CORTE DEI CONTI A SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE
composta dai seguenti magistrati:
*********************** Presidente
*************** Consigliere
************** Consigliere
***************** Consigliere
***************** Consigliere
************* Consigliere relatore
***************** Consigliere
ha emanato la seguente
SENTENZA
nel giudizio sulla questione di massima iscritta al n. 238/SR/QM del registro di Segreteria delle Sezioni Riunite, deferita dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana con ordinanza n. 217/2007 del 19 luglio 2007 resa nel giudizio iscritto al n. 470/2005 del registro di Segreteria della predetta sezione, promosso dal Procuratore regionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana nei confronti dei *************, B. A., *****, D. P., C. G., C. B., C. B., M. G., e B. C., tutti rappresentati e difesi dall’Avv. ******************, giusta procura a margine della comparsa di costituzione depositata in data 21 giugno 2007, ed elettivamente domiciliati presso il di lui studio in Palermo;
Visti tutti gli atti e i documenti del giudizio;
Uditi alla pubblica udienza del 14 novembre 2007, con l’assistenza della Segretaria d’udienza *************, ed in assenza di rappresentanti dei convenuti, il Consigliere relatore, dott. *************, e il Pubblico Ministero nella persona del Vice Proc. gen. dott. ********************.
Svolgimento del processo
1. La Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, con ordinanza n. 217/2007 del 19 luglio 2007 resa nel giudizio iscritto al n. 470/2005 del registro di Segreteria della stessa sezione, promosso dal Procuratore regionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana nei confronti dei *************, B. A., *****, D. P., C. G., C. B., C. B., M. G., e B. C., tutti consiglieri comunali del Comune di Itala (ME) – i quali, con il loro voto favorevole, avevano riconosciuto, con delibera n. 13 del 18 maggio 2004, il debito fuori bilancio pari ad €uro 54.481,95, scaturito dalla sentenza di condanna n. 2228/2003 del Tribunale di Messina, e contestualmente avevano statuito di ricorrere all’indebitamento per il suo pagamento, mediante l’assunzione di un apposito mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti, e nei cui confronti la Procura regionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana aveva chiesto l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), per un importo di €uro 1.012,34 pro-capite, oltre alle spese del procedimento – ha deferito a queste Sezioni Riunite della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del decreto legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, la soluzione di una questione di massima articolata nei seguenti connessi, ma distinti, quesiti:
a) il tipo di procedimento giurisdizionale da seguire per applicare la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003);
b) il titolo soggettivo di imputazione della sanzione, e, in particolare, se sia sufficiente la colpa lieve o se sia necessaria la colpa grave, oltre che il dolo;
c) se vi sia necessità di portare ad esecuzione la delibera di contrarre un mutuo con la stipula del relativo contratto;
d) se, nel caso di delibera per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001 ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito debba ritenersi “maturato” con il deposito della sentenza di condanna stessa o con il momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione;
e) se il destinatario dell’introito della sanzione pecuniaria sia lo Stato o l’ente di appartenenza degli amministratori che hanno adottato la delibera.
2. Riferisce la Sezione remittente che con ricorso depositato in data 19 marzo 2007 la Procura regionale per la Regione Siciliana conveniva in giudizio i predetti *************, B. A., *****, D. P., C. G., C. B., C. B., M. G., e B. C., nella loro qualità di componenti del Consiglio comunale del Comune di Itala (ME), i quali, con il loro voto favorevole, avevano riconosciuto, con delibera n. 13 del 18 maggio 2004, il debito fuori bilancio pari ad €uro 54.481,95, scaturito dalla sentenza di condanna n. 2228/2003 del Tribunale di Messina, e contestualmente avevano statuito di ricorrere all’indebitamento per il suo pagamento, mediante l’assunzione di un apposito mutuo presso la Cassa Depositi e Prestiti, per sentirli condannare al pagamento, in favore del Comune di Itala (ME), dell’importo di €uro 1.012,34 pro-capite a titolo di sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), oltre alle spese del procedimento, da liquidarsi, queste ultime, in favore dello Stato.
3. Il giudice remittente ha ritenuto di dover rimettere la prospettata questione di massima a queste Sezioni Riunite, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del decreto legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, tenuto conto sia dei contrasti giurisprudenziali esistenti tra le Sezioni regionali (nessuna pronuncia è stata finora emessa dalle Sezioni Centrali d’Appello) che hanno dato vita a decisioni difformi in rito e in merito, sia della particolare complessità della materia, derivante dalla formulazione sintetica e “atecnica” dell’art. 30, comma 15, della legge n. 289 del 2002. In particolare, la Sezione remittente ha individuato in quelle qui di seguito esposte le principali questioni che hanno fin qui formato oggetto di un contrasto giurisprudenziale.
3.1. In primo luogo, il remittente rileva come, con riferimento al procedimento giurisdizionale da utilizzare per l’applicazione della sanzione de qua, la stessa Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenze n. 2376/2006 e n. 3198/2006) ha ritenuto che il procedimento da utilizzare per l’applicazione della sanzione rientri nell’ambito dei giudizi ad istanza di parte, disciplinati dall’art. 58 del R.D. n. 1038/1933, senza necessità, dunque, per il procuratore agente, di emettere preventivamente l’invito a dedurre, considerato che l’iniziativa non è di competenza esclusiva dello stesso, e che “la configurazione dell’illecito prescinde da una immediata e diretta lesione patrimoniale”; la Sezione Marche (sentenza n. 151/2007) e la Sezione Umbria (sentenza n. 128/2007) hanno ritenuto, per contro, che debba trovare applicazione la disciplina dell’ordinario giudizio di responsabilità, prevista dagli artt. 43 e seguenti del R.D. n. 1038/1933 e dall’art. 5 della legge n. 19/1994, sia perché il giudizio ad istanza di parte è un istituto avente natura residuale e ormai obsoleto, sia perché l’iniziativa spetta esclusivamente all’attore pubblico e non a “chiunque vi abbia interesse” (cfr. pagg. 8 e 9 ordinanza di remissione).
3.2. La Sezione remittente rileva, poi, come con riferimento all’elemento soggettivo richiesto ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria de qua, la Sezione Lazio (sentenza n. 3001/2005) individua lo stesso anche nella colpa lieve, trattandosi di “fattispecie di responsabilità tipizzata dalla stessa legge”; per contro, la stessa Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) e la Sezione Marche (sentenza n. 151/2007), pur condividendo le suddette conclusioni, richiamano i principi di cui all’art. 3 della legge n. 689/1981, per la sua forza espansiva. La Sezione Umbria, poi (sentenza n. 128/2007), sostiene che la sanzione in questione “si caratterizza come una ipotesi di illecito in cui rileva la colpa grave, oltre – come è ovvio – il dolo”, soffermando l’attenzione sulla particolare formulazione letterale della norma, che “non vieta il ricorso all’indebitamento in sé, ma vieta il ricorso all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento”.
