La disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego è stata oggetto di numerose riforme caratterizzate da incoerenze e contraddizioni nel tentativo di uniformare la normativa alle nuove esigenze del mondo del lavoro, dominate dalla flessibilità in entrata
La legge n. 80/2006, in particolare, rappresenta il punto di rottura del processo di equiparazione tra lavoro pubblico e privato per quanto concerne il contratto a termine, introducendo il comma 1-bis all’art. 36 d.lgs. n. 165/2001, che subordina la possibilità per le amministrazioni di ricorrere alle forme di lavoro flessibile «solo per esigenze temporanee ed eccezionali» e con ciò creando un requisito diverso da quello di cui all’art. 1, d.lgs. n. 368/2001.
Il legislatore mantiene inalterata la disposizione, contenuta all’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, che prevede il divieto di conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato in conseguenza della violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori e sancisce il diritto del lavoratore ad ottenere il risarcimento del danno.
Con la Direttiva 1999/70/CE, applicabile anche al settore pubblico, vengono sanciti due principi fondamentali: il principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato e la prevenzione dell’abuso derivante dalla reiterazione del lavoro a termine, riaffermando l’eccezionalità del contratto a termine rispetto alla regola, ossia il lavoro a tempo indeterminato.
Con specifico riferimento al lavoro alle dipendenze della P.A., la sentenza Adeneler (C-212/04) ha ritenuto che l’accordo quadro europeo allegato alla direttiva 1999/70/CE osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare “fabbisogni permanenti e durevoli” del datore di lavoro e che devono essere considerati abusivi (punto 105, dispositivo 3). Spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte a tale situazione, misure non soltanto proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro (punto 95).
Come la Corte di Giustizia Europea ha già dichiarato in numerose occasioni, il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro. Infatti, un utilizzo siffatto è direttamente in contrasto con la premessa sulla quale si fonda tale accordo quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro (par100).
Anche la Corte di Cassazione (sentenza n. 27363/14) ha ritenuto l’applicabilità dell’art.5, comma 4 bis, al precariato pubblico, con costituibilità di contratto a tempo indeterminato. In particolare, aderendo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (sentenza “Carratù” e ordinanza “Papalia”), nonché in maniera implicita alla sentenza “Mascolo”, ha indicato sia disposizione (art. 5 comma 4 bis del d.lgl. 368/01) che sanzione (costituzione del contratto).
Con tale sentenza la Cassazione conferma, riferendole a tutto il pubblico impiego, le parole della Corte europea sull’applicabilità del “tetto” dei trentasei mesi ex art. 5, comma 4-bis del D.Lgs. 368/2001, oltre il quale scatta l’immissione “in ruolo” senza concorso specifico.
Sul tema sono intervenute anche le Sezioni Unite chiarendo che “spetta al giudice nazionale valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale miranti a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato in ordine di successione siano conformi a questi principi, rendendo effettiva la conversione dei contratti di lavoro da determinato ad indeterminato di tutti i rapporti a temine successivi con lo stesso datore di lavoro pubblico, dopo trentasei mesi anche non continuativi di servizio precario, in applicazione dell’art. 5, comma 4 bis, del d.lgs n. 368/2001” (Cass. S.U. 29/3/2015 n. 4685).
In aderenza alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria, alcuni giudici nazionali (Trib. Trani 15 marzo 2012, n. 1545; Trib. Trani 18 giugno 2011; Trib. Napoli 18 giugno 2011; Trib. Napoli 16 giugno 2011; Trib. Livorno 25 gennaio 2011; Trib. Siena 13 dicembre 2010, n. 263; Trib. Livorno 26 novembre 2010; Trib. Siena 27 settembre 2010, n. 699) con specifico riferimento a fattispecie relative all’utilizzo reiterato di contratti a termine con il medesimo lavoratore, hanno ritenuto che la sola tutela risarcitoria, prevista dall’art. 36, co. 5, D.Lgs. n. 165/2001 per le ipotesi di illegittima apposizione del termine, non può essere considerata una tutela effettiva, in quanto “debole e pertanto non conforme al diritto comunitario, poiché le condizioni di applicazione nonché l’applicazione effettiva delle relative disposizioni di diritto interno ne fanno uno strumento inadeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi” (Trib. Siena 27 settembre 2010, n. 699).
