Contenzioso bancario: onere della prova, consulenza tecnica d’ufficio e prassi giudiziarie

La materia del contenzioso bancario è, probabilmente, quella nella quale più spesso è intervenuta la Suprema Corte negli ultimi anni.

La materia del contenzioso bancario è, probabilmente, quella nella quale più spesso è intervenuta la Suprema Corte negli ultimi anni, con interventi interpretativi che hanno inciso profondamente sui processi in corso ed hanno, in qualche modo, determinato un effetto moltiplicatore del contenzioso, anche a causa di una giurisprudenza assai mutevole. Per approfondimenti su questi temi, consigliamo il volume La difesa del cliente dalle pratiche bancarie scorrette, che ha come obiettivo l’esame delle forme di difesa del cliente in presenza di pratiche scorrette poste a vario titolo da parte delle banche.

Indice

1. Il contenzioso bancario e la mutevolezza della Giurisprudenza di legittimità


Gli stessi interventi delle Sezioni Unite civili non sono stati sufficienti a dare alla materia una interpretazione organicità e, soprattutto, continuità interpretativa.
Pensiamo, ad esempio, a quella Giurisprudenza di legittimità che, dal 2007[1] e, ancor di più dal 2010[2], ha introdotto nel panorama giudiziario il principio del c.d. “saldo zero”, ossia la sanzione dell’azzeramento del saldo iniziale del primo estratto conto tempestivamente prodotto, quando la Banca, in un processo che la vede come parte attrice (sostanziale), non si sia offerta di dimostrare l’entità del proprio credito mediante la produzione completa degli estratti conto storici.
Tale impostazione, pur astrattamente condivisibile, è stata applicata indiscriminatamente anche oltre i suoi presupposti, che riguardano il corretto adempimento dell’onere probatorio.
E, infatti, nella indiscriminata applicazione del principio, si è trascurato di considerare che – per restare in tema di onere probatorio – il diritto positivo prevede norme specifiche che quell’onere probatorio disciplinano e limitano e che, sovente, anche i contratti bancari prevedono una disciplina probatoria pattizia, anche in deroga al diritto positivo.
È il caso dell’115 c.p.c. secondo il quale, in mancanza di specifica contestazione della scorretta determinazione del primo saldo disponibile, la Banca neppure sarebbe tenuta a fornire detta prova, riguardante un fatto storico non contestato.
È, ancora, il caso dell’art. 1832 del Codice Civile, secondo il quale “L’estratto conto trasmesso da un correntista all’altro s’intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale, o altrimenti nel termine che può ritenersi congruo secondo le circostanze”.
Se è pur vero che la stessa norma dispone che “L’approvazione del conto non preclude il diritto di impugnarlo per errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni” è, del pari, vero che il comma in esame dispone che “L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di ricezione, dell’estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura, che deve essere spedito per mezzo di raccomandata”, come confermato dall’art. 119 T.U. n. 385 del 1993, secondo il quale “In mancanza di opposizione scritta da parte del cliente, gli estratti si intendono approvati trascorsi sessanta giorni dal ricevimento”.
L’art. 2698 c.c., infine, ammette – nell’ambito del riconoscimento dell’autonomia privata – che le parti possano disciplinare autonomamente l’onere della prova, con il solo limite costituito dalla indisponibilità del diritto e dall’effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio dello stesso.
Orbene, le norme in esame, pur attenendo alla disciplina del contratto tipico, hanno chiare e dirette implicazioni anche sul connesso onere probatorio giacché, interpretandole correttamente, non può che discenderne la conseguenza che la banca, una volta che sia spirato il termine di impugnazione dell’estratto conto o, in qualsiasi modo, allorquando il correntista abbia espressamente riconosciuto la posizione debitoria (con l’effetto previsto dall’art. 1988 c.c.) non avrebbe più alcun obbligo di provare la corretta formazione del saldo iniziale.
Tale evidente distonia ha fatto si che, da taluni, l’azzeramento del saldo iniziale di un estratto conto incompleto, sia stato accostato alla figura della “sanzione civile indiretta”, qualificata come misura afflittiva di carattere patrimoniale prevista dalla legge ed applicata dall’autorità giudiziaria[3].
In tal senso le sanzioni civili indirette, così come le pene private, presuppongono l’esistenza di una norma, la sua violazione ma, soprattutto, presuppongono l’iniziativa dei privati in favore dei quali il potere auto-organizzativo della società è stato previsto.
Nel caso di specie, però, l’ipotizzata l’introduzione nel patrimonio giuridico di una “sanzione civile” indiretta che preveda l’azzeramento della prima annotazione contabile di un estratto conto solo parziale, non solo non è prevista da alcuna norma ma si porrebbe in aperto contrasto con le citate norme che regolano il contratto di conto corrente bancario, interpretate secondo i canoni indicati dall’art. 12 delle preleggi e nel rispetto del principio di legalità.
Neppure il fenomeno sarebbe esente da censura di incostituzionalità atteso che con la sua concreta applicazione si sarebbe introdotta una disparità nei casi in cui tale azzeramento verrebbe escluso se la prima annotazione disponibile fosse “a credito” del cliente così come nei casi in cui l’azione sia stata introdotta dallo stesso.
Tali criticità, se possibile, sono acuite dai concreti provvedimenti istruttori adottati da alcuni Tribunali in sede di ammissione delle consulenze tecniche contabili. Per approfondimenti su questi temi, consigliamo il volume La difesa del cliente dalle pratiche bancarie scorrette, che ha come obiettivo l’esame delle forme di difesa del cliente in presenza di pratiche scorrette poste a vario titolo da parte delle banche.

