Il fatto
La Corte di Appello di Caltanissetta confermava una decisione di primo grado che condannava gli imputati per il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di vario tipo nonché per dei reati di illecita detenzione a fini di cessione a terzi di sostanze stupefacenti di vario tipo.
In via preliminare, i giudici di merito avevano definito una questione di rito sollevata dalle difese in ordine alla validità del decreto di rinvio a giudizio affermando che il successivo accoglimento – in data 5 ottobre 2017 – di un’istanza di ricusazione formulata dagli odierni ricorrenti, già in due occasioni dichiarata inammissibile dalla Corte di Appello di Caltanissetta, non aveva determinato alcuna inefficacia o nullità postuma del decreto introduttivo del giudizio.
Tale decreto, in particolare, era stato emesso in pendenza della procedura di ricusazione, che era stata a sua volta definita quando il procedimento principale si trovava, all’atto della sentenza della Corte di Cassazione, in fase di avanzata trattazione dibattimentale nel giudizio di primo grado.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso la summenzionata decisione della Corte di appello proponevano ricorso per cassazione i difensori di fiducia dei predetti imputati sulla base di separati atti d’impugnazione.
In particolare, nell’interesse di uno di questi, venivano dedotti i seguenti motivi: 1) violazioni di legge ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. a), 179, comma 1, 42 cod. proc. pen. e vizi della motivazione in ordine alla questione della nullità del decreto di rinvio a giudizio emesso dal G.u.p. presso il Tribunale di Caltanissetta sull’assunto che l’originaria istanza di ricusazione avanzata nei confronti del G.u.p. era stata accolta dalla Corte di appello a seguito di due decisioni di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione; 2) analoghi vizi in relazione al giudizio di secondo grado evidenziandosi che all’esito dell’udienza il P.G. non avrebbe rassegnato le conclusioni per la posizione dell’odierno ricorrente sebbene avesse espresso, in occasione della precedente udienza, il consenso all’accordo proposto ex art. 599-bis cod. proc. pen. dalla difesa ritrattandolo tuttavia alla successiva udienza e quindi siffatta omissione, per il ricorrente, avrebbe determinato la nullità della sentenza posto che: a) il consenso già manifestato alla proposta di concordato non poteva essere revocato essendosi già perfezionato l’accordo tra le parti; b) il P.G. si era limitato a ritrattare il precedente assenso, ma non ha rassegnato le sue conclusioni in ordine alla posizione del ricorrente; 3) violazioni di legge e vizi della motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità non essendo stata offerta una corretta lettura delle dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia il cui contenuto, secondo l’impugnante, era stato travisato; 4) erronea applicazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla esclusione delle meno gravi ipotesi di cui agli artt. 73, comma 5 e 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto avvenuta sulla base di una inadeguata motivazione per relationem alla posizione di altri coimputati; 5) erronea applicazione di legge e vizio di motivazione riguardo alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 della legge 13 luglio 1991, n. 203, sull’assunto che non vi sarebbe stato un adeguato confronto fra le argomentazioni impiegate nella motivazione e le richiamate emergenze processuali.
Ciò posto, nell’interesse di un altro imputato, venivano addotte le susseguenti doglianze: 1) violazioni di legge e vizi della motivazione in ordine alla nullità del decreto di rinvio a giudizio sulla base di argomenti identici a quelli già illustrati nella trattazione del motivo del ricorso già menzionato in precedenza; 2) vizi identici a quelli oggetto del secondo motivo del ricorso anch’esso esaminato prima; 3) erronea applicazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione della penale responsabilità per il reato di associazione mafiosa; 4) violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione all’affermazione della penale responsabilità per i reati di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (capo 2) e per i reati-scopo (capo 3); 5) analoghi vizi con riferimento al diniego delle meno gravi ipotesi di cui agli artt. 73, comma 5 e 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990; 6) medesimi vizi con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 legge cit. per non esservi stato un puntuale confronto con le risultanze processuali, né alcuna personalizzazione del ragionamento giustificativo della decisione.
Detto questo, nell’interesse di un altro imputato ancora, venivano proposti due distinti ricorsi.
Nel dettaglio, nel primo ricorso, si deducevano, con il primo motivo, violazioni di legge e vizi della motivazione in ordine alla nullità del decreto di rinvio a giudizio mentre, con il secondo motivo, violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione all’affermazione della penale responsabilità per il reato associativo di cui al capo 2 e per il reato-fine di cui al capo 3 (art. 73 d.P.R. cit., aggravato ex art. 7 legge cit.).
Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, inoltre, si contestavano il diniego delle invocate ipotesi attenuate (ex artt. 73, comma 5 e 74, comma 6, d.P.R. cit.), la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 legge cit. e il diniego della continuazione esterna tra i reati oggetto del presente giudizio e quelli, risalenti al 2011, giudicati con le sentenze prodotte ed acquisite al fascicolo dibattimentale rappresentandosi l’assenza di un puntuale confronto della motivazione con l’esame delle risultanze istruttorie.
Per quanto invece concerneva il secondo ricorso, con il primo motivo, si deducevano violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione all’affermazione di penale responsabilità per il reato associativo di cui al capo 2 e per il reato-fine di cui al capo 3, atteso che la Corte d’appello avrebbe realizzato una mera riproduzione, senza alcuna valutazione autonoma, dei contenuti della decisione di primo grado e di quelli di una memoria depositata in udienza dal rappresentante della Procura Generale.
Il secondo motivo, invece, censurava il travisamento della deposizione di un testimone e dei contenuti di un titolo cautelare emesso in un diverso procedimento penale in quanto la Corte distrettuale, al riguardo, avrebbe sostanzialmente omesso di valutare i contenuti della richiamata ordinanza custodiale e delle prove testimoniali assunte mediante la rinnovazione istruttoria là dove consentivano di escludere la presenza di un contributo causale dal ricorrente prestato in favore dell’associazione.
Il terzo ed il quarto motivo di ricorso, a loro volta, lamentavano l’assenza di qualsiasi motivazione con riferimento alle ragioni di doglianza enucleate nei motivi di appello concernenti la configurabilità stessa degli elementi costitutivi del delitto di cui al capo 3.