3.3. Altra questione oggetto di contrasto giurisprudenziale è, poi, secondo il remittente, la questione dell’elemento oggettivo, ovvero degli elementi necessari ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria, e cioè, se vi sia necessità di portare ad esecuzione la delibera di contrarre un mutuo con la stipula del relativo contratto, o se invece la fattispecie si concretizza con la sola adozione della delibera di contrarre il mutuo. A tale riguardo la Sezione remittente osserva come la stessa Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) e la Sezione Marche (sentenza n. 151/2007) ritengono che, per applicare la sanzione, è sufficiente la semplice adozione della delibera a contrarre un mutuo per far fronte a spese diverse da quelle di investimento in quanto la norma de qua, stante la sua formulazione, non richiede alcun elemento aggiuntivo, ed è tesa a salvaguardare gli equilibri di bilancio e la sana gestione finanziaria dell’ente, beni meritevoli di particolare ed anticipata protezione. La Sezione Lazio (sentenza n. 3001/2005) e la Sezione Umbria (sentenza n. 128/2007), argomentando dal principio di offensività, sostengono, invece, che perché possa applicarsi la sanzione in parola è necessario che la delibera di indebitamento sia stata posta in esecuzione, con la stipula del relativo contratto.
3.4. Una ulteriore questione, a parere del remittente, riguarda il problema della “maturazione del debito”, ovvero, “se, nel caso di delibera per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001 ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito debba ritenersi “maturato” con il deposito della sentenza di condanna stessa o con il momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione”. Osserva, a tale riguardo la Sezione remittente che nel caso di delibera per contrarre un mutuo adottata per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna a pagare una somma di denaro, depositata successivamente al 7 novembre 2001 (data di entrata in vigore della nuova disposizione di cui all’art. 119, comma 6, della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), relativa a “fatti” accaduti precedentemente, la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) sostiene, richiamando l’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000, che il debito debba ritenersi “maturato” al momento del deposito della sentenza stessa, prescindendo “da ogni ulteriore considerazione sulla fonte remota del debito (contratto, fatto illecito o altro fatto o atto idoneo a produrre l’obbligazione, secondo il disposto dell’art. 1173 c.c.)”; la Sezione Lazio (sentenza n. 3001/2005), invece, pur evocando la citata norma, pone l’attenzione sulla circostanza che in caso di sentenza di condanna il “debito non nasce – e quindi – non matura con la sentenza, ma preesiste ad essa, essendo insorto nel momento in cui il soggetto passivo dell’obbligazione avrebbe dovuto effettuare la controprestazione che il giudice accerta non essere stata effettuata e per la quale emette condanna di pagamento a favore del creditore”, con la conseguenza che “si dovrebbe scindere la sorte capitale dagli accessori del credito, la prima restando ancorata alla data della accertata esigibilità del credito e i secondi venendo a compiuta esistenza solo alla data di deposito della sentenza”.
3.5. Un’ultima questione oggetto di contrasto giurisprudenziale è, infine, secondo il remittente, quella dell’ente destinatario della sanzione pecuniaria, essendovi state la Sezione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) e la Sezione Marche (sentenza n. 151/2007) che hanno sostenuto che debba essere lo Stato a dover incassare la sanzione, menzionando, in proposito, la sentenza della Corte Costituzionale n. 187/1999, vista l’assoluta omogeneità tra la sanzione di cui all’art. 46 del R.D. n. 1214/1934 e quella in esame, mentre la Sezione Toscana (sentenza n. 609/2006) ritiene scontato che il destinatario della sanzione debba essere l’ente di appartenenza degli amministratori.
A parere della Sezione remittente l’evidenziato contrasto giurisprudenziale in merito alle questioni sopra prospettate, tutte di indubbia rilevanza, costituisce presupposto idoneo a rimettere gli atti a queste Sezioni Riunite affinché chiariscano, in applicazione dell’art. 1, comma 7, del d.l. n. 453 del 1993, convertito nella legge n. 19 del 1994, quali siano le soluzioni da dare alle stesse, e si pronuncino, in particolare, sulla questione di massima articolata nei seguenti connessi, ma distinti, quesiti:
<<a) il tipo di procedimento giurisdizionale da seguire per applicare la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003);
b) il titolo soggettivo di imputazione della sanzione, e, in particolare, se sia sufficiente la colpa lieve o se sia necessaria la colpa grave, oltre che il dolo;
c) se vi sia necessità di portare ad esecuzione la delibera di contrarre un mutuo con la stipula del relativo contratto;
d) se, nel caso di delibera per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001 ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito debba ritenersi “maturato” con il deposito della sentenza di condanna stessa o con il momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione;
e) se il destinatario dell’introito della sanzione pecuniaria sia lo Stato o l’ente di appartenenza degli amministratori che hanno adottato la delibera>>.
4. Con memoria del 17 ottobre 2007, depositata in atti in pari data, il Procuratore ******** ha rassegnato le proprie considerazioni sulle questioni di massima di cui all’ordinanza in epigrafe. In particolare, con riferimento al primo quesito, riguardante il tipo di procedimento giurisdizionale da seguire per applicare la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, e cioè, se debba o meno, nel relativo giudizio, essere previamente emesso l’invito a dedurre ai sensi dell’art. 5 della legge n. 19 del 1994, la Procura Generale, nel condividere, sul punto, quanto affermato dalla Sezione giurisdizionale per la Sicilia nelle sentenze n. 2376 e 3198 del 2006, e cioè, che <<la mancanza nell’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002 di elementi evocativi la nozione di “responsabilità amministrativa”, espressamente presenti, invece, in altra disposizione della medesima legge (cfr. art. 24, comma 4), costituisce elemento che rafforza la conclusione secondo cui il giudizio della sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002 non è assimilabile ad un ordinario giudizio di responsabilità e, conseguentemente, non è vincolato al rispetto di quei passaggi procedurali imposti dall’art. 5 della legge n. 19/1994>>, ritiene <<di condividere l’orientamento per il quale l’introduzione del giudizio relativo alla fattispecie sanzionatoria in esame non richieda la previa emissione dell’invito a dedurre ex art. 5 della legge n. 19/1994>> (cfr. pag. 21 memoria della Procura generale del 17 ottobre 2007, depositata in atti in pari data 2007).
