Nel procedimento di correzione materiale della sentenza, reso ai sensi dell’art. 287, C.p.c., il ricorso introduttivo non deve esser notificato alla parte contumace. Riflessioni alla luce della giurisprudenza.
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Indice
- 1. Inquadramento della tematica
- 2. L’istituto della correzione materiale delle sentenze ex art. 287 C.p.c.
- 3. La parte contumace dell’originario processo non può prender parte al procedimento di correzione
- 4. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito
- 5. Conclusioni
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1. Inquadramento della tematica
Spesso non ci rendiamo conto, ma gli istituti, intendo quelli giuridici, anche di natura processuale, hanno uno scopo, finanche pur quelli che non penseremo mai d’adoperare.
Pensiamo, ad esempio, ad una sentenza resa all’esito d’un ordinario rito di cognizione nella quale, a ben vedere, siano riportati degli errori materiali incolpevoli.
Cosicché, può capitare che in una sentenza, colla quale sia stato risolto, giudizialmente, un contratto di locazione, con conseguente ordine posto a carico del conduttore di liberare l’immobile, sia riportato, erroneamente, un numero civico errato di quest’ultimo ovvero una particella, dell’identificativo catastale, diversa da quella corretta.
Le ricadute di tal errori materiali, talvolta emergenti tanto nella parte motiva quanto in quella dispositiva del provvedimento giudiziale, son evidenti, nel senso, cioè, dell’impossibilità di portare ad esecuzione il detto titolo con pedissequo precetto da parte dell’Ufficiale Giudiziario.
Ma il Codice, quivi, quello di procedura civile, ha provveduto anche per questa eventualità, vale a dire che, a fronte di tal emergenza, la parte processuale interessata, in genere quella vittoriosa, potrà chiederne, al medesimo Giudice che ha pronunziato la sentenza oppure il provvedimento giudiziario inesatto, la modifica ricorrendo all’istituto della correzione materiale di cui all’art. 287 C.p.c. e Ss.
2. L’istituto della correzione materiale delle sentenze ex art. 287 C.p.c.
Posto nell’alveo del Libro Secondo del Codice di procedura civile, Titolo primo, Capo V, rubricato della correzione delle sentenze e delle ordinanze, l’istituto disciplinato dall’art. 287, e seguenti, offre la possibilità d’introdurre, tramite la presentazione d’un ricorso, presso lo stesso Giudice che l’ha licenziate, un giudizio incidentale, da considerarsi quale prolungamento di quello originario, col quale domandare la correzione di quei provvedimenti affetti da omissioni, errori materiali ovvero di calcolo.
Si badi bene, però, che il rimedio processuale in parola è esperibile soltanto per la correzione di sentenze non appellate ovvero per ordinanze non revocabili.
Ora, avendo discettato della ratio dell’istituto in scrutinio, possiamo vedere come esso funzioni sul piano concreto.
Da questa prospettiva, sovviene l’art. 288, C.p.c., a mente del quale se tutte le parti del procedimento originario son d’accordo nel domandare la stessa correzione, il giudice provvede alla correzione del provvedimento tramite un decreto.
Laddove, invece, la modifica sia richiesta da alcuna soltanto delle parti, ecco che, allora, il ricorso, con il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza, da celebrarsi davanti allo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento in “odore di correzione”, dovranno, ai sensi del primo e terzo comma, dell’art. 171, C.p.c.., esser notificati alle altre parti costituite. In quest’ultimo caso, il giudice deciderà sull’istanza di correzione con un’ordinanza che verrà, poi, annotata sull’originale del provvedimento corretto.
Aggiungasi che l’istituto in discussione non s’è affatto dimenticato di disciplinare quelli che potrebbero esser gli effetti dell’interposizione d’un gravame avverso una sentenza corretta tramite il meccanismo processuale dell’art. 287, C.p.c.
Difatti, l’istituto non dimentica della possibilità che anche le parti corrette d’una sentenza possano esser soggette ad appello e, pertanto, il quarto comma, dell’art. 288, C.p.c., vien incontro a tal ultima evenienza stabilendo che le parti corrette possono esser appellate entro il termine ordinario, vuoi di trenta giorni, ex art. 325 C.p.c., vuoi nel termine di decadenza di sei mesi, ex art. 327 C.p.c., decorrente dalla notificazione dell’ordinanza di correzione.
Dunque, si riconduce tutto nel sistema ordinato, in quanto finanche per quella sentenza che sia stata emendata, il legislatore non rinuncia alla possibilità che le parti possano avvalersi del rimedio dell’impugnativa per le parti corrette.
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3. La parte contumace dell’originario processo non può prender parte al procedimento di correzione
Ebbene, delineati i contorni dell’istituto della correzione materiale delle sentenze e delle ordinanze, dovremmo provar a domandarci che cosa accadrebbe se nel primitivo procedimento di cognizione, dal quale è stato gemmato il provvedimento giudiziale vocato ad esser corretto, una delle parti sia rimasta contumace.
