro, invero, è la pena determinata “a valle” della riduzione di pena connessa al rito – e non già quella determinata dal giudice “a monte” di tale riduzione – a costituire il presupposto per l’eventuale applicazione della sospensione condizionale e della non menzione.
Orbene, per la Corte, una tale disparità di trattamento risulta difficilmente giustificabile al metro del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., e ciò tanto più in quanto, come già osservato, la rinuncia all’impugnazione della sentenza di condanna, dalla quale dipende la riduzione di un sesto della pena, è sacrificio diverso e ulteriore rispetto alla rinuncia alle garanzie del dibattimento, che è già “compensata” dalla riduzione della metà o di un terzo prevista dal comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen..
Ma, soprattutto, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, la soluzione in questione risulterebbe distonica rispetto alle ordinarie regole di “commisurazione in senso lato” della pena, a loro volta espressione del principio della finalità rieducativa di cui all’art. 27, terzo comma, Cost..
In effetti, la regola di sistema vigente nel nostro ordinamento è che tutte le pene detentive determinate – in esito all’intero procedimento commisurativo – entro il limite dei due anni di reclusione sono soggette, ricorrendo gli ulteriori requisiti fissati dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen., a una valutazione ex officio da parte del giudice circa la necessità di una loro effettiva esecuzione, nonché circa la loro pubblicità ai privati, essendo, dunque, la misura finale della pena a costituire il presupposto di una preventiva valutazione del giudice sulla sua immediata eseguibilità, ovvero sulla sua sospensione condizionale, nonché sull’opportunità di evitare la sua iscrizione sul certificato del casellario giudiziale, in presenza dei requisiti di legge relativi all’applicabilità di tali benefici, fermo restando che questa regola di sistema dipende strettamente dalla poc’anzi rammentata scelta di fondo del legislatore di assicurare al condannato per reati non gravi, specie se alla prima condanna, una chance di sottrarsi agli effetti desocializzanti propri delle pene detentive brevi e all’effetto stigmatizzante derivante dall’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale.
Pertanto, una soluzione interpretativa che imponesse comunque il passaggio alla fase esecutiva di pene detentive di durata non superiore a due anni, ovvero la necessaria menzione sul casellario giudiziale di pene contenute entro tale limite di durata, per la Consulta, finirebbe per porsi in antitesi con le finalità rieducative perseguite dal legislatore attraverso i due istituti in esame, in adempimento del preciso mandato costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost..
Se è vero, poi, che la valutazione sui benefici in parola fa corpo con tutte le regole che presiedono alla “commisurazione della pena in senso lato”, allora, sempre per il Giudice delle leggi, l’impossibilità di procedervi nel momento in cui viene determinata la pena destinata a passare in esecuzione, pur quando essa rientri entro i limiti di legge previsti per l’applicazione dei benefici medesimi, finisce per privare il condannato di uno strumento essenziale per consentire al giudice di calibrare la risposta sanzionatoria a tutte le peculiarità del reato commesso e alle specifiche caratteristiche del condannato: incluse la valutazione del suo effettivo rischio di recidiva e la necessità di favorirne il percorso rieducativo evitando, per quanto possibile, gli effetti desocializzanti e criminogeni della pena detentiva breve, e ciò in violazione del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost., che esige l’individualizzazione della sanzione rispetto al singolo fatto di reato e alla situazione del singolo condannato (ex multis, sentenze n. 91 del 2024, punto 9 del Considerato in diritto; n. 86 del 2024, punto 5.8. del Considerato in diritto; n. 197 del 2023, punto 5.5.1. del Considerato in diritto; n. 195 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto; n. 40 del 2023, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 222 del 2018, punti 7.1. e 7.2. del Considerato in diritto).
Infine, la soluzione ora in esame finirebbe per minare gravemente l’effettività dell’incentivo alla rinuncia all’impugnazione, sul quale ha scommesso la riforma del 2022, per chi sia stato condannato a una pena che, grazie alla riduzione di un sesto, potrebbe rientrare entro i limiti di legge per il riconoscimento di entrambi i benefici dato che, in tal caso, il condannato avrebbe ogni incentivo per proporre appello, mirando a ottenere in quella sede una riduzione della pena, anche grazie al meccanismo del concordato con rinuncia ai motivi di appello di cui all’art. 599-bis cod. proc. pen., il che introdurrebbe, come a ragione osserva il rimettente, un elemento di intrinseca irrazionalità rispetto allo stesso scopo legislativo di favorire una più rapida definizione del contenzioso penale: con conseguente ulteriore profilo di frizione rispetto all’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU.