Con la sentenza “Mascolo” del 26.11.2014 la Corte Europea ha disposto che la totale assenza di limiti al rinnovo dei contratti a tempo determinato non soddisfa le esigenze di cui alla clausola 5 punto 1 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CEE, costituendo perciò pratica abusiva: tale clausola “deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, che autorizzi, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili ed escludendo qualsiasi possibilità di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
Dopo la sentenza “Mascolo”, i giudici nazionali, muovendo dal principio di prevalenza del diritto comunitario, hanno disapplicato le norme interne ostative all’accordo quadro, riconoscendo la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oltre il risarcimento (Trib. Napoli, n.528-529-530 del 21.1.15 “mettendo a sistema le statuizioni delle cause Papalia e Mascolo, per la C.g.u.e. o si costituisce il rapporto di lavoro ex art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. 368/01 o, nel settore pubblico, vi è violazione del diritto eurounitario, in assenza di valida misura ostativa alla illegittima reiterazione dei rapporti di lavoro a termine con la P.A.. Non costituisce infatti idonea misura ostativa il risarcimento del danno”, cfr. Trib. Crotone sent. 116-117-118 del 2015).
Sempre in tema di personale sanitario precario, si registra il successivo intervento della Corte di Giustizia U.E (Sentenza 14 settembre 2016 – Causa C-16/15). Nello specifico, la Corte ha dichiarato che la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 1999/70/CE, deve essere interpretata nel senso che essa “osta a che una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, sia applicata dalle autorità dello Stato membro interessato in modo tale che:
- il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi, nel settore pubblico sanitario, sia considerato giustificato da «ragioni obiettive» ai sensi di tale clausola poiché detti contratti sono basati su disposizioni di legge che consentono il rinnovo per assicurare la prestazione di specifici servizi di natura temporanea, congiunturale o straordinaria, mentre, in realtà, tali esigenze sono permanenti e durature;
- non esista alcun obbligo per l’amministrazione competente di creare posti strutturali che mettano fine all’assunzione di personale con inquadramento statutario occasionale e che gli sia permesso di destinare i posti strutturali creati all’assunzione di personale «a termine», in modo tale che la situazione di precarietà dei lavoratori perduri, mentre lo Stato interessato conosce un deficit strutturale di posti per il personale di ruolo in tale settore”.
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In favore dei precari della sanità, il Ministero della Salute – in attuazione dell’art.4, comma 10, del decreto legge del 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla Legge 30 ottobre 2013 n. 125 – si è impegnato nella predisposizione di uno schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per disciplinare specifiche procedure concorsuali riservate alle professionalità del Servizio sanitario nazionale, in possesso di contratti di lavoro a tempo determinato.
La Legge di Stabilità 2016 ha previsto l’indizione di nuovi concorsi nel comparto sanità. I commi da 538 a 545 recano disposizioni in materia di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario, nonché di procedure concorsuali riservate per l’assunzione di personale precario del comparto sanità.
Nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 aprile 2016, recante “Disciplina delle procedure concorsuali riservate per l’assunzione di personale precario del comparto sanità” viene prevista la possibilità di avviare procedure concorsuali entro il 2018 riservate al personale precario degli enti del Servizio sanitario nazionale e sino al 50% delle risorse finanziare disponibili per assunzioni a tempo indeterminato.
Più recentemente, la Circolare “Madia” 3/2017, recante “indirizzi operativi in materia di valorizzazione dell’esperienza professionale del personale con contratto di lavoro flessibile e superamento del precariato”, ha chiarito – al paragrafo 3.2.8. ENTI DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE – che “I commi 1 e 2 dell’articolo 20 si applicano a tutto il personale degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale con le stesse modalità previste per il restante personale, salvo le specificità che seguono:
o per il personale medico, tecnico-professionale e infermieristico del Servizio sanitario nazionale, dirigenziale e non, continuano anche ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 543, della legge 208/2015, la cui efficacia è prorogata al 31 dicembre 2018 per l’indizione delle procedure concorsuali straordinarie, al 31 dicembre 2019 per la loro conclusione, e al 31 ottobre 2018 per la stipula di nuovi contratti di lavoro flessibile ai sensi dell’articolo 1, comma 542, della stessa legge 208/2015.
o per il suddetto personale, in quanto personale direttamente adibito allo svolgimento delle attività che rispondono all’esigenza, prescritta dalla norma, di assicurare la continuità nell’erogazione dei servizi sanitari, è consentito il ricorso anche alle procedure di cui all’articolo 20 e, per il personale tecnico-professionale e infermieristico, il requisito del periodo di tre anni di lavoro negli ultimi otto anni, previsto dall’articolo 20, commi 1 lettera c) e 2, lettera b), può essere conseguito anche presso diverse amministrazioni del Servizio sanitario nazionale.
