Contratti finanziari e nullità selettiva di protezione: le Sezioni Unite “propongono” la buona fede come parametro di riequilibrio contrattuale

La questione in esame

Con l’attesa sentenza n. 28314, resa in data 4 novembre 2019, le Sezioni Unite della Suprema Corte prendono posizione in merito alla dibattuta questione dell’esercizio selettivo, da parte dell’investitore, di un’azione di nullità.

In attesa di verificare l’eventuale seguito giurisprudenziale di tale pronuncia, è d’obbligo esaminarne il contenuto e la portata, atteso che la stessa concerne questioni di significativo rilievo applicativo.

Per poter inquadrare correttamente il decisum, giova anzitutto premettere alcune considerazioni in merito alla vicenda che ha dato origine alla controversia, sia pure senza soffermarsi su questioni non rilevanti ai fini della presente trattazione.

Nel caso di specie, un investitore aveva agito, nel primo grado di giudizio, lamentando la nullità del contratto quadro stipulato con un istituto bancario, per assenza della forma scritta richiesta ad substantiam dall’art. 23 del Testo Unico della Finanza (D. Lgs. 58/ 1998, breviter “TUF”)[1]. Sulla scorta di tale premessa, l’investitore aveva richiesto al Giudice di dichiarare la nullità di due “contratti d’investimento” aventi ad oggetto l’acquisto di obbligazioni argentine[2], con condanna della banca convenuta alle relative restituzioni pecuniarie. A fronte di tale pretesa, l’istituto bancario aveva formulato, tra l’altro, una difesa volta a far valere la circostanza che l’investitore aveva incassato alcune cedole, in forza di operazioni poste in essere in esecuzione del contratto quadro.

La vicenda sostanziale e processuale in esame rendeva quindi necessario affrontare tematiche assai rilevanti per tutte le controversie aventi ad oggetto il caso in cui un investitore, contestando la validità del contratto quadro, lamenta la nullità di talune operazioni finanziarie poste in essere nel corso del rapporto contrattuale con l’intermediario (formulando contestazioni “selettive” verso tali operazioni), senza invece eccepire alcunchè in merito agli altri ordini di acquisto posti in essere nel corso del rapporto, in virtù dei quali abbia ottenuto dei proventi. Una simile ipotesi si verifica, com’è intuibile, ove coesistano degli investimenti che hanno avuto esito negativo, ed altri che invece si sono rivelati positivi per il cliente.

Come rilevato anche nella pronuncia in esame, nel corso del tempo si era venuto a formare un contrasto interpretativo sul punto, il che ha determinato la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

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La soluzione adottata dalla Suprema Corte

Dopo avere effettuato una ricostruzione sistematica in merito a varie ipotesi di nullità di protezione[3], e al regime giuridico applicabile (anche alla luce della giurisprudenza di legittimità), il Collegio dichiara che “il tratto unificante del regime giuridico delle [predette] nullità di protezione [è] la legittimazione esclusiva del cliente ad agire in giudizio. Le conseguenze sostanziali di questo regime peculiare di legittimazione sono espresse nella regola normativa: La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore”, ed è rilevabile anche d’ufficio da parte del giudice, nell’interesse esclusivo del cliente[4].

Posta tale premessa, il Collegio osserva poi che l’uso selettivo del rilievo della nullità del contratto quadro “non contrasta, in via generale, con lo statuto normativo delle nullità di protezione ma la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede”, in modo tale da riequilibrare la posizione delle parti.

A tal fine, le Sezioni Unite ritengono necessario un esame complessivo degli investimenti eseguiti nel corso del rapporto contrattuale. Ove si accolga tale impostazione, da un lato vanno quindi considerati gli acquisti in relazione ai quali il cliente ha proposto domanda di nullità (lamentando il vizio di forma del contratto quadro); dall’altro, occorre prendere in esame gli investimenti esclusi dalla domanda. Tale comparazione è finalizzata a consentire una verifica sull’esistenza di un pregiudizio (oppure di un vantaggio) del cliente, alla luce della complessiva attività posta in essere.