Con i residui motivi (numerati dal quinto al nono), infine, si deducevano violazioni di legge e vizi di motivazione con riferimento alle denegate richieste di esclusione dell’aggravante di cui all’art. 7 legge cit. e di riqualificazione delle condotte ai sensi degli artt. 74, comma 6 e 73 comma 5 d.P.R. cit., alla mancata applicazione del trattamento sanzionatorio previsto per le droghe cd. “leggere” e al denegato riconoscimento della continuazione esterna tra i reati oggetto del presente giudizio e quelli, risalenti al 2011, giudicati con le sentenze prodotte ed acquisite al fascicolo dibattimentale.
La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
Con ordinanza la Prima Sezione penale rimetteva i ricorsi alle Sezioni Unite prospettando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale riguardante l’interpretazione del contenuto della sentenza delle Sezioni Unite n. 13626 del 16/12/2010.
Con tale decisione la Corte, come rammentava l’ordinanza di rimessione, era intervenuta sulla disciplina dell’art. 42, comma 2, cod. proc. pen., affermando che, nel caso in cui il provvedimento di accoglimento dell’istanza di astensione o di ricusazione non contenga l’espressa indicazione degli atti i cui effetti vanno conservati, tutti quelli compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci.
L’inefficacia può essere sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con la conseguente eventuale utilizzazione degli atti in precedenza compiuti ma, in ogni caso, la riconosciuta efficacia degli atti ne comporta l’inserimento nel fascicolo dibattimentale e consente al giudice della cognizione di sindacare, nel contraddittorio delle parti, la valutazione operata sulla conservazione o meno dell’atto in sede di giudizio sull’astensione o sulla ricusazione.
Ciò posto, rilevava al riguardo la Sezione rimettente, che il contrasto giurisprudenziale concerneva l’ambito di applicazione di tale decisione poiché alcune pronunce avevano ritenuto che il principio affermato dalle Sezioni Unite relativamente all’inefficacia degli atti compiuti medio tempore, derivante dall’assenza di un’espressa indicazione sul punto da parte del giudice della ricusazione, è applicabile solo agli atti aventi natura probatoria con la conseguenza che gli altri atti emessi dal giudice la cui ricusazione sia stata accolta dovrebbero essere ritenuti sempre efficaci pur in assenza dell’indicazione cui si riferisce l’art. 42, comma 2, cit. e ferma restando, anche per tali atti, la eventuale successiva valutazione da parte del giudice della cognizione (Sez. 5, n. 34811 del 15/06/2016; Sez. 5, n. 44120 del 09/05/2019; Sez. 3, n. 35205 del 16/07/2019).
Un diverso orientamento interpretativo, di contro, aveva affermato che, in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione della efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, tutti gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci (Sez. 6, n. 10160 del 18/02/2015, pronunciatasi nell’ambito di una vicenda relativa ad una opposizione avverso una richiesta di archiviazione, accolta dal giudice con declaratoria di inammissibilità dell’opposizione della persona offesa, senza aver revocato il provvedimento – adottato dal precedente giudice prima di astenersi – di fissazione dell’udienza camerale a seguito dell’opposizione).
Orbene, nel richiamare il contenuto della sentenza n. 13626, si rilevava, all’interno di tale minoritario indirizzo esegetico, che la pregiudiziale salvezza dei provvedimenti precedentemente assunti si pone in diretta contraddizione con l’accertamento della causa di astensione o di ricusazione poiché garantirebbe la persistenza di atti emessi da un giudice la cui imparzialità è posta in dubbio, sicché tali provvedimenti, ove non espressamente convalidati dal giudice che valuta la richiesta di astensione, devono considerarsi inefficaci.
Ciò posto, la Sezione rimettente osservava che il contrasto verteva, in particolare, su alcuni aspetti essenziali della ricognizione del rapporto tra i poteri della Corte di appello (che abbia accolto la domanda di ricusazione) e quelli del giudice (diverso da quello ricusato) dinanzi al quale risulti pendente – e davanti al quale debba proseguire – il procedimento principale.
Nel caso di specie, infatti, l’assenza, nella decisione del giudice della ricusazione, di qualsiasi indicazione circa il mantenimento degli effetti del decreto che dispone il giudizio, laddove l’efficacia di tale atto è stata, di converso, espressamente riconosciuta da entrambe le sentenze di merito che hanno giudicato gli odierni ricorrenti, è un aspetto che rendeva rilevante il contrasto non potendo esservi dubbi sulla natura non probatoria del provvedimento giurisdizionale che determina l’instaurazione della fase dibattimentale.
L’ordinanza di rimessione, infine, sollecitava le Sezioni Unite ad un nuovo intervento nomofilattico sul tema sì da risolvere le evidenziate disarmonie anche in ragione della necessità di un raccordo sistematico rispetto alle ulteriori decisioni al riguardo intervenute (Sez. U, n. 23122 del 27/01/2011; Sez. U, n. 31421 del 26/06/2002).
Muovendo dal rilievo che l’attuale normativa non prevede, in pendenza della decisione sulla fondatezza della domanda di ricusa, alcun automatismo nel limitare i poteri del giudice sospetto al di là della preclusione relativa alla pronuncia della sentenza, la Sezione rimettente osservava come le precedenti decisioni delle Sezioni Unite ponessero in evidenza gli ulteriori profili problematici dello statuto degli atti emessi in pendenza della procedura di ricusazione quando l’accoglimento dell’istanza intervenga all’esito del relativo procedimento incidentale e del rapporto che intercorre tra i poteri del giudice della ricusazione che abbia accolto la relativa domanda e quelli del giudice subentrato nel procedimento principale.