Con riferimento al secondo quesito, riguardante, come si è detto, il titolo soggettivo di imputazione della sanzione, e cioè, se sia sufficiente la colpa lieve o se sia necessaria la colpa grave, oltre che il dolo, la Procura generale ritiene che la fattispecie in esame non richieda, per il suo perfezionamento, il requisito soggettivo minimo della colpa grave (cfr. pag. 24 memoria della Procura generale del 17 ottobre 2007).
Relativamente al terzo quesito, la Procura generale ritiene <<di poter condividere l’assunto per il quale il perfezionamento della fattispecie prescinde dalla effettiva stipulazione del contratto di mutuo, essendo la norma posta a presidio di corretti comportamenti dei pubblici amministratori a tutela della finanza pubblica, e correlata alla mera assunzione della relativa delibera>> (cfr. pag. 24 memoria della Procura generale del 17 ottobre 2007).
Circa il quarto quesito, relativo alla data di “maturazione” del debito, connesso, in particolare, alla fattispecie di debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva, la Procura generale, nell’osservare come <<nel caso di debito derivante da sentenza esecutiva (art. 194, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000) è alla sentenza (e quindi alla data della sua pubblicazione, che, ai sensi dell’art. 133 c.p.c. avviene con il deposito) che deve farsi riferimento per individuare quando il debito dell’ente, divenendo certo e liquido, è maturato, e non all’obbligazione originaria sorta in base ad una delle fonti ipotizzate dall’art. 1173 c.c. (ad es.: atto illecito dell’ente) e divenuta oggetto di controversia giudiziale definita con la sentenza di condanna dell’ente>> (cfr. pag. 30 memoria della Procura generale del 17 ottobre 2007), chiede che al quesito sia data risposta nel senso di ritenere che <<la data di maturazione del debito debba essere individuata nel momento del deposito della sentenza esecutiva>> (cfr. pag. 24 memoria della Procura generale del 17 ottobre 2007).
Per quanto concerne, infine, il quinto quesito, relativo alla individuazione del soggetto che deve introitare la sanzione, la Procura generale ritiene che il destinatario dell’importo della sanzione debba essere individuato nell’erario statale (cfr. pag. 34 memoria della Procura generale del 17 ottobre 2007).
5. I convenuti nel giudizio innanzi alla Sezione remittente non hanno depositato atti difensivi nel presente giudizio.
6. All’udienza pubblica odierna, in assenza di rappresenti dei convenuti, il rappresentante del pubblico ministero, nel richiamarsi alla memoria già versata in atti, ha diffusamente illustrato le argomentazioni in essa prospettate, ribadendo le conclusioni già rassegnate per iscritto. Sentito l’intervento del rappresentante della Procura generale, in assenza di rappresentanti di altre parti, la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
1. Con l’ordinanza in epigrafe la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana ha chiesto a queste Sezioni Riunite di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, sulla questione di massima articolata nei seguenti connessi, ma distinti, quesiti:
a) il tipo di procedimento giurisdizionale da seguire per applicare la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003);
b) il titolo soggettivo di imputazione della sanzione, e, in particolare, se sia sufficiente la colpa lieve o se sia necessaria la colpa grave, oltre che il dolo;
c) se vi sia necessità di portare ad esecuzione la delibera di contrarre un mutuo con la stipula del relativo contratto;
d) se, nel caso di delibera per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001 ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito debba ritenersi “maturato” con il deposito della sentenza di condanna stessa o con il momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione;
e) se il destinatario dell’introito della sanzione pecuniaria sia lo Stato o l’ente di appartenenza degli amministratori che hanno adottato la delibera.
Come si è detto in narrativa, la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana ha ritenuto di dover rimettere la prospettata questione di massima a queste Sezioni Riunite, avendo riscontrato nella giurisprudenza fin qui intervenuta sulla applicazione della sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003) un contrasto giurisprudenziale in ordine ai punti summenzionati, nei termini già esposti in narrativa.
2. Ciò premesso, giova ricordare che l’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003) prevede che <<qualora gli enti territoriali ricorrano all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell’articolo 119 della Costituzione, i relativi atti e contratti sono nulli>>, aggiungendo, nella seconda parte della norma, che <<le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte l’indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione>> (art. 30, comma 15, legge 27 dicembre 2002, n. 289).
Con tale disposizione il legislatore, a fronte del ricorso all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell’art. 119 della Costituzione, ha previsto, quindi, una duplice sanzione: da un lato, ha sancito, sul piano oggettivo, e civilistico, la nullità degli atti e contratti relativi all’indebitamento, dall’altro, ha introdotto, sul piano soggettivo, e cioè, sul piano della responsabilità dei soggetti che abbiano deliberato il ricorso all’indebitamento in violazione del predetto divieto, una sanzione pecuniaria pari a un multiplo dell’indennità di carica percepita.
Come è dato rilevare dal testo della disposizione in esame, in essa si fa espresso riferimento all’art. 119, sesto comma, della Costituzione (come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) nella parte in cui, per l’appunto, sancisce che <<i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (…) possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento>>. Il principio, elevato nel 2001 al rango di norma costituzionale, e il cui bene-valore tutelato è agevolmente individuabile negli “equilibri di bilancio”, e finalizzato sostanzialmente al contenimento dell’indebitamento, ritenuto – evidentemente – una delle cause primarie degli squilibri di bilancio, consentendolo “solo per finanziare spese di investimento”, era in realtà già presente nel testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che all’art. 202, comma 1, prevedeva, appunto, che <<il ricorso all’indebitamento (..) è ammesso esclusivamente nelle forme previste dalle leggi vigenti in materia e per la realizzazione degli investimenti>> (la norma rappresenta, peraltro, la trasposizione nel testo unico del previgente art. 44, comma 1, del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77).
Nell’originaria previsione del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, tuttavia, sussisteva una importante deroga al suddetto divieto, essendo consentito l’indebitamento come extrema ratio per far fronte ai “debiti fuori bilancio” riconosciuti come legittimi (cfr. art. 194, co. 1, in combinato disposto con il comma 3 dello stesso art. 194 e con il citato art. 202). Dopo la citata riforma costituzionale, essendo venuta meno tale deroga, il legislatore è dovuto nuovamente intervenire per meglio definire (e in qualche misura mitigare) l’ambito temporale di applicazione del divieto in discorso, chiarendo che <<per il finanziamento di spese di parte corrente, il comma 3 dell’articolo 194 del citato testo unico (..) si applica limitatamente alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data di entrata in vigore>> della citata legge costituzionale, e cioè all’8 novembre 2001 (art. 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 – legge finanziaria 2002).
