Corte dei conti – giudizi di responsabilita’ amministrativa per danno erariale – il condono contabile di cui alla legge finanziaria per il 2006 – finalita’ – natura di istituto di giustizia negoziata – procedimento e provvedimento camerale – problematiche

I condoni sono finalizzati solitamente alla acquisizione di maggiori risorse finanziarie ( “per fare cassa”) seppure una tantum; mentre il condono erariale di cui alla L. n. 266/2005 permette normativamente minori incassi ancorché lo si sia anche giustificato con il ridotto numero di sentenze di condanna adempiute dai convenuti. In realtà, la sanatoria contabile arreca benefici soprattutto a politici, amministratori, apicali e dipendenti pubblici o di società partecipate da amministrazioni od enti pubblici che, a qualunque livello, locale o nazionale, abbiano arrecato danno patrimoniale e siano stati già condannati in primo grado dalla Corte dei Conti in sede giurisdizionale a risarcirlo alle rispettive Amministrazioni. Correttamente può sostenersi ( T. Miele, 2006 ) che:”…in virtù di tale previsione generalizzata, le disposizioni sul condono incideranno anche su quelle ipotesi di danno patrimoniale alle pubbliche finanze sempre più ricorrenti e diffuse negli ultimi anni e che sono spesso finite nel mirino della Corte dei Conti, quali quelle nascenti dal conferimento di incarichi e consulenze a soggetti estranei alla P.A., che in molti casi hanno rappresentato e continuano a rappresentare un nuovo modo di finanziamento della politica, atteso che assai spesso l’ affidamento di incarichi e consulenze a soggetti estranei alla P.A., più che soddisfare reali esigenze dell’ ente, costituisce lo strumento per distribuire ingenti somme di denaro pubblico a professionisti e consulenti vicini agli amministratori pubblici”.
E’ evidente, quindi, che il condono erariale, oltre ad avere connotazioni di incostituzionalità, appare anche alquanto contraddittorio con tutte quelle disposizioni previste in molteplici provvedimenti legislativi di questi ultimi anni e finanche nella stessa Legge Finanziaria per il 2006, volte alla limitazione della pubblica spesa per l’ affidamento di incarichi di studio e di consulenza a professionisti esterni alla struttura dell’ ente.
Ciò premesso, si è autorevolmente osservato ( S. Auriemma, 2006 ) che:”…è forse anche giunto il tempo di prendere consapevolezza che argomenti di contrasto a normative poco convincenti basati unicamente sulla “indisponibilità” degli interessi oggetto della tutela giudiziaria contabile e sulla necessità di giungere ad “integrale soddisfazione” del credito risarcitorio sono divenuti, di per sé soli, temi fragili nell’ impianto motivazionale e nella loro forza e capacità persuasiva. Ciò per almeno due ragioni: 1) nell’ ordinamento giuridico generale sono state, da tempo, introdotte ed esistono varie forme od istituti comunemente definiti di “giustizia negoziata” ( es. patteggiamento penale, conciliazione giudiziale tributaria ). Detti istituti hanno attraversato indenni, più volte, scrutini di costituzionalità, nonostante anch’ essi coinvolgano interessi pubblici non disponibili e costituzionalmente protetti, come l’ interesse punitivo dello Stato ed il credito di imposta dell’ Erario; 2) nel più ristretto ordinamento giuscontabile, da un lato l’ esistenza del potere riduttivo ( esercitato talvolta in maniera intensa od addirittura irrazionale, persino in appello e, quindi, con assoluta impossibilità di un’ ulteriore revisio tramite cui far valere l’ irragionevolezza ), dall’ altro la grave e seria situazione degli scarsissimi recuperi in sede esecutiva, rappresentano due circostanze di forte ed innegabile spicco, che dovrebbero consigliare più realistiche e meno enfatiche riflessioni sul carattere pienamente satisfattivo della tutela contabile”. Temporalmente, la misura premiale è oggetto di disposizioni derogatorie ed eccezionali rispetto ai principii generali e, quindi, sussumibile sotto l’ art. 14 delle Disposizioni sulla Legge in generale non potendo essere applicate oltre i casi e tempi in esse considerate. Tale efficacia limitata nel tempo implica la sua transitorietà stante il riferimento ai fatti commessi antecedentemente al 1 gennaio 2006 cosicchè non essendo un istituto a regime nel processo contabile, differisce comunque dal patteggiamento e dalla conciliazione tributaria sotto tale prospettazione. Essendo un beneficio temporaneo, la problematica che si pone all’ interprete è quella se debba aderirsi ad un orientamento restrittivo e letterale del dettato normativo ovvero ad uno estensivo e costituzionalmente orientato ossia se debba prevalere la locuzione “sentenza pronunciata” e, quindi, il condono si applichi ai soli giudizi di primo grado conclusisi con sentenza depositata entro e non oltre il 31 dicembre 2005 ovvero se esso sia applicabile sia ai giudizi già instaurati che a quelli instaurandi ma non a quelli esauriti che abbiano ad oggetto eventi lesivi prodottisi entro e non oltre il 31 dicembre 2005, prescindendosi che, a tale data, sia già intervenuto il deposito della sentenza di primo grado. Il secondo orientamento consente di includere quelle vicende che abbiano subito lungaggini processuali non dipendenti dalla volontà delle parti per interruzione, rinvii di ufficio od altra causa, ancorché attinenti a fatti risalenti nel tempo, nonchè quelle riferentesi a vicende occorse nell’ anno 2005 che, aderendo alla prima delle tesi succitate, rimarrebbero escluse dalla sanatoria essendo alquanto arduo ritenere che il giudizio sia stato già definito nello stesso anno. Pertanto, esso si connoterebbe per una maggiore conformità al dettato costituzionale evitando censure per disparità di trattamento.