Se si aderisce, infatti, alla tesi secondo la quale la sentenza n. 13626 riguarda esclusivamente gli atti di rilievo probatorio compiuti innanzi al giudice “sospetto“, tutti gli atti del procedimento diversi da quelli di raccolta della prova – pur in assenza di un’espressa declaratoria di efficacia nel provvedimento di accoglimento della ricusazione – potrebbero essere comunque oggetto di autonoma considerazione da parte del giudice subentrato nel procedimento principale che ben potrebbe confermarne l’efficacia; per converso, ove si ritenga che tale decisione abbia inteso riferirsi a tutti gli atti del procedimento, il giudice subentrato a quello ricusato non potrebbe che prendere atto della loro inefficacia ove sia mancata una decisione di mantenimento da parte del giudice della ricusazione.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di esaminare la questione posta al loro scrutinio giudiziale, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “se, in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del g.u.p., il decreto che dispone il giudizio – emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione – conservi o meno efficacia”.
Precisato ciò, veniva osservato in via preliminare che, in ordine ad alcune delle tematiche sottese alla richiamata questione di diritto, le Sezioni Unite si erano già pronunciate in due occasioni affrontando sia il problema della sorte processuale degli atti che il giudice abbia adottato in pendenza della procedura incidentale di ricusazione, sia quello relativo alla conservazione o meno della loro efficacia secondo la regola dettata nella disposizione di cui all’art. 42, comma 2, cod. proc. pen. ove si stabilisce che “Il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia”.
Con una prima decisione, difatti, è stata esaminata la disciplina prevista dall’art. 42, comma 2, cit., affrontando i diversi, ma strettamente connessi, profili attinenti, da un lato, alle conseguenze dell’omessa dichiarazione di conservazione dell’efficacia degli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, dall’altro lato, alla possibilità di rimettere in discussione in sede dibattimentale il tema della efficacia degli atti probatori assunti dal giudice “sospetto“.
Da tale disposizione, affermava la Corte in quella occasione, si ricava una sorta di presunzione di inefficacia degli atti posti in essere dal iudex suspectus sicchè, in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione della efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci (Sez. U., n. 13626 del 16/12/2010).
Detto questo, le Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, rilevavano come questa regola generale possa essere rimossa solo dalla declaratoria di efficacia di uno o più atti compiuta dal giudice della ricusazione al quale compete valutare se, malgrado la riconosciuta carenza di parzialità del giudice, talune attività non siano state influenzate da cause di incompatibilità e non abbiano subito alterazione per effetto di quelle così da poter essere conservate.
Tale valutazione, di efficacia o inefficacia dell’atto, operata dal giudice che decide sull’astensione o sulla ricusazione, pur autonomamente non impugnabile, è successivamente sindacabile, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione.
Chiarito ciò, si evidenziava inoltre che, in relazione all’ambito di applicazione del principio secondo cui gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci in assenza di una espressa dichiarazione che ne conservi l’efficacia nel provvedimento che accoglie la relativa dichiarazione di astensione o di ricusazione, si erano formati due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Un primo indirizzo interpretativo ritiene che l’enunciato normativo dell’art. 42, comma 2, cit. è riferibile esclusivamente agli atti giurisdizionali aventi natura probatoria rimanendo invece dotati di efficacia – pure in mancanza di una espressa indicazione – altri atti parimenti emessi dal giudice la cui ricusazione sia stata in seguito accolta (Sez. 5, n. 34811 del 15/06/2016; Sez 5. n. 44120 del 09/05/2019; Sez. 3, n. 35205 del 16/07/2019).
La richiamata disposizione, pertanto, ad avviso della Suprema Corte, ha un’operatività circoscritta ai soli atti che afferiscano al thema probandum non essendovi motivo di ritenere che debba essere precluso di dispiegare i propri effetti ad un atto che, non incidendo sul materiale utilizzabile ai fini della decisione (ad es. in relazione alla materia cautelare), giammai potrebbe vincolare il giudice successivo.
Invece, un diverso orientamento, di contro, ritiene che, nell’ipotesi dell’assenza di una espressa dichiarazione di conservazione dell’efficacia degli atti nel provvedimento di accoglimento della dichiarazione di astensione o di ricusazione, tutti gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono considerarsi inefficaci senza distinzioni basate sulla loro natura e connotazione funzionale (Sez. 6 n. 10160 del 18/02/2015) e analoga affermazione di principio, in relazione al procedimento di prevenzione, è rinvenibile nella motivazione di altra decisione (Sez. 5, n. 16311 del 14/04/2014) pur nel convincimento che la sentenza n. 13626 ha inteso limitare l’operatività dell’inefficacia ai soli atti a contenuto probatorio rispetto ai quali si risolve nell’inutilizzabilità soggetta al regime del rilievo officioso ex art. 191, comma 2, cod. proc. pen., mentre per gli atti a contenuto dispositivo postula un’impugnazione, sia pure differita.
Successivamente, la Corte era intervenuta per delineare il quadro dei poteri del giudice ricusato con riferimento alle contigue disposizioni di cui agli artt. 37, comma 2, e 42, comma 1, cod. proc. pen. esaminando le diverse situazioni in cui egli abbia deciso nel merito nonostante sia stata avanzata nei suoi confronti una dichiarazione di ricusazione successivamente dichiarata inammissibile con provvedimento definitivo (Sez. U, n. 23122 del 27/01/2011).
Con tale ultima decisione, in particolare, le Sezioni Unite avevano inquadrato sul piano dogmatico la natura del vizio che scaturisce dalla violazione dei divieti stabiliti dal legislatore in materia di ricusazione (artt. 37, comma 2 e 42, comma 1, cit.) affermando che la disciplina di tale istituto, in quanto finalizzata ad assicurare il rispetto dei principi di imparzialità-terzietà del giudice, ha immediato rilievo costituzionale e proprio dall’assetto costituzionale “mutua valore e forza cogente”.
La “sanzione costituzionale formale di tale principio” (come afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 134 del 11 aprile 2002) è nell’art. 111, comma 2, Cost. e la collocazione della imparzialità-terzietà tra i requisiti fondanti la nozione di giusto processo impone che, anche sul piano applicativo, il bilanciamento delle concorrenti esigenze e dei disparati interessi posti in giuoco dal processo (ad es., in tema di efficienza e celerità) deve considerare il peso specifico di tale fondamentale paradigma di riferimento.