L’ambito soggettivo di applicazione della norma, mediante l’individuazione dei soggetti interessati al divieto, nonché le nozioni di “indebitamento” e di “investimento”, sono state poi precisate dall’art. 3, commi 16 e seguenti, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004). Con l’art. 5 del d.l. 29 marzo 2004, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, il legislatore ha ribadito il vincolo in parola anche con riferimento agli enti dissestati, prevedendo che le disposizioni del d.lgs. n. 267/2000 <<che disciplinano l’assunzione di mutui per il risanamento dell’ente locale dissestato, nonché la contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento non trovano applicazione nei confronti degli enti locali che hanno deliberato lo stato di dissesto finanziario a decorrere>> dall’8 novembre 2001.
Preme ricordare, peraltro, che allo stato della vigente legislazione posta a tutela della finanza pubblica, il rispetto del suddetto divieto di indebitamento, insieme al rispetto del c.d. “patto di stabilità interno”, rappresenta un elemento di centrale rilevanza <<ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica>> (cfr. art. 1, commi 166 e 167, legge 23 dicembre 2005, n. 266 – legge finanziaria 2006).
3. Così ricostruito il contesto normativo di riferimento della disposizione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, va anche rilevato come la stessa configuri una particolare fattispecie di responsabilità sanzionatoria che differisce e va tenuta nettamente distinta dalla ordinaria responsabilità amministrativa-contabile “per danno” di tipo risarcitorio, di cui solitamente conosce il giudice contabile. In proposito giova considerare, infatti, che la potenziale lesione degli equilibri di bilancio, che trova sanzione nella norma in commento, prescinde dal verificarsi di un “danno” risarcibile in senso proprio; peraltro, i due profili (quello sanzionatorio e quello risarcitorio), pur restando divisi, possono tuttavia coesistere, qualora, in conseguenza della violazione del vincolo costituzionale, venga a verificarsi per l’amministrazione pubblica anche un danno patrimonialmente valutabile (cfr., in terminiis, Sez. giur. Lazio, 20 dicembre 2005, n. 3001). Mentre, infatti, la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio di cui solitamente conosce la Corte è finalizzata al risarcimento del danno patrimoniale subìto dall’amministrazione pubblica in relazione alla violazione di obblighi di servizio, nella fattispecie in parola la violazione del vincolo costituzionale di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione, viene sanzionata a prescindere dalla produzione di un danno, avendo il legislatore ritenuto meritevole di particolare protezione la regola dell’equilibrio di bilancio anche quando la sua violazione non comporti un danno attuale e concreto valutabile economicamente, ma soltanto il pericolo di disequilibri che incidano negativamente sulla stabilità della finanza pubblica nel suo complesso. In considerazione di ciò, è irrilevante – ai fini della irrogazione della sanzione – che la violazione del divieto costituzionale abbia cagionato un danno, tenuto conto, altresì, che la sanzione è commisurata a parametri certi (le indennità percepite dagli amministratori al momento della violazione) ed è irrogabile, nei limiti minimo e massimo individuati dalla legge stessa, in ragione della mera potenzialità lesiva insita nella violazione del vincolo costituzionale di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione. In considerazione di ciò, questo particolare tipo di responsabilità amministrativa (quella sanzionatoria) – al contrario della responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che non può sussistere se non in presenza di un danno risarcibile – non implica necessariamente la sussistenza di un danno patrimoniale, in quanto, essendo di tipo sanzionatorio e non risarcitorio, può sussistere pur allorquando non si sia verificato alcun danno patrimonialmente rilevante per le finanze dell’ente di appartenenza dell’amministratore o del dipendente pubblico che abbia violato il precetto previsto dalla legge, e a cui la legge stessa riconnette l’applicazione di una sanzione. Ciò è a dire che, ai fini della sussistenza della responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio non occorre, da parte del giudice, verificare la sussistenza di un danno ingiusto risarcibile, non essendo, appunto, una forma di responsabilità per danno, ma è necessario che si accerti la mera violazione del precetto previsto dalla legge, oltre, ovviamente, l’elemento psicologico. E’ evidente, peraltro, che, ove quella stessa condotta illecita dovesse cagionare un danno patrimoniale, economicamente valutabile, la fattispecie comporterebbe altresì la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che – come è noto – è configurata dal legislatore mediante il ricorso ad una clausola generale, secondo cui la responsabilità discende dall’aver cagionato un danno patrimoniale all’amministrazione pubblica, in violazione degli obblighi di servizio e con comportamenti omissivi o commissivi connotati dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave.
3.1. La sanzione in parola si inquadra in quel sistema tipizzato di fattispecie di responsabilità sanzionatoria che si è venuto delineando, negli ultimi anni, mediante la previsione, sul piano legislativo, di fattispecie tipizzate di illeciti amministrativo-contabili, che si aggiungono alle tradizionali fattispecie di responsabilità sanzionatoria già conosciute dall’ordinamento e rientranti nella giurisdizione della Corte dei conti, come, ad esempio, quella prevista dal combinato disposto delle disposizioni di cui agli artt. 45, comma 2, lett. c), e 46, comma 1, del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, che stanno dando luogo ad un vero e proprio sistema sanzionatorio contabile (cfr. Sez. giur. Umbria, 8 maggio 2007, n. 128) che si affianca, nella tutela delle risorse pubbliche, al sistema tradizionale della responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio basato sulla clausola generale del risarcimento dei danni.
4. Il fatto che la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002 configuri una particolare fattispecie di responsabilità sanzionatoria devoluta alla giurisdizione della Corte dei conti, non deve indurre, peraltro, a ritenere, sul piano teorico ricostruttivo, che la responsabilità amministrativa abbia, in via generale, una connotazione sanzionatoria piuttosto che risarcitoria. Ed infatti, fermo restando che la responsabilità amministrativa per danno ha, in via generale, sicuramente natura risarcitoria, il fatto che quella prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002 configuri una particolare fattispecie di responsabilità sanzionatoria non solo non costituisce argomento decisivo per ritenere, sul piano teorico ricostruttivo, che la responsabilità amministrativa abbia, in via generale, una connotazione sanzionatoria piuttosto che risarcitoria, ma induce, per contro, a ritenere che, alla luce dell’ordinamento vigente, la stessa (la responsabilità di tipo sanzionatorio) è sicuramente compatibile, nel sistema delle responsabilità devolute alla cognizione della Corte dei conti, con la stessa responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio.