Infine si precisa che l’art. 20 è applicabile anche agli IRCSS e agli IZS”.
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Una volta dimostrato l’utilizzo abusivo del contratto a termine, il lavoratore ha sempre diritto al risarcimento del danno, senza la necessità di dover fornire una prova rigorosa del pregiudizio subito ciò in quanto al lavoratore spetta solo la prova (anche per presunzioni) dell’abuso, mentre il danno è in re ipsa (Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 23/01/2015 n. 1260: “la nozione di danno applicabile nella specie deve essere quella di “danno comunitario”, il cui risarcimento, in conformità con i canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della P.A. di contratti a termine, è configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro”): una conferma rispetto a quanto già anticipato dall’ordinanza “Papalia” della Corte di Giustizia Europea del 12 dicembre 2013, con la quale è stato affermato che gli Stati membri non possono subordinare il risarcimento del danno del lavoratore a termine nel settore pubblico alla fornitura di una prova eccessivamente difficile.
Il lavoratore deve limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze “falsamente indicate come straordinarie e temporanee” essendo sufficiente fornire elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno.
Il ristoro del danno deve essere completo sia per quanto riguarda il danno da perdita di lavoro inteso in senso ampio sia per quel che concerne gli aspetti retributivi e proporzionato alla singola fattispecie (Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 23/01/2015 n. 1260: “si dovrà, tra l’altro, tenere conto del numero dei contratti a termine, dell’intervallo di tempo intercorrente tra l’uno e l’altro contratto, della durata dei singoli contratti e della complessiva durata del periodo in cui è stata la reiezione. Ma si dovrà anche considerare il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (estensibile all’adempimento degli specifici obblighi di comportamento stabiliti dalla legge a carico della pubblica amministrazione, anche in ambito contrattuale), quale espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., che impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dalla esistenza di specifici obblighi contrattuali o di espresse previsioni di legge: con la conseguenza della risarcibilità del danno derivato dall’inadempimento dovuto ad una tale violazione” (Cass. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. 26 agosto 2008, n. 21250).
Da ultimo, il risarcimento del danno per illegittima precarizzazione di un dipendente della P.A. è stato confermato dalla Cassazione (sez. Lavoro, sentenza n. 14633/16): in particolare è stato sancito che nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una P.A., il dipendente ha diritto al risarcimento del danno per l’illegittima precarizzazione. Viene, così, data continuità giuridica al principio di diritto delle Sezioni Unite (sentenza n.4914/2016 e n. 5072/2016): “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art.36, comma 5, d.lgs.30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art.32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art.8 legge 15 luglio 1966, n.604”.
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La tutela economica accordata in favore dei precari della sanità ha trovato conferma anche in un caso di cui si è occupato dapprima il Tribunale di Enna e successivamente la Corte di Appello di Caltanissetta.
Nel caso di specie, era stato stipulato tra il ricorrente e l’Azienda Sanitaria Provinciale, contratto individuale di lavoro a tempo determinato con il quale veniva conferito l’incarico temporaneo di Dirigente Sanitario Medico di Medicina Generale della durata di un anno.
Il contratto, in prossimità della scadenza, veniva prorogato per la durata di un anno.
Tuttavia, dopo pochi mesi, veniva comunicata la risoluzione anticipata del contratto, motivata in ragione della disposizione di servizio del Commissario Straordinario avente ad oggetto “Riorganizzazione U.O.C. di Medicina Generale e Malattie Infettive Coordinamento EN 1 e EN2”.
Il dirigente medico, quindi, decideva di adire il Giudice del Lavoro, chiedendo di accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento nonché il suo diritto alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato con conseguente condanna al risarcimento.
Con Sentenza n. 530/2014 resa dal Tribunale di Enna, Sezione Lavoro, nella persona del Giudice, dott. Eugenio Alberto Stancanelli, veniva totalmente accolto il ricorso.