La Corte aveva quindi ritenuto necessario verificare, entro tale prospettiva, ogni possibilità di interpretazione, anche estensiva, se quella strettamente testuale “risulta in contrasto con lo scopo di garanzia che il sistema dovrebbe assicurare” e, pertanto, su tale sfondo assiologico, osservavano le Sezioni Unite nel caso in esame, che la richiamata decisione si era mossa per definire la natura della patologia processuale che consegue alla violazione del divieto di pronunciare sentenza da parte del giudice la cui ricusazione sia stata poi accolta.
Orbene, secondo gli Ermellini, quanto appena esposto rappresentava un nodo problematico che direttamente rilevava ai fini della risoluzione della questione in oggetto e che la Corte aveva sciolto con una risposta inequivoca stabilendo il principio secondo cui la violazione del divieto, posto dall’art. 42, comma 1, cit., per il giudice la cui ricusazione sia stata accolta, di compiere alcun atto del procedimento «comporta rispettivamente la nullità, ex art. 178, lett. a) cod. proc. pen., delle decisioni ciononostante pronunciate e l’inefficacia di ogni altra attività processuale, mentre la violazione del divieto, ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza, comporta la nullità di quest’ultima solo ove la ricusazione sia successivamente accolta, e non anche quando la ricusazione sia rigettata o dichiarata inammissibile» (Sez. U, n. 23122 del 27/01/2011).
Più specificamente, con tale decisione, la Corte aveva affermato che «il divieto, per il giudice ricusato, di pronunciare sentenza ex art. 37, comma secondo, cod. proc. pen., opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell’organo competente a decidere sulla ricusazione, essendo, tuttavia, la successiva decisione del giudice ricusato, affetta da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto sia annullata dalla Corte di cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell’eventuale giudizio di rinvio». (Sez. U, n. 23122 del 27/01/2011).
Il meccanismo delineato dalla sentenza n. 23122, pertanto, per le Sezioni Unite, era quello della nullità secundum eventum o condizionata nel senso che, se sopravviene la definitività del provvedimento che dichiara fondata la ricusazione, l’eventuale sentenza emessa dal giudice ricusato è affetta da nullità.
L’individuazione di tale sanzione processuale, in assenza di una sua formale comminatoria nella disposizione di cui all’art. 37, comma 2, cit., a sua volta, viene direttamente collegata al difetto di imparzialità del giudice ossia a “un difetto di capacità particolare a giudicare” che attiene, non all’attribuzione in astratto di potestà giurisdizionale, bensì ai modi e limiti del potere esercitabile in un determinato giudizio refluendo nell’ambito della previsione di cui all’art. 178 c.p.p., oggetto un provvedimento decisorio diverso dalla sentenza, come la revoca di una misura alternativa alla detenzione disposta dal Tribunale di sorveglianza.
La garanzia della precondizione della imparzialità del giudice è quindi, per i giudici di piazza Cavour, il fondamento giustificativo di tale estensione ermeneutica investendo tale ratio ogni tipo di provvedimento giurisdizionale con valenza decisoria.
Entro tale impostazione ricostruttiva, incentrata sulla valorizzazione di una invalidità radicale in conseguenza del difetto di potere giurisdizionale esercitabile in relazione ad una determinata regiudicanda, è, sempre per il Supremo Consesso, indifferente, per il procedimento principale, il momento in cui interviene la decisione definitiva di accoglimento della ricusazione all’esito del relativo procedimento incidentale in quanto il vizio, come affermato nella decisione testè richiamata, non può che avere identica natura, sia nel caso in cui il provvedimento decisorio del iudex suspectus sia stato adottato dopo che la decisione di accoglimento della ricusazione è divenuta definitiva, sia in quello in cui sia stato assunto nelle more del procedimento di ricusazione poi risoltosi con l’accertamento della fondatezza della relativa dichiarazione ed il riconoscimento del difetto di capacità a giudicare.
Orbene, muovendo dal quadro di principi stabiliti con la sentenza n. 23122, la questione rimessa alle Sezioni Unite era stimata da queste stesse Sezioni Unite agevolmente risolvibile ove si fosse considerato che nel modello tipico di atto processuale cui il legislatore aveva dato veste formale con il decreto che dispone il giudizio – emesso nel caso di specie da un giudice il cui difetto di imparzialità è stato accertato solo all’esito del giudizio di rinvio, quando il processo principale era in fase di avanzata trattazione – erano senza dubbio ravvisabili i connotati strutturali e funzionali propri di un atto del procedimento che “definisce la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce” e ciò soprattutto in ragione del fatto esso è un provvedimento che “chiude” irreversibilmente una fase, sciogliendo la fondamentale alternativa “decisoria” rispetto alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere e determinando, in tal modo, le condizioni necessarie per il transito del processo verso una nuova e diversa fase.
Analogamente alla sentenza di non luogo a procedere, epilogo rispetto al quale si trova in rapporto di mutua esclusione, il decreto che dispone il giudizio è un atto di tipo valutativo e decisorio emesso da un giudice sulla base delle medesime risorse cognitive proprie della fase con una connotazione funzionale assimilabile alla sentenza per la sua vocazione definitoria della regiudicanda preliminare all’instaurazione del dibattimento non limitandosi dunque ad esplicare un’efficacia meramente propulsiva nel determinare il passaggio ad una fase successiva poiché il criterio, che ne sottende l’emissione, implica non solo una valutazione del giudice sul merito degli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini preliminari e, se del caso, in sede di udienza, ma presuppone la pienezza del contraddittorio tra le parti necessarie ai sensi dell’art. 420, comma 1, cod. proc. pen. nello svolgimento del suo compito di garanzia dei diritti e delle facoltà dell’imputato in ordine al vaglio di sostenibilità dell’ipotesi accusatoria.
Nella medesima prospettiva si evidenziava come si fosse progressivamente consolidata la giurisprudenza della Corte costituzionale che aveva chiarito – in particolare con le sentenze n. 224 del 4 luglio 2001 e n. 335 del 8 luglio 2002 – le attuali caratteristiche dell’udienza preliminare e ne aveva tratto precise conseguenze di ordine sistematico ai fini della valutazione di profili problematici del tutto analoghi a quelli che qui rilevano (l’incompatibilità del giudice ed il ‘pregiudizio’ processuale che ne deriva), relativamente alla natura dei provvedimenti terminativi di quella fase.