In proposito giova considerare, infatti, che l’art. 103, comma 2, della Costituzione, nel prevedere e disciplinare la giurisdizione della Corte dei conti prevede espressamente che <<la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge>>, così attribuendo alla giurisdizione del giudice contabile non solo, in via generale, la responsabilità amministrativa per danno, e quindi di tipo risarcitorio, generica, nel senso di responsabilità non tipizzata, che trova comunque la sua fonte <<nelle materie di contabilità pubblica>> (prima parte della disposizione di cui all’art. 103, comma 2, Cost.), ma anche, in via speciale, le altre fattispecie di responsabilità di tipo non risarcitorio, quali possono essere, appunto, le fattispecie di responsabilità sanzionatoria come quella prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, o come quella prevista dal combinato disposto delle disposizioni di cui agli artt. 45, comma 2, lett. c), e 46, comma 1, del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, e che trovano la loro fonte e la loro previsione, a livello costituzionale, <<nelle altre (materie – ndr) specificate dalla legge>> (seconda parte della disposizione di cui all’art. 103, comma 2, Cost.), o addirittura nella stessa prima parte della stessa disposizione costituzionale, disciplinando essa comunque un istituto – come quello del divieto di indebitamento – sicuramente rientrante <<nelle materie di contabilità pubblica>>.
5. Così ricostruito, sul piano teorico e a livello costituzionale, il quadro di riferimento della responsabilità amministrativa per danno, di tipo risarcitorio, e la responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, è appena il caso di osservare che le stesse sono entrambe riconducibili alla più generale categoria della responsabilità amministrativa degli amministratori e dei dipendenti pubblici devoluta alla giurisdizione della Corte dei conti, in quanto compatibili – come si è detto – non solo sul piano normativo, e segnatamente a livello costituzionale, ma anche sul piano concettuale, fermo restando che esse hanno natura e disciplina normativa diversa.
Ed infatti, mentre la prima (la responsabilità amministrativa per danno, di tipo risarcitorio), è – come si è detto – un tipo di responsabilità generica, nel senso che non è tipizzata né nei comportamenti, né nella quantificazione del debito – né potrebbe esserlo – e che, in quanto risarcitoria, si configura, come è noto, ogni qualvolta vi sia un danno patrimoniale risarcibile, economicamente valutabile, attuale e concreto, sofferto dall’amministrazione pubblica, sempreché il comportamento omissivo o commissivo del soggetto, o dei soggetti, a cui il danno è ricollegabile sia connotato dall’elemento psicologico del dolo o della colpa grave, la seconda (la responsabilità amministrativa sanzionatoria) è un tipo di responsabilità amministrativa che non può essere generica, ma tipizzata, in quanto, essendo di tipo sanzionatorio, le relative fattispecie devono necessariamente corrispondere ai parametri costituzionali di cui al summenzionato art. 25 della Costituzione, e cioè, al principio di stretta legalità nella molteplice accezione della tipicità, della tassatività (nel senso che le fattispecie legali non sono suscettibili di interpretazione analogica), della determinatezza, e della specificità (nel senso che la legge deve molto puntualmente indicare ogni elemento dell’intera fattispecie sanzionatoria, e cioè, sia con riferimento al precetto che alla sanzione).
6. Tutto ciò premesso sul piano dei principi e sul piano della ricostruzione sistematica delle diverse forme di responsabilità rientranti nella giurisdizione della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, comma 2, della Costituzione, passando alla soluzione dei quesiti prospettati con l’ordinanza in epigrafe, deve rilevarsi che il giudice remittente chiede, in primo luogo, di pronunciarsi in ordine al “tipo di procedimento giurisdizionale da seguire per applicare la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003)” (primo quesito).
Sebbene la legge nulla dica in ordine al tipo di procedimento da seguire per l’applicazione, da parte delle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, della sanzione in parola, queste Sezioni Riunite ritengono che debba essere seguita, al riguardo, la disciplina dell’ordinario giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti prevista dagli artt. 43 e seguenti del R.D. n. 1038/1933 e dall’art. 5 della legge n. 19/1994, non potendo trovare applicazione, in tali ipotesi, le modalità procedurali previste dal capo terzo del R.D. 13 agosto 1933, n. 1038 sui giudizi ad istanza di parte (artt. dal 52 al 59), come pure è stato sostenuto (cfr. Sez. giur. Regione Siciliana, n. 2376/2006 e n. 3198/2006). Queste ultime, infatti, mal si adattano alla applicazione della sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, sia perché il giudizio ad istanza di parte è un istituto avente natura residuale che presuppone un’azione di privati, sia perché l’iniziativa, nel caso di specie, spetta esclusivamente all’attore pubblico e non a “chiunque vi abbia interesse”, stante anche la obbligatorietà e la non rinunciabilità della relativa azione, da rapportare in via esclusiva al pubblico ministero contabile, portatore dell’interesse al corretto funzionamento della contabilità pubblica, in una con l’azione erariale di danno (cfr. Sez. giur. Umbria, n. 128/2007), e senza che possa configurarsi una sorta di azione popolare non prevista dalla legge.
A tale riguardo preme rilevare, infatti, che il “giudizio ad istanza di parte” ex art. 58 del R.D. n. 1038/1933, è intrinsecamente inidoneo a dare compiuta disciplina processuale alla fattispecie sanzionatoria in parola, né appare verosimile sostenere che chiunque potrebbe agire per l’applicazione della sanzione in base ad una mera e del tutto atipica “istanza”, ex art. 1 del R.D. n°1038/1933. In proposito giova considerare, infatti, in primo luogo, che l’art. 1 del R.D. n. 1038/1933 si riferisce essenzialmente alle “istanze” dei privati intese come ricorsi, mentre nel successivo articolo 2 del medesimo testo normativo si parla degli “atti che promanano dal Procuratore” in ipotesi in cui sia stato sollecitato da istanze di terzi, da intendersi quali denunce.