Dunque, a fronte di tale criticità di ordine costituzionale, i giudici di legittimità costituzionale ritenevano opportuno valutare, a questo punto della disamina, sul piano dell’individuazione del rimedio al vulnus riscontrato, se al risultato di assicurare al giudice dell’esecuzione la possibilità di valutare l’applicabilità della sospensione condizionale e della non menzione, dopo aver ridotto la pena di un sesto ai sensi della disposizione censurata, possa pervenire già il giudice comune attraverso una interpretazione costituzionalmente conforme di tale disposizione; ovvero se sia necessaria, allo scopo, una pronuncia di illegittimità costituzionalità parziale da parte della medesima Corte costituzionale.
Al riguardo, la Corte di legittimità stimava anzitutto considerare che ciò di cui il rimettente si doleva era una lacuna normativa: e dunque, un mero silenzio del legislatore.
Quindi, dal momento che, in linea di principio, il silenzio del legislatore non può essere inteso dall’interprete come decisivo nell’uno o nell’altro senso, dal momento che al criterio ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit può agevolmente opporsi la normale applicabilità dell’analogia, legis o iuris, quale strumento idoneo a colmare le lacune lasciate aperte del legislatore, salvo che sussistano specifici impedimenti all’uso di tale strumento, quale segnatamente la natura eccezionale della disciplina di cui si tratta (art. 14 Preleggi), il rimettente riteneva, per l’appunto, che l’applicazione analogica dell’unica disposizione che espressamente conferisce al giudice dell’esecuzione il potere di concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione – e cioè l’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., previsto per l’ipotesi in cui siano riconosciuti in sede esecutiva il concorso formale o la continuazione tra più reati oggetto di più pronunce di condanna divenute irrevocabili – sia preclusa dalla natura eccezionale di tale disposizione visto che quest’ultima derogherebbe al principio generale secondo cui «il giudizio prognostico sulla futura condotta del reo – costituente il presupposto per la concessione della sospensione condizionale – è ordinariamente riservato al giudice della cognizione, che ha accertato la responsabilità del soggetto per il fatto cui il beneficio andrebbe applicato»; e derogherebbe, comunque, al principio generale dell’immodificabilità del giudicato da parte del giudice dell’esecuzione in quanto ciò si evincerebbe, ad avviso del rimettente, dalla giurisprudenza di legittimità, e in particolare dalla sentenza n. 4687 del 2006 delle Sezioni unite penali, le cui affermazioni sarebbero state più volte riprese dalla giurisprudenza successiva.
Al riguardo, la Consulta reputava come dovesse essere però sottolineato che la sentenza delle Sezioni unite n. 4687 del 2006 aveva affrontato la specifica questione, che era stata oggetto di un acceso contrasto giurisprudenziale, relativa al potere del giudice dell’esecuzione di disporre la sospensione condizionale della pena nel caso – previsto dall’art. 673 cod. proc. pen. – di revoca per abolitio criminis di sentenze di condanna che avevano impedito al giudice, nel giudizio di cognizione relativo ad altro reato, di concedere il beneficio in parola.
In particolare, nell’iter motivazionale che aveva condotto a una risposta affermativa a tale questione, la Corte di Cassazione aveva escluso bensì la possibilità di un’estensione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., ritenendo che tale disposizione abbia natura eccezionale rispetto al principio generale dell’immodificabilità del giudicato; ma al tempo stesso aveva ritenuto che al risultato di ammettere la possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale nel caso in esame – risultato, precisa la Cassazione, imposto dalla necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso art. 673 cod. proc. pen. (punto 4 dei Motivi della decisione) – si potesse pervenire valorizzando l’inciso «e adotta i provvedimenti conseguenti» presente nella disposizione (punto 5 dei Motivi della decisione) fermo restando che la medesima sentenza aveva altresì chiarito che tale soluzione non si pone in contrasto con il principio dell’intangibilità del giudicato e con la carenza di poteri valutativi da parte del giudice dell’esecuzione, a ciò essendo agevole replicare «che evidenti esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema, inducono a ritenere che, una volta dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all’esercizio di quella medesima attribuzione» (punto 6 dei Motivi della decisione).