FORMATO CARTACEO

La difesa del cliente dalle pratiche bancarie scorrette

Il volume ha come obiettivo l’esame delle forme di difesa del cliente in presenza di pratiche scorrette poste a vario titolo da parte delle banche.Al fine di fornire una panoramica completa sul credito in generale, l’opera si articola con un’introduzione che descrive la nozione del credito con la gestione bancaria e le seguenti due parti distinte:- Prima Parte: in cui sono stati trattati gli aspetti giuridici relativi al rapporto bancario e finanziario, alle aziende di credito e alle varie tipologie dei contratti bancari e finanziari;- Seconda Parte in cui sono stati esaminati gli strumenti di risoluzione delle controversie bancarie e finanziarie, con la valutazione delle pratiche commerciali scorrette.Particolare attenzione è stata posta alle procedure stragiudiziali di risoluzione delle controversie (ABF e ACF), nonché a quelle di vigilanza delle operazioni di investimento.Renzo PravisanoDottore commercialista, Tributarista, Revisore legale, Maestro del Lavoro e Cavaliere della Repubblica. Giudice Tributario presso la Commissione Tributaria Regionale del Veneto (1996-2015) e la Commissione Tributaria Centrale – Sezione Veneta (2010-2013). Esperto in diritto e pratica negli ambiti contrattuali, contabili, fiscali, doganali e del commercio internazionale. Docente a chiamata in diritto tributario e doganale presso la Scuola Superiore Economia e Finanze – Roma, nonché in corsi finanziati dal Fondo Sociale Europeo presso le CCIAA.