In relazione all’ ambito applicativo, i dubbi ermeneutici sono plurimi atteso che le nuove disposizioni si limitano a recitare che la richiesta del beneficio possa essere avanzata dai soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna.   Il comma 231 non opera distinzione alcuna fra i casi di appello proposto dal P.M. e quelli di appello proposto dal convenuto condannato. Il comma 232, peraltro, non pare considerare determinante la volontà del requirente che non viene rienuta ostativa all’ ammissione al beneficio ancorché sia lo stesso P.M. appellante. Onde evitare che i commi siano tacciati di incostituzionalità, in disparte invocare l’ istituto della rinuncia al gravame quale facoltà valevole anche per la parte pubblica impugnante, in caso di soccombenza soltanto parziale di quest’ ultima, il non consentire alla stessa di opporsi in modo preclusivo alla ammissione al beneficio, comporta attualmente l’ elisione della facoltà di appellare del Pubblico Ministero conseguendone che “la scelta volontaria ed unilaterale del soggetto privato diventa capace di determinare un effetto processuale preclusivo ed irrimediabile: l’ inutilità per improseguibilità, del gravame proposto dal P.M. e la sostanziale vanificazione dell’ esercitata facoltà di appello” ( S. Auriemma, 2006 ).
Si assiste, dunque, ad una disparità di trattamento fra parte pubblica e parte privata prendendo come parametro la norma di cui all’ art. 1, comma 5- bis del D.L. n. 453/1993 convertito con modficiazioni nella L. n. 19/1994 . Il chè equivale a dire che si profilerebbe la violazione dell’ art. 24 Cost. con riferimento all’ art. 3 Cost.. e finanche all’ art. 111 Cost. dovendosi configurare “ uno squilibrio irrazionale, intrinsecatamente incongruo ed insanabile fra le posizioni processuali delle due parti in causa” alla cui stregua:” la parte privata, infatti, ha intestata e conserva intatta la sua facoltà di appellare in via principale, incidentale o persino condizionata e di ottenere la riforma anche integrale, della sentenza di primo grado, essendo a ciò sufficiente che liberamente decida di non avvalersi del beneficio di cui alla L. n. 266/2005. La parte pubblica, invece, pur se legittimamente appellante e sol perché l’ altra parte presenti la richiesta, è chiamata ad esprimere un mero avviso e deve sottostare all’ altrui iniziativa unilaterale, vedendosi preclusa la possibilità di coltivare fino in fondo il proprio gravame”. Né potrebbe escludersi la violazione dell’ art. 101, 2° comma , Cost. se si ritenesse ammissibile ed accoglibile de plano la richiesta di applicazione del condono erariale da commisurare al “ danno quantificato nella sentenza “.Perciò, la potestà cognitiva e giudicante del requirente si tradurrebbe al massimo nella determinazione del risarcimento nella misura massima del 30% di un danno già quantificato. Quando poi trattasi di pronunzie di condanna in via solidale per dolo od illecito arricchimento, la situazione si complica maggiormente atteso che la Finanziaria ha sostanzialmente inciso sugli elementi costitutivi propri del vincolo solidale dal lato passivo nell’ obbligo risarcitorio. 
Difatti, quel concorrente condannato a titolo di dolo che ottiene il condono, non soltanto risarcisce una somma di minore entità ( e fin qui ciò può ammettersi rientrando nella discrezionalità del Legislatore ), ma si libera anche del vincolo solidale cosicché si finisce con l’ incidere sul diritto della amministrazione danneggiata ad escuterlo così deprivando di contenuto il disposto di cui all’ art. 2740 c.c. rispetto a cui il vincolo di solidarietà dovrebbe fungere da strumento di rafforzamento.
Per le P.A. danneggiate appartenenti al novero delle Autonomie locali si potrebbe anche ritenere violato l’ art. 119 Cost. in quanto la previsione legislativa di cui alla Finanziaria di fatto comporta l’ abbattimento del quantum dovuto a titolo risarcitorio così potendosi ravvisare una indebita invasione od interferenza nell’ area riservata alla autonomia regionale   (Corte Cost. nn. 417 e 449/2005 ). Pur tuttavia, siffatta censura è superabile laddove – per le Regioni a statuto ordinario – si tenga in debita considerazione che la disciplina della responsabilità amministrativa appartiene alla competenza statuale in via esclusiva.