Alla stregua di tali considerazioni queste Sezioni Riunite ritengono, quindi, che alla fattispecie sanzionatoria in parola debba essere applicata la disciplina dell’ordinario giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti prevista dagli artt. 43 e seguenti del R.D. n. 1038/1933 e dall’art. 5 della legge n. 19/1994, con il conseguente obbligo, per il pubblico ministero agente, di emettere preventivamente l’invito a dedurre; ciò, anzitutto, al fine di una maggiore garanzia del contraddittorio con i presunti responsabili dell’illecito, atteso che la possibilità di una maggiore e più ponderata valutazione delle ragioni e circostanze addotte dalla parte convenuta possono essere maggiormente salvaguardate con la predisposizione e l’invio dell’invito a dedurre; il quale, altresì, si appalesa utile per anche l’economia processuale, ove le deduzioni di parte dovessero portare ad una archiviazione della vertenza.
7. Un ulteriore quesito prospettato dal remittente riguarda “il titolo soggettivo di imputazione della sanzione”, essendo stato prospettato il dubbio, “in particolare, se (ai fini della applicazione della sanzione) sia sufficiente la colpa lieve o se sia necessaria la colpa grave, oltre che il dolo” (secondo quesito).
In proposito queste Sezioni Riunite ritengono che ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, e della conseguente applicazione della sanzione ivi prevista, sia necessaria la sussistenza della colpa grave, o, ovviamente, del dolo, e ciò nella considerazione, desunta dal dato letterale della norma, che la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, nel disciplinare l’elemento soggettivo ai fini della sussistenza della “responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”, stabilisce espressamente che <<la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità, nel merito, delle scelte discrezionali>> (art. 1, comma 1, legge n. 20/1994 come modificato dall’art. 3, comma 1, legge n. 639/1996).
In altre parole, pur alla luce delle diverse posizioni assunte, sul piano giurisprudenziale, dalle sezioni che si sono fin qui pronunciate sulla questione, e che oscillano tra il ritenere necessaria la “colpa grave” (cfr. Sez. giur. Umbria, n. 128/2007), e il ritenere sufficiente una qualsiasi colpa, seppur lieve (cfr. Sez. giur. Lazio, n. 3001/2005) o “lievissima”, secondo i principi generali in materia di sanzioni amministrative di cui all’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (cfr. Sez. giur. Regione Siciliana, n. 3198/2006, Sez. giur. Marche, n. 151/2007), queste Sezioni Riunite ritengono che non possa, in ogni caso, prescindersi dal dato letterale della citata disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, in cui il legislatore, senza operare alcuna distinzione fra le diverse forme di responsabilità (responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio e responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, come quella in parola), ha stabilito espressamente che <<la responsabilità (senza alcuna distinzione – ndr) dei soggetti (comunque – ndr) sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica (e non v’è dubbio alcuno che, sulla base di quanto sopra si è detto, anche la fattispecie sanzionatoria in parola rientri fra le materie di contabilità pubblica – ndr) è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave (..)>>.
Sulla base di tale considerazione, da ritenere assorbente e decisiva rispetto ad ogni altra, si ritiene che il titolo soggettivo di imputazione della sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, debba essere determinato e valutato ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, e che pertanto, ai fini della applicazione della sanzione in parola nei confronti degli amministratori che abbiano deliberato il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento, è necessario che ricorra, nella fattispecie concreta, l’elemento soggettivo della colpa grave, o, ovviamente, del dolo. Spetta poi al giudice di merito valutare le singole fattispecie ed enucleare una casistica idonea a formare utili precedenti giurisprudenziali sulla gravità dei comportamenti tenuti dagli amministratori.
8. Il giudice remittente chiede, poi, di far conoscere “se ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria vi sia necessità di portare ad esecuzione la delibera di contrarre un mutuo con la stipula del relativo contratto o se invece la fattispecie si concretizza con la sola adozione della delibera di contrarre il mutuo” (terzo quesito).
Sul punto, come rappresenta il remittente, si è registrato un contrasto giurisprudenziale in quanto, la stessa Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) e la Sezione Marche (sentenza n. 151/2007) hanno ritenuto che, per applicare la sanzione, è sufficiente la semplice adozione della delibera a contrarre un mutuo per far fronte a spese diverse da quelle di investimento, e ciò nella considerazione che la norma de qua, stante la sua formulazione, non richiede alcun elemento aggiuntivo ed è tesa a salvaguardare gli equilibri di bilancio e la sana gestione finanziaria dell’ente, beni meritevoli di particolare ed anticipata protezione, mentre la Sezione Lazio (sentenza n. 3001/2005) e la Sezione Umbria (sentenza n. 128/2007), argomentando dal principio di offensività, hanno sostenuto, per contro, che la delibera di indebitamento debba essere posta ad esecuzione, con la stipula del relativo contratto.
Al riguardo queste Sezioni Riunite ritengono che ai fini della integrazione della fattispecie sanzionatoria in parola sia necessario che la delibera di contrarre un mutuo venga portata ad esecuzione mediante la stipula del relativo contratto, non essendo sufficiente, al fine suddetto, la sola adozione della delibera di contrarre il mutuo. Come è stato già osservato, infatti, non sussiste alcun dubbio sul fatto che la violazione del divieto costituzionale trovi il suo momento genetico nell’adozione dell’atto deliberativo con il quale gli amministratori di un ente territoriale stabiliscano di dare copertura a spese di parte corrente non con entrate ordinarie, bensì mediante indebitamento. Ed, infatti, la disposizione di cui al summenzionato art. 30, comma 15, prevede che la sanzione pecuniaria venga irrogata nei confronti degli amministratori che assunsero la delibera e rapporta la sanzione all’indennità di carica percepita al momento della commissione della violazione; momento che non può essere individuato in altro che in quello della adozione della delibera. E’ altrettanto indubbio, tuttavia, che in ipotesi del genere l’indebitamento non dovrebbe, di regola, concretizzarsi, tenuto conto che la norma in discussione – contestualmente alla previsione della sanzione pecuniaria – commina la nullità dei “relativi atti e contratti”; nullità che rende inefficaci ed improduttivi di ogni effetto sia la delibera di ricorso al finanziamento, sia il contratto stipulato con l’ente erogatore del finanziamento. Tali circostanze inducono a ritenere che la disposizione intenda sanzionare la condotta degli amministratori che, agendo in dispregio dei vincoli costituzionali, pongano l’ente territoriale in una situazione di pericolo, quale è quella che si verifica quando vengano minacciati gli equilibri di bilancio dell’ente stesso, così come voluti ed imposti dal legislatore nazionale a tutela degli equilibri più generali della finanza pubblica; equilibri che sono stati costituzionalmente definiti anche in termini di pareggio tra entrate e spese di parte corrente. Ma se così è, deve ritenersi che la situazione di pericolo si verifichi non nel momento in cui viene adottata la delibera, bensì nel momento in cui la delibera viene portata ad esecuzione; è, infatti, solo in questo momento che il pericolo di squilibrio del bilancio si attualizza e diviene concreto. Diversamente opinando, la sanzione dovrebbe essere applicata in ogni caso e comunque, anche quando, ad esempio, la delibera venga revocata dagli stessi amministratori che l’abbiano adottata, con la conseguenza che la norma verrebbe, in tal modo, ad essere intesa in senso talmente formalistico da non tenere conto neppure della complessità dell’agire amministrativo. Va, del resto, considerato che, aderendo all’interpretazione più rigorosa della norma, si perverrebbe all’esito di sanzionare non tanto il pericolo dello squilibrio di bilancio, quanto il rischio che si verifichi una situazione di pericolo; il che, invero, non appare conforme alla ratio della norma all’esame (cfr. Sez. giur. Lazio, n. 3001/2005).