In tali decisioni la Corte aveva posto in rilievo come l’udienza preliminare abbia perduto, nella vigente disciplina, la sua iniziale connotazione quale momento processuale fondamentalmente orientato al controllo dell’azione penale promossa dal pubblico ministero, in vista dell’apertura della fase del giudizio posto che «l’alternativa decisoria che si offre al giudice quale epilogo dell’udienza preliminare riposa […] su una valutazione del merito della accusa […] non più distinguibile […] da quella propria di altri momenti» del processo, momenti «già ritenuti non solo ‘pregiudicanti’, ma anche ‘pregiudicabili’, ai fini della sussistenza della incompatibilità».
L’udienza preliminare e le decisioni che la concludono, quindi, si caratterizzano oggi, come sottolineato dalla Corte, per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice deve disporre e per il potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova, su cui incide anche la facoltà, riconosciuta alla difesa delle parti private dall’art. 391-octies del codice, di presentare direttamente al giudice elementi di prova.
Grava sul pubblico ministero, inoltre, l’obbligo di riversare nel procedimento tutti gli elementi provenienti dalle indagini preliminari (art. 416, comma 2, cod. proc. pen.) o comunque acquisiti dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 3, cod. proc. pen.), nell’ambito dell’esigenza di completezza delle indagini preliminari (sentenze n. 115 del 7 maggio 2001 e n. 88 del 28 gennaio
1991).
Oltre all’ampliamento delle garanzie difensive per l’imputato, attraverso la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee o di essere sottoposto all’interrogatorio (art. 421, comma 2, cod. proc. pen.), il giudice dell’udienza preliminare può disporre l’integrazione delle indagini (art. 421-bis cod. proc. pen.) e assumere anche d’ufficio le prove che appaiano con evidenza decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 cod. proc. pen.).
All’interno di tale quadro normativo le valutazioni di merito affidate al giudice dell’udienza preliminare sono state private di quei caratteri di sommarietà che, fino alle indicate innovazioni legislative, erano tipici di una decisione orientata soltanto, secondo la sua natura, allo svolgimento (o alla preclusione dello svolgimento) del processo.
Anche i contenuti delle decisioni che concludono l’udienza preliminare hanno assunto, in parallelo a tali modifiche normative, una diversa e maggiore pregnanza poiché il giudice non è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, la eventuale ricorrenza dei presupposti giustificativi dell’ampio ventaglio di possibilità contemplate dall’art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen. ma deve considerare se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, in caso negativo, a disporre il non luogo a procedere, in caso positivo, a disporre il giudizio.
L’attuale formulazione dell’art. 425 c.p.p., in questo modo, «chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale.».
Alla stregua della fisionomia che l’udienza preliminare ha progressivamente assunto, la Corte costituzionale significativamente conclude il suo percorso argomentativo affermando che «le decisioni che ne costituiscono l’esito devono così essere annoverate tra quei «giudizi» idonei a pregiudicarne altri ulteriori e a essere a loro volta pregiudicati da altri anteriori, con la conseguenza che, per assicurare la protezione dell’imparzialità del giudice, l’udienza preliminare deve essere compresa nel raggio d’azione dell’istituto dell’incompatibilità, disciplinato dall’art. 34 cod. proc. pen., anche al di là della limitata previsione del comma 2-bis dell’art. 34 medesimo.».
Nessun rilievo, inoltre, può assumere, all’interno di tale prospettiva, l’ordinanza n. 61 del 19 febbraio 2007 della Corte costituzionale, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il giudice ricusato non possa pronunciare, all’esito dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio (così evocando per il decreto lo stesso trattamento previsto per la sentenza): tale questione – che il giudice delle leggi ha risolto osservando che il giudice a quo non aveva fornito, con riferimento alla circostanza che l’istanza di ricusazione era stata rigettata dopo il decreto di rinvio a giudizio, alcuna motivazione circa l’applicabilità o meno, nel caso sottoposto al suo esame, della giurisprudenza di legittimità che ritiene valido il provvedimento emesso in violazione del divieto di cui all’art. 37, comma 2, cit., se l’istanza di ricusazione sia stata successivamente rigettata – secondo la Suprema Corte deve ritenersi ormai superata alla luce dei principi affermati nella richiamata sentenza n. 23122 con riferimento alla regola della produzione degli effetti secundum eventum ivi enunciata qualora l’istanza di ricusazione sia stata successivamente rigettata.
Logico corollario di tale ricostruzione del sistema normativo è di conseguenza il riconoscimento della piena idoneità del decreto che dispone il giudizio a “pregiudicare” la fase processuale sulla quale esso si innesta provenendo la sostanza delle valutazioni che ne sottendono l’emissione da un giudice riconosciuto “parziale” rispetto a quello specifico procedimento con tutti i rischi che ne possono derivare sul piano dei possibili vulnera all’esercizio dei diritti della difesa non solo ai fini della ulteriore progressione delle sequenze processuali ma anche in relazione alla effettività dell’eventuale accesso dell’imputato ai riti alternativi.
Nel momento in cui egli adduce a sospetto di parzialità il giudice dell’udienza preliminare, ogni attività “decisoria” del iudex suspectus – e a maggior ragione quella che può esser sollecitata dalla stessa parte ricusante – è necessariamente procrastinata in funzione del vaglio delibativo sulla dichiarazione di ricusazione con l’ulteriore conseguenza che una eventuale richiesta di riti alternativi risulterebbe inibita, non solo perché il correlato epilogo decisorio non sarebbe comunque ipotizzabile prima della definitività dell’incidente di ricusazione, ma anche per la decisiva ragione che l’imputato ben difficilmente potrebbe confidare nel giudice da lui stesso addotto a sospetto conferendogli un potere decisorio “finale” sul merito della regiudicanda e, addirittura, più ampio rispetto a quello connaturale alle alternative tipiche della fase processuale.