Laddove dunque – concludendo le Sezioni unite – nel giudizio pregresso l’unico motivo della mancata applicazione del beneficio sia stato l’effetto preclusivo della sentenza di condanna successivamente revocata per sopravvenuta abolitio criminis, «non può certamente ravvisarsi alcun reale vulnus al giudicato qualora quel giudizio prognostico che non è stato compiuto dal giudice della cognizione sia compiuto, poi, dal giudice dell’esecuzione», anche alla luce «di tutti i sopravvenuti elementi sintomatici che, allorché il giudice dell’esecuzione formula il giudizio prognostico, contribuiscono a giustificare il convincimento che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati» (ancora, punto 6 dei Motivi della decisione).
Ciò posto, una volta illustrato tale arresto giurisprudenziale, il Giudice delle leggi notava come l’evoluzione successiva della giurisprudenza di legittimità mostri, non solo un progressivo riconoscimento del potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena cristallizzata in una sentenza definitiva di condanna anche al di fuori delle ipotesi legislativamente previste (su tale evoluzione, sentenze n. 2 del 2022, punto 5.1.1. del Considerato in diritto, n. 68 del 2021, punto 2.2. del Considerato in diritto, e n. 210 del 2013, punto 7.3. del Considerato in diritto, e ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza pertinente della Corte di Cassazione), ma evidenzi altresì un progressivo riconoscimento del suo potere di concedere la sospensione condizionale della pena in conseguenza di tale rideterminazione, una volta rimosso l’ostacolo normativo che aveva impedito al giudice della cognizione di provvedervi, e ciò anche in assenza di uno specifico appiglio normativo come quello rappresentato dalla formula, presente nell’art. 673 cod. proc. pen. e valorizzato dalle Sezioni unite nel 2006, «e adotta i provvedimenti conseguenti» (così, ad esempio, Cass., n. 16679 del 2013, rispetto ai poteri del giudice dell’esecuzione che abbia rideterminato la pena dopo l’annullamento senza rinvio di un solo capo della sentenza di condanna).
D’altronde, nuovamente le Sezioni unite penali, pronunciandosi nel 2015 sui poteri – non stabiliti in modo espresso da alcuna norma processuale – del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale dei limiti edittali di pena previsti per una fattispecie criminosa, hanno invocato il precedente del 2006 per concludere che, nell’effettuare tale rideterminazione, il giudice dell’esecuzione ben può pronunciarsi anche sull’eventuale sospensione condizionale della pena così rideterminata, sulla base di «evidenti esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema» (Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107, punto 9 dei Motivi della decisione), fermo restando che, in una successiva occasione, la Sezione prima penale ha parimenti riconosciuto il potere del giudice dell’esecuzione, chiamato a rideterminare la pena in conseguenza della revoca parziale della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 669 cod. proc. pen., di procedere anche alla valutazione dei presupposti della sospensione condizionale.
Nel dettaglio, tale pronuncia ha rammentato che le Sezioni unite avevano fatto leva, nel 2006, sul dato testuale rappresentato dall’inciso «e adotta i provvedimenti conseguenti», contenuto nell’art. 673 cod. proc. pen.; ma ha sottolineato altresì come già in quella pronuncia fosse stato utilizzato l’argomento dei «poteri impliciti» del giudice dell’esecuzione, poi ulteriormente sviluppato nella sentenza n. 37107 del 2015, essendosi così chiarito che – anche laddove manchi un appiglio testuale – il richiamo contenuto ai provvedimenti conseguenti di cui all’art. 673 cod. proc. pen., «lungi dal consegnare un’attribuzione in via eccezionale, è indicativo di una situazione di potere necessariamente implicata da quella che consente al giudice dell’esecuzione di rimuovere un giudicato».
Direttamente in forza di tale principio, dunque, «e non già per applicazioni analogiche di disposizioni dettate per casi simili, il giudice dell’esecuzione può provvedere sulla sospensione condizionale – su cui in precedenza non si sarebbe potuto pronunciare per l’impedimento derivante dal giudicato di condanna revocato».