Il procedimento camerale contemplato dalla L. n. 266/2005 è incidentale rispetto al giudizio di appello ossia l’ uno presuppone l’ esistenza dell’ altro e non è configurabile al di fuori di esso ( cosiddetta connessione funzionale necessaria ). Se l’ appello viene dichiarato inammissibile ipso iure viene meno anche la richiesta di condono. Richiesta che va azionata mediante atto diverso da quello introduttivo tramite o deposito in segreteria ovvero formulata e presentata in limine all’ udienza di discussione e che postula la sottoscrizione autografa del condannato e non del suo difensore trattandosi di un vero e proprio atto di disposizione patrimoniale. Proceduralmente le tre sezioni centrali di appello hanno scelto di assegnare ad ogni singola istanza, quando non simultanea all’ atto di appello, un nuovo numero di ruolo, distinto da quello del gravame principale od incidentale instaurato dall’ istante cosicché la procdura camerale di esame dell’ istanza di condono parrebbe assurgere ad un giudizio autonomo e separato rispetto a quello impugnatorio al quale, tuttavia, necessariamente afferisce. Ma ciò, in ossequio al principio del contraddittorio, implicherebbe l’ obbligo della previa notifica dell’ istanza al P.M.. E’ palese che, non avendo la Finanziaria inserito regole particolari di notificazione o di comunicazione della richiesta premiale limitandosi alla mera indicazione del destinatario di quest’ ultima, individuato nella competente sezione di appello, la lacuna normativa vada colmata in modo da garantire il rispetto del principio del contraddittorio fra la parte pubblica e quella privata.
In quanto al parere del P.M., si intende che vada sentito il Procuratore Generale e non quello Regionale e ciò in ragione della sua obbligatoria presenza in sede centrale. Deve essere sì sentito ( adempimento obbligato ed inderogabile ), ma il suo parere non ha efficacia vincolante. Peraltro, trattandosi di istituto di giustizia negoziata, si dovrebbe comunque ritenere che la definizione del giudizio di appello su richiesta della parte sia concordata e bilaterale. In favore di tale interpretazione milita la circostanza che nel patteggiamento penale in tutte le sue forme ancorché la parte civile danneggiata e costituita nel processo rimanga fuori dall’ accordo serba integra la facoltà di azione autonoma e successiva in sede civile per ottenere il ristoro del danno, mentre, nella fattispecie del condono erariale, essendo il P.M. contabile colui che rappresenta la parte pubblica, sia pure non potendosi qualificare come sostituto processuale in senso stretto, l’ Amministrazione danneggiata risulterebbe illegittimamente esautorata nel proprio diritto alla tutela giudiziale risarcitoria allorquando una tale bilateralità fosse negata.
Il provvedimento camerale che decide se assentire o meno alla richiesta di applicazione del condono contabile assume la forma di decreto che va motivato ( ex artt. 135 e 737 c.p.c. ) ( ma non ha efficacia decisoria ed è reclamabile ) e che deve stabilire il termine per il versamento a discrezione giudiziale. Il giudizio di appello si intende definito successivamente al deposito della quietanza di versamento. Resta inteso che lo svolgimento della camera di consiglio e la definizione dell’ istanza devono precedere la discussione nel merito e la piena cognizione del giudice di appello. Se il versamento è inesatto o non viene effettuato, il giudizio riprende e prosegue sino a sentenza. A tal fine in decreto va fissata udienza per la verifica dell’ avvenuto versamento ed, in caso di positivo riscontro, per la declaratoria di cessata materia del contendere. Se è intervenuto provvedimento di conversione del sequestro cautelare in pignoramento a seguito della sentenza di condanna di primo grado, la declaratoria di caducazione del vincolo non può essere prevista nel decreto camerale che a ciò non è preposto, ma presumibilmente solo in sede di pronunzia finale di appello. Per le spese, essendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere implicante l’ effetto della compensazione, queste soggiacciono a tale regime. Pur tuttavia, se la condanna alle spese processuali è oggetto di capo diverso ed autonomo rispetto a quello concernete il risarcimento del danno, si mantiene il decisum sul punto della sentenza appellata   e la sentenza finale di appello dovrà pronunziarsi espressamente in tal senso.  
Si segnalano i seguenti decreti.
Con decreto del 10 marzo 2006 la I Sezione Giurisdizionale Centrale d’ Appello ha statuito che l’ art. 1, comma 232°, della L. n. 266/2005 sottende una delibazione della richiesta di parte tendente alla applicazione del cosiddetto condono contabile da svolgersi nelle forme del rito camerale ex art. 737 c.p.c. dal momento che, in ipotesi di accoglimento, non resta esclusa una determinazione del quantum debeatur difforme dalla proposta dell’ interessato. In ipotesi di danni arrecati all’ erario in conseguenza della percezione di tangenti, trattandosi di fatto doloso in cui i soggetti condannati in primo grado hanno conseguito un arricchimento dal loro comportamento, non è possibile definire il giudizio con la procedura accelerata. Con altro decreto in pari data, la stessa Sezione ha precisato anche che la natura contabile della responsabilità accertata in primo grado non costituisce circostanza preclusiva all’ eventuale accoglimento dell’ istanza volta al condono erariale. 

Francaviglia Rosa, Brunelli Marco

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