Assumendo quale canone di riferimento ermeneutico l’insieme dei principi delineati nella sentenza n. n. 23122, ad avviso del Supremo Consesso, emerge con evidenza che l’accoglimento definitivo dell’istanza di ricusazione rende il decreto pronunciato dal giudice suspectus affetto da nullità assoluta ex art. 178, comma 1, lett. a), cit., rilevabile, anche officiosamente, in ogni stato e grado di giudizio, per difetto di potere giurisdizionale rispetto allo specifico giudizio in cui “quel” giudice si è pronunciato senza che possano rilevare, in questa prospettiva, i possibili “effetti conclusi” o “esauriti” dell’atto all’interno della fase in cui è stato pronunciato e senza che possa profilarsi, al riguardo, una sorta di “sanatoria di rito” per l’avvenuto transito nella fase dibattimentale.
Il decreto che dispone il giudizio, quindi, definisce la regiudicanda propria di quella fase processuale e consuma in maniera definitiva ed irreversibile il potere decisorio che il giudice è chiamato ad esercitarvi a nulla rilevando, sotto tale profilo, che la regiudicanda sia “trasferita” dinanzi ad altro organo giurisdizionale, cui l’ordinamento attribuisce – con presupposti, forme ed oggetto diversi – altro potere decisorio su di essa.
Attraverso l’emissione del decreto che dispone il giudizio, infatti, il giudice dell’udienza preliminare esaurisce, in una delle forme consentite dal sistema, il proprio potere valutativo e decisorio pronunciandosi proprio su quello specifico oggetto procedimentale investito dalla dichiarazione di ricusazione: tratto, questo, che caratterizza in maniera peculiare il suo “agire” processuale, da un lato, precludendo per il futuro l’esercizio di analogo potere, dall’altro, rendendolo pienamente assimilabile, quanto agli effetti dell’intervenuta ricusazione, alla pronuncia dell’atto-sentenza.
In altri termini, non è tanto nel carattere valutativo del decreto che deve rilevarsi l’elemento di piena assimilazione, quanto invece nel profilo della irretrattabilità decisoria del provvedimento rispetto al segmento processuale che esso definitivamente conclude.
Osservato da tale specifica angolazione, il decreto che dispone il giudizio si distingue non soltanto rispetto all’ampia gamma di atti meramente “interlocutori” e processuali che il giudice poi accertato “sospetto” può compiere, ma anche rispetto agli atti “a contenuto probatorio” che, a differenza del decreto in esame, non definiscono, neppure parzialmente, la regiudicanda nel senso sopra specificato: per essi, dunque, potrà porsi un problema di “conservazione di efficacia” alla stregua della disposizione di cui all’art. 42, comma 2, cit., ferma restando la loro validità, diversamente dal vizio di nullità radicale che può inficiare i “provvedimenti del giudice” ex art. 424, comma 1, cit., vale a dire il decreto che dispone il giudizio e la sentenza di non luogo a procedere.
Dal complesso delle su esposte considerazioni, ad avviso della Suprema Corte, discendono logicamente, a mo’ di corollario, due conclusioni: a) che il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza ai sensi dell’art. 37, comnna 2, cod. proc. pen. è riferibile anche al decreto che dispone il giudizio ed opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell’organo competente a decidere sulla ricusazione; b) che, nell’ipotesi in cui il decreto che dispone il giudizio sia successivamente emesso dal giudice ricusato, lo stesso sarà affetto da nullità qualora la pronuncia di inammissibilità o di rigetto della dichiarazione di ricusazione sia annullata dalla Corte di cassazione e il difetto di imparzialità accertato dalla stessa Corte o nell’eventuale giudizio di rinvio.
Ciò posto, irrilevanti venivano inoltre ritenute, ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza di rimessione, le ragioni rispettivamente addotte a sostegno dei due indirizzi che avevano dato luogo al contrasto giurisprudenziale formatosi in relazione al contenuto di alcuni passaggi enucleati dalla motivazione della sentenza n. 13626, le cui divergenti opzioni esegetiche non ne avevano esplorato le implicazioni sottese alla divaricazione della coppia concettuale invalidità-inefficacia sulla base di un’analisi incrociata con l’insieme dei principi stabiliti dalle Sezioni Unite nella, di poco successiva e quasi coeva, sentenza n. 23122.
Al riguardo assumeva un decisivo rilievo, per le Sezioni Unite, non tanto la natura probatoria o meno dell’atto del procedimento, quanto la valorizzazione dei diversi, seppur connessi, profili inerenti, per un verso, all’ampiezza, anche temporale, dei poteri che il giudice ricusato può esercitare una volta presentata la dichiarazione di ricusazione, per altro verso alla corretta individuazione degli effetti dell’accoglimento della ricusazione rispetto al tipo di attività processuale, decisoria o meno, che egli abbia compiuto.
Non pertinente, dunque, era ritenuto, entro tale prospettiva, il richiamo effettuato dall’ordinanza di rimessione ad una decisione della Corte (Sez. 5, n. 23712 del 31/03/2010) con la quale si era affermato che non riveste carattere di abnormità il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare, preso atto della dichiarazione di ricusazione presentata nei suoi confronti nel corso dell’udienza e prima della chiusura della discussione, disponga procedersi oltre, pronunciando il decreto che dispone il giudizio, giacchè trattasi di un provvedimento non avulso dagli ordinari moduli procedimentali e costituente, anzi, espressione dei poteri tipici conferiti al giudice di merito. La fattispecie ivi esaminata aveva infatti ad oggetto un caso di denunciata abnormità che la Corte di Cassazione aveva escluso sulla base di un presupposto argomentativo poi superato dalla sentenza n. 23122 ossia che l’evocata disposizione di cui all’art. 37, comma 2, cit. facesse riferimento alla sola sentenza, senza alcuna possibilità di ricomprendere nella relativa previsione anche il decreto di rinvio a giudizio.