In particolare, per il Giudicante, il datore di lavoro non ha fornito alcuna prova utile circa l’effettiva sussistenza delle circostanze oggettive che giustificano l’apposizione del termine né “risultano specificamente indicate le ragioni integranti le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo giustificative dell’apposizione del termine. Ne discende che va dichiarata la nullità della clausola di apposizione del termine finale apposto al contratto che va pertanto considerato a tempo indeterminato dalla data di stipulazione”.
In merito alle conseguenze di detta nullità, poi, “appare condivisibile l’affermazione secondo cui, anche sotto il vigore delle nuove disposizioni del d.lgs. n.368/01, nelle ipotesi di stipulazione di contratti a termine pur in assenza di ragioni giustificatrici può essere richiamata, in luogo della disposizione dell’art.1 dell’art.1419 c.c., quella di cui al successivo comma 2 dello stesso art.1419 c.c., secondo cui le singole clausole nulle non implicano la nullità del contratto stesso, quanto esse “sono sostituite di diritto da norme imperative” (principio analogo a quello sancito dall’art.1339 c.c.) e ciò tenuto conto che nel diritto del lavoro l’inderogabilità delle norme poste a tutela del lavoratore è la regola. Si è già infatti evidenziato che dalla direttiva comunitaria e dalle stesse espressioni adottate dal legislatore delegato discende il principio, di carattere imperativo, in base al quale “la forma comune dei rapporti di lavoro” è sempre quella del contratto a tempo determinato, potendosi stipulare un contratto a tempo determinato solo in presenza di precise e comprovate ragioni giustificatrici”. Prosegue, “In sintesi può quindi affermarsi che, nell’ipotesi di stipula del contratto a termine in assenza delle ragioni giustificatrici, la nullità di tale pattuizione non si estende all’intero contratto ma la clausola è sostituita automaticamente dalla normativa generale in tema di rapporti a tempo indeterminato (rispetto alla quale il termine costituisce ancor oggi la deroga) con la trasformazione ope legis del contratto a termine, sin dall’origine, in un rapporto senza scadenza finale. La trasformazione del rapporto porta con sé un’ulteriore conseguenza, stante il fatto che nell’ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato e, di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato conferisce al dipendente il diritto a riprendere il suo posto con conseguente diritto al risarcimento del danno.”
In relazione alla lamentata illegittimità del recesso anticipato da parte dell’azienda sanitaria, il Giudice di primo grado ha rilevato, innanzitutto, che “effettivamente, il contratto stipulato inter partes prevede all’art.6 che “l’incarico potrà cessare anche prima della data di scadenza prevista dal contratto individuale di lavoro nel caso in cui si dovesse determinare disponibilità di personale medico derivante dalla rimodulazione della rete ospedaliera o da eventuali nomine in ruolo”. Tuttavia, “allo stesso modo va comunque messo in luce che “il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa di cui all’art.2119 c.c., può essere risolto anticipatamente non già per un giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art.3 della legge n.604 del 1996, ma soltanto in presenza delle ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli artt.1453 e ss. Cod.civ. Ne consegue che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato” (Cass.n.3276 del 10.02.2009). Va rilevato invero che comunque il datore di lavoro dovrebbe prediligere dei processi di mobilità o la diversa collocazione funzionale e flessibilità operativa del medico, rispettando il principio dell’equivalenza delle mansioni, magari impiegandolo presso altre aziende ospedaliere. Al contrario l’Asp sulla base dell’asserita esigenza macro-organizzativa, legata ad esigenze di economicità e funzionalità, peraltro non provata, ha provveduto al recesso ante tempus del ricorrente.