Il quesito, così, come posto, non è affatto secondario, poiché involge un principio cardine del giusto processo, e, cioè, quello del contradditorio.
Gettando uno sguardo sull’istituto contumaciale, in effetti, osserviamo, fermo restando la possibilità del contumace di costituirsi, ex art. 293, C.p.c., fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, che, ai sensi dell’art. 292, C.p.c., anche alla parte dichiarata contumace nel processo sia stabilito la notificazione d’alcuni atti, quali, per esempio, le ordinanze che ammettono l’interrogatorio od il giuramento, le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali. Le altre comparse si considerano comunicate tramite il deposito in cancelleria, mentre la sentenza viene notificata personalmente alla parte contumace.
Chiusa questa breve parentesi sull’istituto contumaciale, la parte che sia rimasta contumace nel primitivo procedimento di primo grado, deve esser coinvolta anche nel successivo procedimento di correzione della sentenza?
Orbene, ad una prima battuta, saremmo orientati a dar al quesito che ci siam posti, una risposta positiva, nel senso che la parte, dichiarata contumace nel procedimento dal quale s’è gemmata la sentenza oggetto di correzione, dovrebbe esser quivi coinvolta.
Potrebbe militare, astrattamente ragionando, a favore di tal considerazione, la circostanza che, forse, a fronte d’una sentenza affetta da errori materiali, anche la parte contumace avrebbe qualcosa da “dire”.
Questa potrebbe esser la sede, non potendo la parte contumace, rispetto alla messa in esecuzione del titolo giudiziale, come, per esempio, una sentenza di risoluzione del contratto di locazione con ordine di rilascio dell’immobile, in assenza d’interposto gravame, sollevare eccezioni, atteso, altresì, che il rimedio dell’opposizione all’esecuzione giammai si potrebbe far valere se non laddove si possano offrire motivi nuovi e sopravvenuti alla formazione del titolo giudiziale tali da estinguere ovvero neutralizzare quest’ultimo.
Eppur tuttavia, la risposta al quesito che ci siam dati, è di segno negativo, giacché la parte rimasta contumace nel processo primitivo non vanta alcun diritto a partecipar nel procedimento di correzione della sentenza.
Sul punto dobbiamo registrare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito, le cui conclusioni, circa la considerazione fattuale che la parte contumace non abbia diritto di partecipar al procedimento di correzione della sentenza, son corroborate dalle seguenti considerazioni.
Anzitutto, dalla lettura del primo comma dell’art. 287, C.p.c., apprendiamo che, laddove siano tutte le parti (la precisazione, direi non sfuggita al legislatore che l’ha formulata, sta a significare che d’un processo le parti possono esser plurime), di quel processo che ha partorito la sentenza da emendare a domandarne la correzione, il Giudice potrà disporne l’emendamento tramite decreto.
Allorché la correzione sia richiesta da una soltanto delle parti, il procedimento di correzione, ai sensi del secondo comma, dell’art. 287, C.p.c., sarà scansionato dalla notifica del decreto di fissazione dell’udienza e del ricorso introduttivo da notificarsi alle altre parti e, di poi, il Giudice deciderà secondo ordinanza.
Ciò potrebbe lasciar intendere che la necessità che tanto il decreto che quanto il ricorso siano notificati alle altre parti, sia funzionale a garantire, nell’ottica del giusto processo, l’effettiva partecipazione di tutti soggetti nei cui confronti è stato reso il provvedimento giudiziario oggi oggetto di correzione.
Invero, la conclusione cui è pervenuta la superiore giurisprudenza in scrutinio, muove da una semplice considerazione, e, cioè, che il procedimento di correzione della sentenza, che, rammentiamo, deve svolgersi dinnanzi allo stesso Giudicante che l’ha pronunciata, altro non è che un prolungamento del primitivo procedimento.
Anzi, rispetto al processo di cognizione piena, rappresenta un incidente nel processo, cristallizzato nella fase di formazione del titolo giudiziale, in quanto è proprio in questa fase che, vuoi nel corpo della parte motiva, vuoi nel dispositivo, si posson formare quegli errori materiali che non consentiranno, poi, di portare ad esecuzione quest’ultimo.
Se si aderisce a questa impostazione, pare, ragionevole, bisogna dire, dedurne che, se una delle parti è rimasta contumace per tutta la durata del processo di primo grado, non può, poi, aver diritto di partecipar al procedimento di correzione della sentenza, il quale, rispetto al primo, si pone come un incidente processuale, poiché considerato come un prolungamento di quello primitivo.
Secondariamente, a favore del fatto che la parte contumace non abbia diritto di partecipar al procedimento di correzione della sentenza, milita, altresì, la considerazione che l’istanza di correzione del provvedimento ben può esser avanzata dallo stesso difensore sulla scorta della stessa procura rilasciatagli nel primitivo procedimento di cognizione cui si riferisce la sentenza da emendare.