Le pronunce appena riferite, quindi, per la Consulta, mostrano che un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata sarebbe stata praticabile, e ciò non solo in considerazione del silenzio serbato sul punto dal legislatore (e dunque dell’assenza di dati testuali incompatibili con tale interpretazione), ma anche alla luce dei principi gradatamente enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, dai quali emerge che tra i poteri del giudice dell’esecuzione – fondati che siano su espresse disposizioni normative, su applicazioni analogiche di tali disposizioni ovvero su un’analogia iuris che muova dal principio generale del necessario adeguamento del titolo esecutivo a fatti sopravvenuti al giudicato stesso – rientra il potere di effettuare ogni valutazione conseguente alla rideterminazione della pena irrogata nella sentenza irrevocabile, a sua volta imposta dalle disposizioni di legge di volta in volta rilevanti. In simili ipotesi, il giudizio di esecuzione è chiamato a ospitare un «frammento di cognizione» (sentenza n. 183 del 2013, punto 6 del Considerato in diritto), sulla base del materiale raccolto in precedenza o – eventualmente – delle nuove evidenze necessarie a compiere le valutazioni in parola, sì da adeguare le statuizioni relative alla pena nel loro complesso alla mutata situazione sopravvenuta al giudicato, e alla quale il giudicato stesso deve essere conformato.
È pur vero tuttavia, per i giudici di legittimità costituzionale, che, nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, almeno due pronunce della Corte di Cassazione hanno escluso il potere del giudice dell’esecuzione di disporre la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna a valle della rideterminazione della pena ai sensi della disposizione censurata, reiterando sostanzialmente l’argomento della natura eccezionale dei poteri d’intervento sul giudicato del giudice dell’esecuzione (Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenze 26 marzo-17 luglio 2024, n. 28917 e 9 luglio-15 ottobre 2024, n. 37899).
Ebbene, per la Consulta, sebbene non si possa ritenere che due sole pronunce – rese in un brevissimo arco temporale – costituiscano già diritto vivente idoneo a essere assunto come oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, non può che prendersi atto della circostanza che, allo stato, la Corte di Cassazione ha ritenuto di non poter pervenire ad un’interpretazione costituzionalmente conforme, nel senso appena indicato, della disposizione censurata.
In considerazione delle esigenze di certezza giuridica, che sono particolarmente acute nella materia processuale, dunque, per la Corte, appariva opportuno intervenire, a questo punto della disamina, nel senso sollecitato dal rimettente, ossia: assicurare il rispetto dei principi costituzionali in gioco attraverso una pronuncia di accoglimento additiva (sentenze n. 179 del 2024, punto 7 del Considerato in diritto, e n. 45 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto), fermo restando che, sempre per la Consulta, tale intervento poteva essere effettuato semplicemente mutuando la disciplina di cui all’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., che espressamente prevede il potere del giudice dell’esecuzione di concedere altresì la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
In questa ipotesi, il giudice dell’esecuzione (che peraltro coinciderà, nella normalità dei casi, con il GUP che ha già valutato gli atti ai fini della pronuncia della sentenza di condanna, non impugnata nei termini di legge) dovrà dunque valutare, secondo quanto già chiarito dalle Sezioni unite nella sentenza n. 4687 del 2006 poc’anzi estesamente richiamata, la sussistenza delle condizioni previste rispettivamente dagli artt. 163 e 164, nonché dall’art. 175 cod. pen.: e segnatamente – quanto alla sospensione condizionale – se sussista un pericolo di commissione di nuovi reati, alla luce degli elementi probatori già esaminati nel giudizio di cognizione, e di quelli ulteriori che dovessero essere nel frattempo emersi.
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiaravano l’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici e, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.

3. Conclusioni


Fermo restando che, come è noto, per un verso, l’art. 442, co. 2-bis, cod. proc. pen. prevede che, quando “né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”, per altro verso, l’art. 676, co. 3-bis, cod. proc. pen. dispone che il “giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis”, cod. proc. pen., con la decisione qui in esame, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di siffatti precetti normativi nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione possa concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
Di conseguenza, alla luce di quanto statuito in tale pronuncia, il giudice dell’esecuzione può ora concedere la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, anche quando il giudice della cognizione non lo avesse fatto, perché la pena inizialmente stabilita superava i limiti di legge che consentono la concessione di codesti benefici.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, poiché garantisce la possibilità di conseguire benefici di legge in precedenza preclusi dal tenore letterale delle disposizioni legislative summenzionate, non può che essere che positivo.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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