Si rammenta tra l’altro che il riferimento a processi di organizzazione individua una delle possibili (forse, delle più frequenti) ipotesi tipologiche in cui nella prassi, può verificarsi l’esigenza di non confermare il medico prima ancora che l’incarico sia giunto a scadenza, indipendentemente da una valutazione negativa. Invero la resistente non ha nemmeno coinvolto preventivamente, prima di giungere alla soluzione di licenziare il ricorrente, le organizzazioni sindacali allo scopo di trovare una soluzione alternativa che consentisse la prosecuzione del rapporto, per i pochi mesi che mancavano al concludersi del contratto a termine. Non si rinviene pertanto alcuna giusta causa di licenziamento, ossia l’unica che avrebbe legittimato il recesso ante tempus da parte dell’Asp. D’altra parte la giurisprudenza sul punto è pacifica nell’accordare in ipotesi del genere il risarcimento del danno al lavoratore: “in ipotesi di anticipata ed ingiustificata risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro, così come in quella di dimissioni del lavoratore per giusta causa, quest’ultimo avrà diritto al risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni che egli avrebbe percepito se la risoluzione non fosse intervenuta (cfr. tra le altre in particolare: Cass.20 aprile 1995 n.4437; Cass.25 giugno 1987 n.5600”[Così Cass.n.19903 del 2005].
Anche per la determinazione concreta del risarcimento pare opportuno ancorarsi alla più condivisibile e consolidata giurisprudenza, che in ipotesi del genere ha commisurato il risarcimento del danno alle retribuzioni perse fino alla naturale conclusione del contratto. Il tal senso si vedano tra le più recenti Cass. n.24335 del 29.10.2013 per cui “Nei contratti di lavoro dirigenziale a tempo determinato, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, e in mancanza di una diversa previsione nel contratto individuale, il risarcimento del danno dovuto va commisurato all’entità dei compensi retributivi che sarebbero maturati dalla data del recesso fino alla scadenza del contratto, mentre non è dovuta alcuna indennità sostitutiva del preavviso, essendo questa legislativamente prevista solo per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, e Cass.n.14637 del 28.12.1999 per la quale “Relativamente ad un contratto di lavoro dirigenziale a tempo determinato, in caso di risoluzione anticipata da parte del datore di lavoro non sorretta da una idonea giusta causa, il giudice di merito, in sede di liquidazione del risarcimento del danno a favore del dirigente, non può – una volta esclusa la mancanza di diligenza nella ricerca di un nuovo lavoro – disattendere la richiesta di un risarcimento commisurato alle retribuzioni perse fino alla naturale conclusione del contratto, mediante il semplice e non validamente giustificato ricorso ad una liquidazione equitativa”.
La sentenza di primo grado condannava, quindi, l’Azienda Sanitaria:
1) alla riassunzione del ricorrente;
2) al pagamento dell’indennità ex art.32, comma V, L.183/2010, pari a 5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione;
3) al pagamento delle retribuzioni che il ricorrente avrebbe percepito, se la risoluzione non fosse intervenuta, fino alla naturale conclusione del contratto;
L’azienda sanitaria proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza per i seguenti motivi:
- A) inammissibilità della domanda di conversione;
- B) inammissibilità della richiesta risarcitoria;
- C) inammissibilità della tutela reintegratoria.
Nella memoria di costituzione, l’appellato osservava che la tutela risarcitoria a favore del lavoratore deve essere duplice, effettiva e dissuasiva, per rispondere ai requisiti precisati dalla Corte di Giustizia. Peraltro, la soluzione sulla conversione dei contratti a termine successivi in un unico contratto a tempo indeterminato anche nel pubblico impiego trova un avallo autorevole nella ordinanza del 1 ottobre 2010 della Corte di Giustizia nella causa C-3/10 Affatato la quale ai punti 48-49 chiarisce: “A tale proposito, nelle sue osservazioni scritte il governo italiano ha sottolineato, in particolare, che l’art.5 del d.lgs.n.368/2001, quale modificato nel 2007, al fine di evitare il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico, ha aggiunto una durata massima oltre la quale il contratto di lavoro è ritenuto concluso a tempo indeterminato e ha introdotto, a favore del lavoratore che ha prestato lavoro per un periodo superiore a sei mesi, un diritto di priorità nelle assunzioni a tempo indeterminato”.
Basti solo segnalare l’intervento della Corte di Giustizia U.E (Sentenza 14 settembre 2016, Causa C-16/15), in tema di personale sanitario precario, per la quale contrasta con il diritto UE la normativa nazionale che consente di rinnovare ad oltranza i contratti di lavoro a tempo determinato per esigenze che non sono provvisorie, ma permanenti, poiché in tal modo il precariato dei lavoratori viene mantenuto costante nel tempo.