Ne viene, nel silenzio dell’art. 292, C.p.c., sul punto, che il giudice può decidere con decreto la correzione della sentenza non soltanto allorquando l’istanza sia proposta da tutte le parti del processo, bensì anche quando essa sia proposta soltanto dalla parte non contumace.
4. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito
Le considerazioni sopra esposte son corroborate dalla stessa giurisprudenza la quale ha avuto modo di affermare, giustappunto, che “… “Il provvedimento di correzione di errore materiale, avendo natura ordinatoria, non è suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., neppure per violazione del contraddittorio, in quanto non realizza una statuizione sostitutiva di quella corretta e non ha, quindi, rispetto ad essa, alcuna autonoma rilevanza, ripetendo invece da essa medesima la sua validità, così da non esprimere un suo proprio contenuto precettino rispetto al regolamento degli interessi in contestazione…”. (Cass. civ., Sez. I, Sent. n. 608 del 12 gennaio 2017; Idem, Sez. I, Sent. n. 12034 del 17 maggio 2010).
Ed, ancora, che il procedimento di correzione della sentenza rappresenta “… non una nuova fase processuale, ma mero incidente dello stesso giudizio, diretto solo ad adeguare l’espressione grafica all’effettiva volontà del giudice, già espressa in sentenza…”. (Cass. civ., Sez. I, Ord. n. 13083 del 17 giugno 2005).
Con il provvedimento di correzione non si fa altro che adeguare il contenuto della parte errata della sentenza alla reale volontà del giudice “… In effetti, essendo errore materiale correggibile quello che non incide sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione, ma si concreta in un difetto di corrispondenza fra l’ideazione e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento …”. (Cass. civ., Sez. Lavoro, N. 11809 del 29 novembre 1993).
In altri termini, il rimedio della correzione della sentenza è volto, principalmente, a porre rimedio ad un difetto di corrispondenza tra quello che dovrebbe esser il convincimento del Giudice ed la sua rappresentazione grafica nel corpo del provvedimento oggetto di correzione materiale. (Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 9498 del 6 aprile 2023).
Ed, infine, per quanto riguarda la procura rilasciata per il giudizio dal quale prende corpo la sentenza da correggere col meccanismo processuale dell’art. 287, C.p.c., la Suprema Corte afferma che “… la procura rilasciata al difensore nel giudizio concluso con la sentenza da correggere è valida anche per la procedura di correzione di errore materiale ai sensi dell’articolo 391 bis c.p.c., costituente non una nuova fase processuale, ma mero incidente dello stesso giudizio, diretto solo ad adeguare l’espressione grafica all’effettiva volontà del giudice, già espressa in sentenza…”. (Cass. civ., Sez. I, Ord. n. 13083 del 17 giugno 2005 cit.).
Sulla base delle superiori argomentazioni giuridiche, anche la giurisprudenza di merito è giunta ad affermare che il ricorso per la correzione materiale della sentenza non debba esser notificato alla parte rimasta contumace nel precedente giudizio “…deve ritenersi che il giudice possa decidere con decreto sul ricorso per correzione di errore materiale non solo nelle ipotesi in cui tutte le parti costituite concordino sull’errore, ma anche in quelle dove le altri parti siano contumaci…”. (Trib. Cosenza, Sez. I, Decreto n. 10078 del 20 gennaio 2015).
5. Conclusioni
Nel rassegnare le conclusioni, all’esito di questa breve dissertazione, possiamo giungere alle seguenti riflessioni.
Anzitutto, l’istituto della correzione degli errori materiali delle sentenze, disciplinato dall’art. 287, e ss., C.p.c., è un rimedio volto ad allineare l’ideazione del Giudicante, in merito alla pretesa oggetto di contestazione, alla sua rappresentazione grafica, evincibile dal corpo dell’emanando provvedimento. Apprendiamo, inoltre, dal formante giurisprudenziale rassegnato, che il procedimento in questione è una prosecuzione di quello originario, e che, anzi, rispetto a quest’ultimo, rappresenta un incidente del medesimo giudizio.
E da questa considerazione, discende che l’istanza di correzione ben può esser presentata dallo stesso difensore munito di procura alle liti per il patrocinio nell’ambito del giudizio ove s’è formato il titolo giudiziale oggetto di correzione materiale.
Ne discende, ulteriormente, che nel procedimento di correzione dell’errore materiale della sentenza, la parte rimasta contumace nell’originario processo non può prendervi parte.
Cosicché, il Giudice chiamato a correggere il provvedimento da egli stesso licenziato, potrà provvedere alla correzione tramite decreto, e non a mezzo d’ordinanza, utilizzabile, quest’ultima, laddove le parti non siano d’accordo sull’errore, la quale, poi, dovrà esser annotato sull’originale del titolo giudiziale corretto.
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