Revoca del fallimento per insussistenza fattuale e giuridica dell’impresa commerciale-l’impresa commerciale-l’imprenditore agricolo, il d.lgs.228/01 e il “fattore terra”- la coerenza del bene immobile aggredito dai creditori con la destinazione e l’utilizzazione effettiva -la prova processuale
la pronuncia della Corte d’appello veneziana di cui in oggetto pone problematiche interessanti sulla ricognizione di criteri identificativi inerenti la qualità commerciale di un’impresa.
In fatto, il reclamante ex art.18 l. fallimentare è una srl, i cui beni conferiti corrispondono, principalmente, ad un fondo agricolo.
Questo fondo agricolo, fin dal 1996, era sempre stato coltivato a vigneto per produzione vinicola dall’attuale rappresentante legale, che all’epoca operava come imprenditore agricolo individuale in affitto . Acquistato il fondo locato, egli l’aveva alienato alla snc costituita ad hoc con la moglie. La snc, nel 2009, si trasformava in srl; dopodichè, contraeva un mutuo finalizzato alla realizzazione di un immobile costituito da abitazione e cantina. Dopo vari contrasti inerenti i lavori eseguiti, l’appaltatrice dell’opera di costruzione poneva all’incasso un assegno rilasciato in garanzia. Tale incasso provocava l’interruzione della normale operatività bancaria della srl reclamante, inducendola a ridimensionare i propri programmi. Essa, infatti, provvedeva a limitarsi ad una piccola coltivazione orticola e alla cura del bosco, affittando il fondo ad un terzo. Sotto il profilo processuale, il creditore istante non aveva mai ottenuto un titolo esecutivo e pretendeva di agire sulla base di un riconoscimento di debito riferito al rapporto di appalto; vero è che, nelle considerazioni della corte, tale credito doveva ritenersi, se non inesistente, spropositato. Ed inoltre i lavori non erano stati eseguiti né a regola d’arte né in conformità al progetto. Su questo motivo, a fortiori, il reclamante aveva richiesto al giudice della fase prefallimentare una ctu.
In diritto, il tribunale aveva ritenuto fallibile la srl quale imprenditore commerciale, “senza tener conto”della documentazione agli atti da cui risultava che la società non aveva mai svolto attività ulteriore rispetto alla coltivazione del fondo, al conferimento dell’uva e alla commisssione dell’appalto per la costruzione dell’immobile destinato a servire il fondo.
Da una parte, quindi, il tribunale non ha dedotto dalle prove documentali l’esistenza di una mera attività agricola, trasformando, quindi, la srl in una impresa commerciale. Ciò è avvenuto sulla base di un “ingente investimento immobiliare”, relativo alla costruzione della casa e cantina, senza che il tribunale competente, però, abbia fornito una puntuale motivazione. Dall’altra, sotto il profilo sostanziale, sussiste la contrarietà alla riforma ex art.2135cc operata dal d.lgs. 228/01: esso, ai fini dell’individuazione delle attività agricole principali, ha eliminato il collegamento necessario con il fondo agricolo, riconoscendo la preminenza del “ciclo biologico” o di una sua fase.
Per impresa agricola, dunque, occorre intendere l’esercizio dell’attività diretta alla coltivazione del fondo,nonchè l’attività ad essa connessa come “integrativa”. A contrasto, la natura commerciale o industriale, a cui consegue la fallibilità dell’impresa, è riscontrabile in un tipo di attività che sia idonea a realizzare utilità indipendenti dall’impresa agricola, oppure prevalenti su di essa. Per maggior chiarezza, rileviamo che l’elencazione delle attività connesse ex II comma dell’art.2135 non ha carattere tassativo: le attività connesse, infatti, costituiscono una categoria aperta , capace di “inglobare” tutte quelle forme che , con l’evolversi dei tempi, allargano gradualmente l’ambito dell’impresa agricola. A questo riguardo, infine, si osserva che il criterio delle dimensioni effettive delle attività “collaterali” non è idoneo a distinguere l’impresa agricola da quella commerciale; è più corretto, invece, verificare se sussista il rapporto di stretta connessione di queste attività ultronee con l’impresa, a fini di integrale sfruttamento e “valorizzazione”, non industriale, del prodotto agricolo. Si tratta, cioè, di un criterio finalistico: il vincolo di strumentalità funzionale, infatti, verrà meno quando l’imprenditore perseguirà scopi commerciali o industriali. L’attività dell’imprenditore agricolo, quindi, ruota attorno al “fattore terra”, con la conseguenza che “altra cosa” è , ad esempio, la gestione, locazione e vendita di appartamenti (sul tema , si può confrontare la Cass. n.8849/05).
Occorre specificare, ora, che, al II comma, il 2135 qualifica come strettamente connesse le attività svolte dall’imprenditore agricolo “sulla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione” dei prodotti ottenuti. Inoltre, ex art. 1, III c., lett. c), del d.lgs. 99/04, una società di capitali può considerarsi imprenditore agricolo quando almeno un amministratore rivesta la qualifica di imprenditore agricolo principale, svolgendo le attività ex art.2135 cc, I comma.