Renzo Pravisano | Maggioli Editore 2021

2. La funzione ed i limiti della CTU


I più recenti arresti del Supremo Collegio hanno confermato il carattere necessario della CTU tecnica in materia di contenzioso bancario (cfr. Cass. Civ., Ord. 8/2/2019, n. 3717, confermative delle precedenti Cass. n. 2761/2015, Cass. Sez. Unite, n. 30175/2011 e Cass. n. 6155/2009).
I Giudici di merito[4], pur ribadendo che «La consulenza tecnica d’ufficio (c.d. CTU), … non è un mezzo istruttorio in senso stretto ma rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, cui è rimessa la facoltà di valutarne la necessità o l’opportunità ai fini della decisione, nonché l’ambito di estensione» l’hanno definita “fondamentale nel contenzioso bancario”.
La stessa Corte di Cassazione è tornata sulla questione con l’ordinanza n. 3717 dell’ 08 Febbraio 2019 ed ancora una volta si è pronunciata “sull’obbligo, gravante sui giudici di merito, di disporre consulenza tecnica di ufficio  quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche” laddove correntisti e risparmiatori portino (in maniera specifica) all’attenzione dell’A.G. presunti abusi subiti dalle banche, configurando la CTU come un indispensabile supporto probatorio, irrinunciabile in sede giudiziale.
In tal modo, però, diviene sempre più sfumato il confine fra consulenza “deducente” e consulenza “percipiente”.
Ricordiamo, in estrema sintesi, che si considera “deducente” la consulenza in base alla quale il giudice affida al consulente il semplice incarico di valutare fatti già accertati o dati preesistenti (in tal caso la sua attività non può produrre prova) mentre è “percipiente” quando al consulente tecnico d’ufficio è conferito l’incarico dì accertare fatti non altrimenti accertabili se non con l’impiego di tecniche o conoscenze particolari.
In tale ultimo caso il consulente è percipiente, la consulenza diventa una fonte diretta di prova ed è utilizzabile dal Giudice, al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita al processo.
Benché la Giurisprudenza di legittimità tenti di rassicurare sui limiti probatori della CTU, nella pratica quotidiana assistiamo, sempre più frequentemente, ad un appiattimento del Giudice rispetto alle conclusioni della consulenza tecnica che, quindi, diviene essa stessa prova, alterando le garanzie del giusto processo civile, fondato sul contraddittorio pieno e sull’adempimento dell’onere della prova.
In tal modo, si moltiplicano le Sentenza che, nella parte motiva, pongono a fondamento della decisione la sola relazione di CTU, l’iter logico seguito dal consulente ed i passaggi della relazione, senza che il Giudice avverta la necessità di prendere posizione sulle specifiche questioni sottoposte al suo giudizio.
In tal modo, in sostanza, il Giudice delega al Consulente l’esame e la valutazione delle questioni di merito oggetto di causa (anatocismo, tasso di interesse, usura, saldo zero), sgravandosi dall’onere di adeguata motivazione.

3. La predisposizione di “quesiti standard” da parte dei Tribunali


Ad aggravare questo “vulnus” alla funzione giudiziaria si aggiunge la tendenza della maggior parte dei Tribunali alla standardizzazione dei quesiti peritali.
Essa, da un lato comporta un evidente risparmio di tempo e risorse per il Giudice, dall’altro finisce per infliggere il colpo di grazia ai quattro principi cardine del processo civile: il principio dispositivo, il principio di imparzialità, il principio del contraddittorio e quello del giusto processo oltre che a quello dell’onere della prova.
Nella prassi, la standardizzazione del quesito peritale in tema di contenzioso bancario dovrebbe rispondere all’incremento del contenzioso ed alla necessità di un continuo approfondimento della materia, anche in considerazione della complessità tecnica e giuridica delle questioni trattate e degli interventi normativi di settore che si sono succeduti nel tempo.
Cosi che, trovandosi il Giudice nella necessità di formulare un quesito l’ufficio, gli mette a disposizione un quesito standard, ritenuto completo, logicamente coerente ed in grado di fornire risposte di concreta applicabilità pratica (che presupporrebbe, però, la conoscenza del fascicolo di causa, non scontata).
Nelle intenzioni, certamente buone, dei Tribunali, l’opportunità di adottare un quesito uniforme e condiviso avrebbe dovuto essere destinata a riverberare effetti postivi anche sul contenzioso, contribuendo a creare maggior uniformità di approccio e di metodo nella gestione e nella decisione delle cause, ma anche ad orientare l’utente in modo consapevole nelle proprie determinazioni in ordine alle scelte processuali da intraprendere.

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4. L’impatto dell’adozione di “quesiti standard” sui principi generali del processo civile