Con sentenza n. 107/2017, la Corte di Appello di Caltanissetta, Sez. Lavoro, ha accolto il primo motivo di appello sulla conversione del contratto, chiarendo: “deve ritenersi che, come ben noto, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art.36 (t.u.pubblico impiego) stabilisce al comma terzo che “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”. Come affermato anche di recente dalla Suprema Corte (n.14350/2010 e n.392/2012), con un incipit (“in ogni caso…”) che non consente eccezioni, si afferma nel citato disposto di legge che, nell’area del lavoro pubblico, non può operare il principio della trasformazione dei rapporti flessibili in rapporti a tempo indeterminato. Né osta alla conclusione cui si è giunti la ulteriore affermazione, pure fatta dal primo giudice, che una tale lettura dell’art.36 del D.Lgs.n.165 del 2001 contrasterebbe con la normativa europea. Invero, la delineata distinzione tra il regime sanzionatorio del settore pubblico e di quello privato è stata più volte rimarcata nella normativa comunitaria, come emerge infatti da numerosi interventi della Corte di Giustizia europea, che con una giurisprudenza granitica e da ultimo ribadita con una ulteriore pronunzia (Corte giust.1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato) porta ad escludere dall’area del lavoro pubblico l’applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n.368 del 2001, art.5 – che al fine di evitare il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a termine, contempla una durata massima oltre la quale il contratto di lavoro deve ritenersi concluso a tempo indeterminato”.
La Corte ha confermato, invece, le voci di risarcimento riconosciute in primo grado: “la tutela risarcitoria prevista ha, dunque, valenza specificamente sanzionatoria e viene ricollegata direttamente all’abusivo utilizzo da parte della P.A. di una prestazione lavorativa oltre i modi ed i tempi consentiti dalle norme imperative, cosicchè il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore sorge in relazione all’evento stesso della violazione delle norme imperative, evento che viene reputato dal legislatore, di per sé, come produttivo di un pregiudizio, anche in assenza di una specifica prova al riguardo”. “Ritiene questa Corte di aderire al primo orientamento, ritenendo all’uopo condivisibile il parametro risarcitorio utilizzato dal giudice di primo grado e la quantificazione del danno cui lo stesso è giunto.
E, invero, come recentemente statuito dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n.5072 del 15.03.2016, in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art.36, comma 5, del d.lgs. n.165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicchè, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art.32, comma 5, della l.n.183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario” – nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri di cui all’art.8 della l.n.604 del 1966 – salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi, come opportunamente precisato dalla stessa Corte, una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.
Va, pertanto, ribadito anche in questa sede di appello il diritto del ricorrente a un risarcimento dei danni pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con conseguente condanna dell’Asp di Enna a corrisponderlo, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza.
Quanto al terzo motivo di gravame,…, con il quale la Asp ha sostenuto la piena legittimità del recesso datoriale intimato prima della scadenza del termine programmato, ricorrendo comprovate ragioni di tipo organizzativo, trattasi, ad avviso della Corte, di motivo inammissibile, prima ancora che infondato.
Dal primo punto di vista, infatti, si tratta di motivo proposto per la prima volta in sede di appello, non avendo nel corso del precedente giudizio la Asp convenuta inteso interloquire in merito alla giustificatezza o meno del recesso ante tempus intimato al ricorrente rispetto alla naturale scadenza del contratto del 20.12.2012 prevista per il 31 dicembre 2013.… Tuttavia, osserva la Corte – anche a prescindere dalla più che dubbia ammissibilità dell’apposizione di una clausola risolutiva espressa al contratto di lavoro a termine – si tratta di circostanze non solo del tutto prive di adeguato supporto probatorio, ma anche irrilevanti, riguardando una ipotetica soppressione del reparto Malattie Infettive dell’Ospedale di Nicosia che nulla sembra avere a che vedere, salvo allegazioni e prove contrarie che la Asp appellante si guarda bene dall’introdurre in giudizio, con l’U.O. di Medicina Interna cui era addetto il dott. P. A tale stregua, deve, pertanto, confermarsi la statuizione della sentenza appellata con la quale il Tribunale di Enna, ritenuto illegittimo il recesso ante tempus intimato dall’Asp al dott. P nell’aprile del 2013, l’ha condannata a corrispondere a quest’ultimo le retribuzioni cui lo stesso aveva diritto, dalla data dell’illegittimo recesso a quella della naturale scadenza del contratto, prevista per il 31.12.2013”.
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