Secondo il Collegio, infatti, a fronte di un’azione finalizzata a far valere la nullità di alcuni ordini di acquisto (eseguiti nell’alveo di un rapporto di investimento comprendente anche ulteriori operazioni finanziarie), “l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini.

In tal caso, l’eccezione è opponibile dall’intermediario “nei limiti del petitum azionato, come conseguenza dell’azione di nullità, ove gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti dall’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore.

Applicando tali principi, potrebbero quindi verificarsi due scenari differenti, a seconda degli importi in gioco:

  • ove il petitum della domanda proposta dall’investitore nei confronti dell’intermediario sia inferiore rispetto ai vantaggi conseguiti (o al limite, di uguale ammontare rispetto a tali vantaggi), l’effetto impeditivo dell’azione restitutoria promossa dall’investitore sarà integrale;
  • al contrario, ove gli investimenti che esulano dalla domanda di nullità abbiano prodotto risultati positivi per il cliente, ma di entità inferiore rispetto al pregiudizio lamentato, l’effetto impeditivo dell’eccezione sarà soltanto parziale.

Leggi anche:”La nullità di protezione nel diritto privato”

Il principio di diritto

Sulla scorta degli assunti sopra rapidamente illustrati, la Corte perviene alla conclusione secondo cui “[l]a nullità per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23, comma 3, del d.lgs n. 58 del 1998, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro”.

Ad ulteriore chiarimento, le Sezioni Unite aggiungono che l’eccezione di buona fede opera “su un piano diverso da quello dell’estensione degli effetti della nullità dichiarata”; pertanto, la stessa “non è configurabile come eccezione in senso stretto non agendo sui fatti costitutivi dell’azione (di nullità) dalla quale scaturiscono gli effetti restitutori, ma sulle modalità di esercizio dei poteri endocontrattuali delle parti. Deve essere, tuttavia, oggetto di specifica allegazione.

Rimane a questo punto da verificare quali saranno gli sviluppi sul punto e se la sentenza in esame troverà seguito presso la giurisprudenza e la dottrina[5]. Di certo, la pronuncia delle Sezioni Unite è senza dubbio meritevole di riflessioni e approfondimenti, soprattutto in relazione al rilievo riconosciuto alla buona fede quale parametro di riequilibrio contrattuale.

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Note

[1] Si riportano i primi tre commi dell’art. 23 TUF nella formulazione originaria, applicabile ratione temporis:

1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo.

  1. È nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto.
  2. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente.”.

[2] Come noto, il rapporto di investimento intercorrente tra l’intermediario ed il cliente si caratterizza per una “conformazione bifasica dell’impegno negoziale”, posto che:

  • in un primo momento, le parti sottoscrivono un contratto quadro, che come già rammentato deve essere redatto per iscritto, ai sensi dell’art. 23 TUF;
  • successivamente, il cliente potrà trasmettere all’intermediario dei singoli ordini di acquisto, affinché quest’ultimo provveda ad eseguirli. In linea generale, tali ordini possono essere conferiti dal cliente senza che rivestano necessariamente forma scritta, salvo diversa pattuizione contrattuale intercorsa tra le parti.

[3] La sentenza esamina, tra l’altro, gli artt. 117 e 127 del Testo Unico Bancario (D. Lgs. 385/ 1993) ove si richiede la forma scritta sacramentale per i contratti bancari, e l’art. 36, c. 3, del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/ 2005) in punto di clausole vessatorie.

[4] La Corte richiama a tale riguardo alcune proprie precedenti pronunce, nell’intento di dare continuità al seguente principio di diritto: “La rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) – che trascendono quelli del singolo”.

[5] Per un primo commento critico sul punto, si veda G. Guizzi, Le sezioni Unite e le “nullità selettive” nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. Qualche notazione problematica, in www.dirittobancario.it.

Sentenza collegata

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Avv. Dimitri Marcolongo

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