Più precisamente, l’art.1 del decreto citato enuncia che “ ai fini dell’applicazione della normativa statale, e’ imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attivita’ agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualita’ di socio di societa’, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attivita’ medesime almeno il cinquanta per cento del
proprio reddito globale da lavoro”. Nel caso in esame,
il rappresentante legale della srl reclamante possedeva tali requisiti, riconosciuti da regolare certificato regionale del 2010: in conformità al decreto del 2004, infatti, l’accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti spetta alle regioni.
Passando ad esaminare il motivo per cui la Corte ha accolto il reclamo presentato ai sensi
dell’ art.18 l. fall., occorre premettere alcune considerazioni sulle motivazioni logiche e giuridiche adottate in sede d’appello. Innanzitutto, non rileva il difetto di motivazione sollevato dal reclamante, poiché l’integrazione della medesima è possibile nella fase di gravame. Così, in secondo luogo, la difesa della srl ipotizzava che la società appaltatrice dei lavori, come visto in fatto, era priva di un titolo esecutivo, ed agiva, sostanzialmente, in seguito a dissapori e screzi che avevano gravemente minato il rapporto fiduciario.
A tal riguardo, però, occorre precisare che, contrariamente a quanto ipotizzato dal reclamante, non è necessario, per esperire l’iniziativa fallimentare, detenere un titolo esecutivo. La dottrina, infatti, è concorde nel ritenere che , anche se il credito non sia ancora esigibile , o sia sottoposto a condizione sospensiva, ovvero risulti da un provvedimento oggetto di impugnazione, l’apertura del fallimento possa essere richiesta da qualsiasi creditore .È fondato, invece, il motivo sulla qualifica di imprenditore, che giustifica la revoca del fallimento. Di fatto, il tribunale di Verona, competente per territorio, aveva ravvisato la compresenza di un’impresa commerciale, deducendola dall’avvio della costruzione di un immobile; ma, in realtà, l’appalto era finalizzato alla costruzione di un immobile coerente sia con la destinazione del terreno, sito in zona agricola, sia con la sua effettiva , concreta ed abituale utilizzazione a vigneto. Tale costruzione, su cui il reclamante aveva, inoltre, apposto il divieto di vendita separata dal fondo, è connessa con il terreno, come vera e propria miglioria funzionale. Il tribunale non ha valutato che l’esercizio di impresa commerciale postula un’attività organizzata professionalmente e, se sussistente, scissa da quella agricola. Il requisito organizzativo è ben evidenziato da Cass. n.75 del 2010, che ha individuato la sistematicità e l’abitualità come indici dell’esercizio di impresa ex DPR n. 633/72. Nella specie oggetto di questa pronuncia, si tratta di una ss di gestione immobiliare, per cui è stata ravvisata la professionalità della locazione di immobili.
Possiamo affermare, adottando una lettura interpretativa in chiave storica, che l’orientamento giurisprudenziale, in questa materia, è concorde. Interessante, a tal proposito, è la sentenza della I sez. della Cass., n.4558/79 . Secondo questa pronuncia, il criterio di discriminazione fra comunione e società di godimento non consiste principalmente nello scopo di guadagno ( che,infatti, può sussistere anche nella prima, senza che ciò comporti necessariamente il suo inquadramento nello schema societario), bensì nella presenza dell’ impresa. Più precisamente, si ha la comunione quando l’ attività dei comproprietari si esaurisca nel godimento dei beni, cioè sia svolta in funzione di questi, mentre si configura la società se lo scopo lucrativo sia perseguito attraverso un’ attività imprenditrice, che si sostituisca o si affianchi al mero godimento, ed in funzione della quale vengano adoperati in tutto o in parte i beni comuni. Essi, in quest’ultima ipotesi, vanno a costituire il fondo comune dell’organismo sociale. La trasformazione della comunione in società, ovvero la costituzione di questa accanto alla prima, possono risultare, oltre che da atto formale, anche dal comportamento assunto, in concreto, dai comproprietari, i quali, di fatto, svolgono attività d’impresa , utilizzando, a tal fine, i beni comuni. Infine, per sottolineare come siano importanti le problematiche di corretta qualificazione giuridica in simili casi, si segnala la Cass. n.21583/05, per cui il reddito derivante dai canoni d’affitto dell’azienda non può essere considerato conseguito nell’esercizio dell’impresa, qualora sia stata affittata l’unica azienda di cui è titolare il proprietario. Egli non potrà, quindi, dedurre come costi inerenti alla produzione del reddito quelle spese sostenute per la ristrutturazione deli immobili aziendali, poiché non sussiste più un reddito d’impresa, “avendo il proprietario perduto la qualità di imprenditore”.
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