Nell’arresto ora menzionato si riconosceva, peraltro, rammentavano le Sezioni Unite, il contenuto decisorio del decreto che dispone il giudizio ma se ne escludeva la rilevanza al fine qui considerato sull’assunto che esso atterrebbe non all’apprezzamento sulla fondatezza delle prove a carico ma alla delibazione prognostica circa la sufficienza degli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio: linea discretiva, questa, che veniva tracciata sulla base del diverso rilievo che in concreto avrebbe dovuto attribuirsi al tipo di contenuto decisorio del provvedimento ma che non trovava alcun riscontro nel dato testuale dell’art. 37, comma 2, cit., così come interpretato dalla sentenza n. 23122 là dove si faceva rientrare nel divieto legislativo ogni provvedimento comunque denominato e idoneo a definire la regiudicanda.
Rilevato ciò, parimenti non pertinente veniva considerato il riferimento, contenuto in alcune decisioni di legittimità, alla ordinanza della Corte costituzionale n. 205 del 7 giugno 2010 (menzionata anche in un passaggio della sentenza n. 13626) poiché tale decisione aveva riguardato un problema del tutto diverso, ossia la legittimità costituzionale dell’art. 525, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui prevede che «alla deliberazione debbano concorrere a pena di nullità assoluta i medesimi giudici che hanno partecipato al dibattimento», sul rilievo che l’utilizzabilità di atti di natura probatoria formatisi davanti ad un diverso giudice è prevista da numerose disposizioni del codice di rito, tra le quali v’è anche la disposizione di cui all’art. 42, comma 2, cit..
Problema, questo, che il giudice delle leggi, nell’escludere la fondatezza dell’eccezione di illegittimità, aveva risolto limitandosi ad affermare che tale disposizione vale “a delimitare l’area del possibile “recupero” dell’attività istruttoria già espletata”, ma non esclude che, entro tale area – assistendosi, di nuovo, ad un mutamento della persona fisica del giudicante – trovino applicazione le regole generali (ad es. l’art. 511 cod. proc. pen.) relative a tale evenienza; e che in seguito questa Corte, con la sentenza n. 13626, ha dovuto parimenti affrontare menzionando quel passaggio motivazionale della predetta ordinanza nella prospettiva, ad essa specificamente devoluta, dell’efficacia, o meglio dell’utilizzabilità, degli atti a contenuto probatorio, il cui recupero in fase dibattimentale – dinanzi al giudice che, per l’appunto, ha sostituito il giudice “sospetto” – può avvenire soltanto se tali atti siano stati inseriti nel fascicolo per il dibattimento.
Nel percorso argomentativo delineato dalla sentenza n. 13626, infatti, è rinvenibile, da un lato, l’affermazione della regola generale posta dall’art. 42, comma 2, cit. in ordine alle conseguenze dell’omessa dichiarazione di conservazione dell’efficacia degli atti del giudice astenutosi o ricusato, dall’altro lato, l’attenuazione dei suoi possibili effetti attraverso la individuazione di una forma di sindacato postumo del giudice del dibattimento sulla decisione del giudice competente in materia di astensione e ricusazione che la Corte ha declinato in relazione ai soli atti probatori del giudice ritenuto “sospetto” poiché solo ad essi era legato l’oggetto del giudizio.
A fronte di quanto appena esposto, si riteneva opportuno richiamare, sotto tale profilo, la peculiarità del caso di specie ove il Tribunale, dopo aver accolto la dichiarazione di astensione di alcuni dei componenti del collegio dibattimentale senza indicare quali degli atti processuali già compiuti conservassero efficacia, aveva dichiarato utilizzabili gli atti probatori assunti dal precedente collegio e ne aveva dato lettura ex art. 511 cod. proc. pen. mentre la difesa sosteneva che la sentenza era nulla poichè la mancata dichiarazione di efficacia impediva di utilizzare ai fini della decisione gli atti probatori compiuti dal giudice in precedenza astenutosi.
Degli atti non probatori la Corte non aveva fatto menzione nella seconda parte della richiamata decisione là dove si faceva riferimento al meccanismo di controllo successivo da essa individuato sol perché quegli atti, pur implicitamente ricompresi nel perimetro applicativo della regola generale prima tracciata, esulavano dall’oggetto della questione sottoposta alla sua cognizione.
Se la portata applicativa della soluzione indicata nella sentenza n. 13626 fosse limitata esclusivamente agli atti probatori compiuti dal giudice astenutosi o ricusato e non investisse anche gli atti di altra natura – come le misure cautelari personali e reali, i negozi processuali, gli atti propulsivi e tutti i provvedimenti a mero titolo esemplificativo indicati nella sentenza n. 23122, per il Supremo Consesso:
– si accoglierebbe una lettura non consentita dal dato normativo testuale delle richiamate disposizioni di cui agli artt. 37, 41 e 42 cit., con il rischio, paradossale, di escludere dall’ambito di applicazione dell’inefficacia una vasta categoria di atti (basti solo pensare ai provvedimenti incidentali in tema di misure cautelari) che potrebbero essere parimenti compromessi dalla mancanza di imparzialità del giudice che li ha adottati in quanto basti richiamare, in tal senso, la costruzione lessicale dell’art. 42, comma 2, cit., la cui formulazione, esaminata assieme al primo comma della medesima disposizione, contiene un riferimento solo generico ad atti precedentemente compiuti dal giudice ricusato o astenutosi, senza individuare alcuna distinzione all’interno della categoria generale, utilizzata nel primo comma, degli “atti del procedimento“.
Anche altre disposizioni in tema di ricusazione utilizzano espressioni analoghe, idonee a ricomprendere qualsiasi tipologia di atto: l’art. 41, comma 2, cit., ad esempio, prevede la possibilità di una temporanea sospensione di qualsiasi “attività processuale“,eventualmente limitata al compimento di “atti urgenti” ma senza stabilire alcuna restrizione del loro ambito a quelli di natura probatoria.
L’art. 38, comma 1, cod. proc. pen., inoltre, nel prevedere a sua volta termini e forme della dichiarazione di ricusazione, stabilisce che la dichiarazione può essere proposta, anche al di fuori dell’udienza preliminare o del giudizio, “prima del compimento dell’atto da parte del giudice”: anche a fronte di tale, onnicomprensiva, evenienza procedimentale il codice non distingue in alcun modo fra le diverse tipologie di atti, né fra quelli che possono essere compiuti prima o dopo la presentazione della relativa dichiarazione, sicchè l’oggetto del riesame selettivo copre l’insieme dell’attività svolta dal giudice astenutosi o ricusato.