Senonché, l’indiscriminata adozione di un quesito “standard” – che costituisce per il consulente la bussola del suo operato – comporta non raramente una tangibile violazione di quei principi generali del giusto processo che dovrebbero costituire, a loro volta, la bussola dell’operato del Giudice.
Se, infatti, l’art. 177 c.p.c. dispone che le ordinanze sono sempre revocabili e non possono pregiudicare l’esito della lite, appare evidente che l’ordinanza con la quale il Giudice ammette la CTU e, soprattutto, ne determina il quesito peritale, può assumere quel carattere sostanzialmente “decisorio” al quale la parte che si assuma danneggiata dal quesito può opporre una espressa riserva di appello[5].
Altro filone Giurisprudenziale ritiene che l’ordinanza con cui il Giudice dispone la consulenza tecnica abbia sempre natura di ordinanza istruttoria, anche se presuppone la risoluzione di una questione di merito.
È, tuttavia, indubbio che la formulazione del quesito peritale che, in modo standardizzato, preveda l’eliminazione del primo saldo disponibile equivale a rendere manifesta, almeno su tale aspetto, la già raggiunta decisione del Giudice, assunta – non di rado – senza che la parte interessata abbia neppure contestato il primo saldo (violando il principio di corrispondenza fra richiesto e pronunciato).
Non è raro, infatti, il caso in cui il cliente assuma, ad esempio, una mera nullità del contratto monofirma o l’illegittima applicazione della modifica contrattuale, ex art. 118 TUB, senza contestare il primo saldo disponibile.
In tali casi, laddove il Giudice ammettesse la richiesta consulenza e sottoponesse al Consulente il quesito standard, con l’azzeramento del saldo iniziale, egli – evidentemente – violerebbe i principi fondamentali sopra esaminati, motivo per il quale il difensore della banca – a tutela degli interessi della parte assistita – sarebbe legittimato a formulare una espressa “riserva di appello”, evidenziando i profili di nullità della Consulenza, disposta su questioni mai dedotte dalle parti.
A tal proposito, gli strumenti di contestazione della c.t.u. nella disponibilità delle parti, sono riconducibili, sostanzialmente, a due tipologie:  
a- l’eccezione di nullità della relazione;  
b- la proposizione di “note critiche”, volte a sollecitare il Giudice alla modifica/integrazione del quesito ed alla rinnovazione della consulenza. 
Le nullità, come è noto, possono derivare da cause sia di ordine formale che di ordine sostanziale che si riducono tutte a un unico aspetto: la violazione del principio del contraddittorio (così Cass. 7 luglio 2001, n. 9231)[6]
La Giurisprudenza distingue le ipotesi di nullità relativa (che vengono sanate se non eccepite nel primo atto utile, successivo alla verificata nullità) e quelle di nullità assoluta, non sanabili ed eccepibili (o rilevabili d’ufficio) anche in sede di precisazione delle conclusioni o, addirittura, in appello.
A tal proposito, Cassazione SS.UU. civili, Sentenza n. 5624/2022 ha enunciato il seguente principio di diritto: “Le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene di carattere non tecnico-giuridico, che possono essere formulate per la prima volta nella comparsa conclusionale e anche in appello, purché non introducano nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove ma si riferiscano alla attendibilità e alla valutazione delle risultanze della c.t.u. e siano volte a sollecitare il potere valutativo del Giudice in relazione a tale mezzo istruttorio”.
“In tema di consulenza tecnica d’ufficio, il secondo termine previsto dell’art. 195 c.p.c., u.c., così come modificato dalla L. n. 69 del 2009, ovvero l’analogo termine che, nei procedimenti cui non si applica, ratione temporis, il novellato art. 195 c.p.c., il giudice, sulla base dei suoi generali poteri di organizzazione e direzione del processo ex art. 175 c.p.c., abbia concesso alle parti ha natura ordinatoria e funzione acceleratoria e svolge ed esaurisce la sua funzione nel subprocedimento che si conclude con il deposito della relazione da parte dell’ausiliare; pertanto la mancata prospettazione al consulente tecnico di osservazioni e rilievi critici non preclude alla parte di sollevare tali osservazioni e rilievi, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., nel successivo corso del giudizio e, quindi, anche in comparsa conclusionale o in appello”.