A tale conclusione induce altresì la considerazione che la disposizione in parola contiene, come già si è detto, la previsione di due reazioni alla violazione del divieto costituzionale, e cioè, una sanzione oggettiva, consistente nella comminatoria di nullità dell’atto deliberativo e del contratto di finanziamento, e una sanzione personale, consistente nella irrogazione di una sanzione pecuniaria a carico dei trasgressori. Tali reazioni appaiono, peraltro, strettamente correlate l’una all’altra, tanto che la sanzione pecuniaria sembra configurarsi quale conseguenza ulteriore rispetto alla nullità degli atti (.. i relativi atti e contratti sono nulli … Le Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria ..). A ciò si aggiunga, inoltre, che le sanzioni sono espressamente collegate al ricorso all’indebitamento (“Qualora gli enti locali ricorrano all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento”) ed appaiono, quindi, testualmente riferite ed ancorate all’ipotesi in cui sia stata portata a compimento un’operazione di accensione di mutuo o di finanziamento di altro genere, e cioè, ad un’operazione che inizia con l’atto deliberativo ma che si perfeziona solo quando il mutuo sia stato stipulato (cfr. Sez. giur. Lazio, n. 3001/2005).
Né a diverse conclusioni induce il fatto che la norma faccia espresso riferimento alla responsabilità di coloro che “adottarono la delibera”. Al riguardo giova considerare che gli illeciti sottoposti alla giurisdizione contabile in generale, e segnatamente quello previsto dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, hanno natura di illeciti di evento e non di mera condotta, con la conseguenza che sebbene la norma faccia espresso riferimento alla responsabilità di “coloro che adottarono la delibera”, ciò vale esclusivamente al fine di identificare coloro che della violazione debbono rispondere per avere dato luogo a quell’evento (la concreta contrazione dell’indebitamento) che costituisce la "violazione", il cui effettivo verificarsi e concretizzarsi soltanto giustifica ed impone, conformemente alla lettera della norma, l’irrogazione della sanzione (cfr. Sez. giur. Toscana, n. 609/2006).
Alla stregua di tali considerazioni, si ritiene, in conformità al c.d. principio di “offensività in concreto” (cfr. Sez. giur. Umbria, n. 128/2007), che la fattispecie sanzionatoria in parola si consumi non già con la mera “assunzione della delibera di indebitamento”, ma con l’effettiva esecuzione di tale delibera e, dunque, con la stipula del relativo contratto e con il conseguente reale “indebitamento dell’ente”.
9. Occorre, poi, chiarire, essendo stato chiesto dal remittente a queste Sezioni Riunite, “se, nel caso di delibera per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001 ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito debba ritenersi “maturato” con il deposito della sentenza di condanna stessa, o con il momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione” (quarto quesito).
Come espone il remittente, sul punto la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) sostiene, richiamando l’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000, che il debito debba ritenersi “maturato” al momento del deposito della sentenza stessa, prescindendo “da ogni ulteriore considerazione sulla fonte remota del debito (contratto, fatto illecito o altro fatto o atto idoneo a produrre l’obbligazione, secondo il disposto dell’art. 1173 c.c.); la Sezione Lazio (sentenza n. 3001/2005), invece, pur evocando la citata norma, pone l’attenzione sulla circostanza che in caso di sentenza di condanna il “debito non nasce – e quindi – non matura con la sentenza, ma preesiste ad essa, essendo insorto nel momento in cui il soggetto passivo dell’obbligazione avrebbe dovuto effettuare la controprestazione che il giudice accerta non essere stata effettuata e per la quale emette condanna di pagamento a favore del creditore”.
In proposito giova considerare che la formula “debiti maturati”, utilizzata recentemente con sempre maggiore frequenza dal legislatore in provvedimenti legislativi (anche in epoca più recente rispetto al provvedimento in esame: cfr., tra i tanti, art. 91 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; artt. 39-quater e 39-decies del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273; art. 3 del d.l. 19 novembre 2004, n. 277) anche afferenti la disciplina degli enti locali (artt. 6 e 12 del d.P.R. 24 agosto 1993, n. 378), non risulta indicativa di un concetto giuridico univoco e determinato, né di essa sono rinvenibili nozioni legislative di settore esportabili, o quantomeno utilizzabili come parametro di orientamento, in settori diversi. Ciò premesso, deve considerarsi che, nella fattispecie sanzionatoria che qui ne occupa il termine “maturato” non si riferisce genericamente ai “debiti” gravanti sull’ente territoriale, bensì costituisce il predicato dei “debiti fuori bilancio”. E’ a tale formula complessa, quindi, che bisogna avere riguardo per individuare il momento della maturazione, tenuto conto che la problematica deve essere vista in un contesto giuscontabile e non civilistico.
Ciò chiarito, deve rilevarsi che l’art. 194 del d.lgs. n. 267/2000, nel disciplinare il riconoscimento di legittimità dei debiti fuori bilancio, espressamente contempla i debiti fuori bilancio “derivanti da” sentenze esecutive (comma 1, lett. a). Dunque, a differenza delle altre fattispecie di debiti fuori bilancio (che può dirsi che maturino con la delibera di riconoscimento), nel caso della sentenza esecutiva il comando del giudice esclude ogni discrezionalità e sposta a monte il momento della maturazione del debito. A prescindere da ogni ulteriore considerazione sulla fonte remota del debito stesso (contratto, fatto illecito o altro fatto o atto idoneo a produrre l’obbligazione, secondo il disposto dell’art. 1173 c.c.), ciò che rileva, ai fini della soluzione della questione in parola, è la sentenza esecutiva da cui è derivato il debito fuori bilancio che l’ente intende pagare procurandosi la provvista mediante la stipulazione di un mutuo. Da ciò consegue che, poiché la sentenza esecutiva che da luogo al debito fuori bilancio viene ad esistenza nel momento della pubblicazione, è a tale momento che deve farsi riferimento ai fini della “maturazione” dello stesso debito fuori bilancio.