“Qualora le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio, non integranti eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., siano stati proposti oltre i termini concessi all’uopo alle parti e, quindi, anche per la prima volta in comparsa conclusionale o in appello, il giudice può valutare, alla luce delle specifiche circostanze del caso, se tale comportamento sia stato o meno contrario al dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., e, in caso di esito positivo di tale valutazione, trattandosi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost. e, in applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 1, u.p., può tenerne conto nella regolamentazione delle spese di lite”.
È, dunque, fondamentale, al fine di evitare che il processo venga vanificato e si concluda con una Sentenza nulla, che le parti, i difensori, il Giudice ed il consulente collaborino lealmente, collaborazione che – con riferimento ai difensori ed ai consulenti di parte – deve realizzarsi già in sede di note critiche alla bozza di CT.
In tale sede, i consulenti delle parti, laddove ritengano abnorme il quesito peritale e ne rilevino il contrasto con i principi fondamentali del processo, ne devono fare espressa menzione ed anche i difensori devono reiterare tale contestazione, fin dal primo atto successivo all’emissione dell’ordinanza ammissiva.
Su tali aspetti, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza del 1° febbraio 2022 n. 3086 è tornata ad occuparsi dei poteri del CTU allorquando egli travalichi l’ambito delle indagini assegnatogli dal Giudice.
Non si è mai affrontato, però, il caso in cui la violazione non sia del consulente ma tragga origine proprio dal quesito, erroneamente predisposto dal Giudice.
In ogni caso, nel precedente esaminato – e per quanto riguarda il regime delle nullità – la Corte ha affermato che ricorre: la nullità relativa, nel caso in cui il consulente accerti, in violazione del principio del contraddittorio, fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni; la nullità assoluta, nel caso in cui il consulente accerti fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni, per violazione del principio della domanda e del principio dispositivo
Secondo la Corte, tale nullità si riverbererebbe sulla sentenza che recepisse le valutazioni esorbitanti del CTU, in quanto – a sua volta – affetta dal vizio di ultrapetizione.
È, quindi, necessario verificare quando la consulenza (e la Sentenza che su di essa si basi) vìoli il principio della domanda e il principio dispositivo – limiti insormontabili anche per il giudice –  e sia, per ciò, affetta da nullità relativa (e, dunque, sanabile se non eccepita nella prima difesa utile) o assoluta (e, quindi, non sanabile per acquiescenza delle parti).
La tesi più convincente è quella secondo la quale la violazione per ultrapetizione comporti sempre nullità assoluta, come tale rilevabile d’ufficio o azionabile quale motivo di impugnazione (ex art. 161 c.p.c.).[7]
Così, alla luce del principio della domanda, dovrebbe ritenersi che il campo di indagine entro cui opera il Giudice (ed il CTU) non possa mai estendersi ai cosiddetti “fatti avventizi” “ovvero ai fatti costitutivi della domanda e, oppostamente, ai fatti modificativi o estintivi che non siano stati oggetto dell’attività deduttiva delle parti.
In tal caso sia il Giudice che il Consulente sono soggetti al principio ne eat iudex ultra petita partium (il giudice non deve andare oltre le richieste delle parti) e trovano, in esso, un limite invalicabile.
In tal modo l’utilizzo di un quesito peritale standardizzato, formulato per motivi di contenimento dei tempi processuali, verrebbe – al contrario – a vanificare lo scopo del contenimento dei tempi processuali, determinando una nullità processuale destinata, inesorabilmente, a riverberarsi sul principio di ragionevole durata del processo. 