Per concludere, queste Sezioni Riunite ritengono che nel caso di una delibera di indebitamento per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001 (data di entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 119, comma 6, della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito debba ritenersi “maturato” al momento del deposito della sentenza stessa, a prescindere da ogni ulteriore considerazione sulla fonte remota del debito (contratto, fatto illecito o altro fatto o atto idoneo a produrre l’obbligazione, secondo il disposto dell’art. 1173 c.c.), e non già al momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione da cui sia scaturita, in seguito, la sentenza esecutiva.
10. Da ultimo occorre chiarire quale sia il destinatario della sanzione, essendo stato chiesto di far conoscere “se il destinatario della sanzione pecuniaria sia lo Stato o l’ente di appartenenza degli amministratori che hanno adottato la delibera di indebitamento” (quinto quesito).
Sul punto, come espone lo stesso remittente, la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana (sentenza n. 3198/2006) e la Sezione Marche (sentenza n. 151/2007) hanno sostenuto che debba essere lo Stato a dover incassare la sanzione, menzionando, in proposito, la sentenza della Corte Costituzionale n. 187/1999, vista l’assoluta omogeneità tra la sanzione di cui all’art. 46 del R.D. n. 1214/1934 e quella in esame, mentre la Sezione giurisdizionale per la Toscana (sentenza n. 609/2006) ritiene scontato che il destinatario della sanzione debba essere il Comune di appartenenza degli amministratori.
In proposito queste Sezioni Riunite ritengono che il destinatario della sanzione debba essere individuato nell’ente di appartenenza degli amministratori condannati, e ciò nella considerazione che la sanzione deve ritenersi direttamente collegata e finalizzata al ristoro del bene-valore leso, o comunque messo in pericolo, dalla condotta degli amministratori, e cioè, in primo luogo, dell’equilibrio di bilancio dell’ente di appartenenza degli amministratori che hanno deliberato l’indebitamento (cfr. Sez. giur. Toscana, 31 ottobre 2006, n. 609), ristoro cui consegue indirettamente il rispetto del patto di stabilità interno.
Inconferente appare, peraltro, ai fini che qui ne occupa, il riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 187 del 25 maggio 1999. E’ sì vero, infatti, che in quella occasione il giudice delle leggi, nel pronunciarsi in sede di risoluzione di un conflitto di attribuzioni sollevato dalla Regione Siciliana sulla questione della spettanza all’erario statale ovvero a quello regionale di una sanzione pecuniaria irrogata dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana per omessa presentazione dei conti giudiziali, ai sensi dell’art. 46 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, ha dichiarato che <<spetta allo Stato (…) di fare propria l’entrata derivante dalla sanzione pecuniaria>> (Corte Cost. 25 maggio 1999, n. 187), affermando che quel provento non integra un’entrata che, a norma degli artt. 36 dello statuto della Regione Siciliana e 2 e 3 del decreto presidenziale di attuazione n. 1074 del 1965, è di spettanza regionale; ma è altrettanto vero che la sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, ora in esame, non è affatto omogenea rispetto a quella comminata dall’art. 46 del R.D. 1214/1934, il che rende del tutto inconferente, ai fini che qui ne occupa, il riferimento alla predetta sentenza del giudice delle leggi n. 187 del 1999, e poco convincente la conclusione secondo cui il beneficiario del provento della sanzione pecuniaria in discorso debba essere lo Stato e non anche l’ente di appartenenza degli amministratori che hanno adottato la delibera di indebitamento.
11. Sulla scorta di tali considerazioni queste Sezioni Riunite ritengono che ai quesiti prospettati con la questione di massima deferita dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana con l’ordinanza n. 217/2007 del 19 luglio 2007 indicata in epigrafe, debba essere data soluzione nei termini suesposti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE DEI CONTI
A SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE
definitivamente pronunciando ai sensi dell’art. 1, comma 7, del decreto legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19, dichiara che ai quesiti prospettati con la questione di massima iscritta al n. 238/SR/QM del registro di Segreteria delle Sezioni Riunite, deferita dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana con ordinanza n. 217/2007 del 19 luglio 2007 indicata i epigrafe, debba essere data soluzione nei termini seguenti:
a) il tipo di procedimento giurisdizionale da seguire per applicare la sanzione prevista dall’art. 30, comma 15, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003) deve essere quello previsto per l’ordinario giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti di cui agli artt. 43 e seguenti del R.D. n. 1038/1933 e all’art. 5 della legge n. 19/1994, non potendo trovare applicazione, in tali ipotesi, la modalità procedurale prevista dall’art. 58 del R.D. 13 agosto 1933, n. 1038 relative ai giudizi ad istanza di parte;
b) ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, il titolo soggettivo di imputazione della sanzione deve essere determinato e valutato ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, e pertanto, ai fini della applicazione della sanzione in parola nei confronti degli amministratori che abbiano deliberato il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento, è necessario che ricorra, nella fattispecie concreta, l’elemento soggettivo della colpa grave, o, ovviamente, del dolo;
c) ai fini della integrazione della fattispecie sanzionatoria in parola è necessario che la delibera di contrarre il mutuo venga portata ad esecuzione mediante la stipula del relativo contratto, non essendo sufficiente, al fine suddetto, la sola adozione della delibera di contrarre il mutuo stesso.
d) nel caso di una delibera di indebitamento per far fronte ad una sentenza esecutiva di condanna emessa successivamente al 7 novembre 2001, ma relativa a fatti accaduti precedentemente alla predetta data, il debito deve ritenersi “maturato” al momento del deposito della sentenza stessa e non già al momento – antecedente – in cui l’ente, soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria, avrebbe dovuto eseguire la controprestazione da cui è scaturita, in seguito, la sentenza esecutiva;
e) l’ente destinatario della sanzione va individuato nell’ente di appartenenza degli amministratori condannati.
Dispone la restituzione degli atti alla Sezione remittente per la definizione del relativo giudizio.
Nulla per le spese.
Manda alla Segreteria per i conseguenti adempimenti.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 14 novembre 2007.
Depositata in Segreteria il giorno 27 dicembre 2007
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