5. Conclusioni


L’istituto della Consulenza tecnica d’ufficio in materia bancaria assume aspetti di particolare delicatezza ed un suo uso improprio pone a rischio non solo il processo ma anche la corretta funzione giurisdizionale.
Il corretto uso della consulenza non può prescindere dall’esame della particolare fattispecie e, in particolare, delle deduzioni delle parti e del corretto adempimento degli oneri probatori.
Esso, dunque, mal si concilia con la prassi di standardizzazione del quesito peritale che, sovente, comporta non solo l’obliterazione di precise norme di diritto positivo ma, anche, dei fondamentali principi generali del processo civile.
Ciò impone a tutti gli attori processuali (Giudice, Avvocati, consulente d’ufficio e consulenti di parte) una generale prudenza ed attenzione nonché una profonda sensibilità giuridica, finalizzata alla effettiva funzione di giustizia del caso concreto alla quale è chiamato il Giudice.
In tal senso, non appare neppure condivisibile la prassi del Consulente d’ufficio di farsi scudo del quesito peritale giacché egli, laddove percepisca – dall’esame degli atti di causa e dei documenti disponibili – una situazione di non corrispondenza fra le domande delle parti, la documentazione prodotta ed il quesito conferitogli dal Giudice, è destinatario di un obbligo di attivazione, ai sensi dell’art. 92 disp. att.ne c.p.c.
È suo preciso obbligo, infatti, segnalare alle Parti la ricorrenza di una situazione documentale che renda impossibile una puntuale e attendibile ricostruzione contabile del rapporto e del saldo finale rettificato o di informare il Giudice quando, sulla base di una criticità accertata in sede peritale, reputi necessario che lo stesso assuma eventuali provvedimenti in ordine alla prosecuzione della CTU o all’indicazione di criteri alternativi da adottare per gli accertamenti[8].
Laddove, pur nella consapevolezza dei vizi del quesito, scelga di proseguire, comunque, nell’accertamento peritale, potrebbe, addirittura, rendersi responsabile di un illecito.
Sul consulente d’ufficio, infatti, può gravare la responsabilità civile, con il conseguente obbligo risarcitorio per i danni arrecati alle parti, quando tali errori siano il prodotto della propria condotta, regolata dall’art. 64 cod. proc. civ. e dagli artt. 1218, 1176, 2043 e segg. cod. civ.
L’ art. 64, co. 2 c.p.c., infatti, prescrive che il consulente sia tenuto in ogni caso a risarcire i danni causati alle parti nell’esecuzione dell’incarico ricevuto.
Tale responsabilità – stando alla lettera dell’art. 64 co. 2 c.p.c. – sembra sussistere anche allorquando il danno sia stato determinato da colpa lieve, prevista non solo dall’art. 2043 c.c., ma anche dall’art. 64 secondo comma c.p.c. che stabilisce, appunto, che mentre la responsabilità penale è subordinata alla ricorrenza di un caso di “colpa grave” “il consulente tecnico è in ogni caso tenuto a risarcire i danni causati alle parti dall’esecuzione dell’incarico ricevuto”.
E, a tal fine, sulla base della disciplina specifica dei doveri del consulente, sarebbe assai difficile sostenere la tesi che egli sia esente da responsabilità, per essersi limitato a dare risposta ad un quesito (erroneo) del Giudice, quando egli, proprio per effetto delle sue specifiche competenze tecniche, sarebbe certamente tenuto (dovendone rispondere, in difetto) a segnalare al Giudice le incongruità del quesito o le palesi incompatibilità fra esso e gli atti di causa.

Note


[1] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10692 del 10/05/2007
[2] Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23974 del 25/11/2010
[3] Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civile indirette: premesse generali, in Contr. Impr., 1987, p. 531 ss.
[4] Trib. Latina, sez. I civile, 15/5/2021: Trib. Parma, 7/2/2019
[5] Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma comporta che il provvedimento adottato dal Giudice sia sottoposto alla disciplina prevista dal legislatore per quello che si ritiene essere il suo contenuto effettivo. Pertanto, quando il provvedimento ha contenuto decisorio, esso è sostanzialmente una sentenza e, come tale, è impugnabile ed idoneo a passare in giudicato.
[6] Le più frequenti cause di nullità, in tutto o in parte, della relazione peritale sono rappresentate:  – dall’omesso invito alle parti dell’avviso contenente la data e il luogo di inizio delle operazioni (Cass., sez. II, 28 novembre 2001, n. 15133);  – dalla valutazione, per rispondere ai quesiti, di documenti non ritualmente prodotti in causa (Cass., sez. lav., 19 agosto 2002 n. 12231);  – dall’espletamento di indagini e, in  generale, di compiti esorbitanti dai quesiti posti dal Giudice, ovvero non consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente (Cass., sez. II, 26 ottobre 1995, n. 1113; Cass., sez. lav., 29 maggio 1998, n. 5345; Cass., sez. III, 10 maggio 2001, n. 6502). 
[7] Cass. 31886/2019 secondo la quale lo svolgimento di indagini peritali al di fuori del thema decidendum cagiona la nullità assoluta della perizia, rilevabile d’ufficio e non sanabile con l’acquiescenza delle parti. Infatti, «le norme che stabiliscono preclusioni, assertive ed istruttorie, nel processo civile sono preordinate alla tutela di interessi generali, non derogabili dalle parti»
[8] Se, durante le indagini che il consulente tecnico compie da sé solo, sorgono questioni sui suoi poteri o sui limiti dell’incarico conferitogli, il consulente deve informarne il giudice, salvo che la parte interessata vi provveda con ricorso.

Arturo Iannelli

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