In conclusione, la questione posta dall’ordinanza di rimessione veniva risolta enunciando il seguente principio di diritto: «In caso di accoglimento della istanza di ricusazione del giudice dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio – emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione – non conserva efficacia ed è affetto da nullità ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.».
Una volta formulato tale principio di diritto, il Supremo Consesso evidenziava, a questo punto della disamina, come l’ordinanza di rimessione avesse posto all’attenzione delle Sezioni Unite l’esigenza di un nuovo intervento regolativo che risolvesse le evidenziate disarmonie anche in relazione all’ulteriore profilo attinente al rapporto fra i poteri del giudice della ricusazione che abbia accolto la relativa domanda e quelli del giudice subentrato nel procedimento principale.
Rilevava sul punto la Sezione rimettente come l’applicazione dei principi affermati dalla pronuncia n. 13626 abbia palesato delle incertezze in ordine alla stessa estensione del loro contenuto imponendo l’esigenza di una più ampia verifica della loro tenuta sistematica e, in particolare, del meccanismo processuale che, al fine di evitare punti di frizione costituzionale del sistema, rimette al giudice del procedimento principale il sindacato finale sul provvedimento emesso in ordine alla efficacia degli atti assunti dal giudice poi astenutosi o ricusato, ai sensi dell’art. 42, comma 2, cit.
Orbene, muovendo dalla considerazione della non impugnabilità del provvedimento emesso in forza di tale disposizione normativa, la richiamata decisione delle Sezioni Unite aveva risolto il problema dell’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non consentiva di attivare una forma di controllo sulla declaratoria (esplicita o implicita) di inefficacia degli atti.
Alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 42, comma 2, cit. essa aveva ritenuto possibile attivare dinanzi al giudice del procedimento principale un nuovo vaglio delibativo circa l’inefficacia degli atti a contenuto probatorio compiuti dinanzi al giudice “sospetto” in analogia con quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità in relazione ai provvedimenti adottati in tema di astensione e di ricusazione nel processo civile.
La soluzione in tal modo individuata, ad avviso delle Sezioni Unite, consentiva di eliminare i dubbi di costituzionalità della richiamata disposizione restituendo alle parti ed al giudice del dibattimento la piena disponibilità del materiale probatorio conformemente alla previsione del sistema processuale poiché, affermava la Corte, è proprio in tale sede di giudizio che, prima di dichiarare utilizzabili le prove secondo il combinato disposto degli artt. 525 e 511 cod. proc. pen., il giudice valuterà quelle acquisite anche in relazione ai profili che potrebbero determinarne la inefficacia ai sensi dell’art. 42, comma 2, cit. posto che le parti potrebbero dissentire anche sull’apprezzamento negativo, o parzialmente negativo, del giudice che ha accolto la ricusazione o ha autorizzato l’astensione, e tale dissenso potrebbe insorgere sia subito dopo l’adozione del provvedimento, sia, a maggior ragione, dopo l’espletamento della istruttoria dibattimentale.
Sotto tale specifico profilo, però, come posto in rilievo dalla dottrina, veniva notato come la decisione n. 13626 avesse modificato radicalmente il meccanismo delineato dal legislatore nel codice del 1988 atteso che, seguendo tale prospettiva, la questione dell’efficacia degli atti compiuti dal giudice “sospetto“, devoluta alla competenza funzionale di un organo giurisdizionale diverso da quello costituito ai fini della cognizione della res iudicanda, non rimarrebbe più confinata negli spazi ristretti del procedimento incidentale ad hoc.
Il provvedimento adottato al termine della procedura incidentale, ad avviso delle Sezioni Unite, verrebbe in tal modo ad assumere un carattere meramente “dichiarativo” ed una portata “interinale” quando invece la volontà del legislatore è quella di concludere in tempi brevi e con una decisione definitiva la questione degli effetti derivanti dall’accoglimento dell’astensione o della ricusazione tenuto conto altresì del fatto che la soluzione prospettata non opera alcuna distinzione a seconda che vi sia stata una dichiarazione di conservazione, totale o parziale, di efficacia degli atti del giudice “sospetto” ovvero alcun provvedimento sia stato adottato in merito alla sorte degli atti pregressi.
Dinanzi al “nuovo” giudice del dibattimento, peraltro, sempre secondo i giudici di piazza Cavour, potrebbero essere escluse dal fascicolo prove già dichiarate efficaci con conseguenze pregiudizievoli sulla predisposizione delle strategie probatorie delle parti.
Oltre a ciò, veniva infine rilevato come fossero stati già sottolineati i possibili rischi che potrebbero determinarsi per l’immagine di assoluta imparzialità del giudice qualora la portata della soluzione in tal modo indicata dovesse ritenersi limitata esclusivamente agli atti probatori compiuti dal giudice “sospetto” e non investisse anche gli atti di altra natura come, ad esempio, le misure cautelari personali e reali.
E’ evidente, pertanto, secondo gli Ermellini, che l’introduzione di siffatta procedura di controllo e riesame selettivo postumo, non prevista dal codice, verrebbe inevitabilmente a sovrapporsi al vaglio del giudice funzionalmente competente a provvedere all’esito del relativo procedimento incidentale in quanto se, da un lato, la soluzione così individuata, pur non prevista dal codice, ha opportunamente inteso rimuovere il sospetto di incostituzionalità incombente sulla relativa disciplina, dall’altro lato, essa non ha adeguatamente valorizzato la rilevanza che il sistema processuale attribuisce alla decisione sull’efficacia degli atti adottata dal giudice della ricusazione riconoscendole una portata solo interinale ed un’incidenza meramente dichiarativa là dove trasferisce in altra sede di giudizio la possibilità di riesaminare gli atti compiuti dal giudice prima dell’accoglimento della relativa dichiarazione e, al contempo, ne differisce il vaglio al momento in cui occorre provvedere alla rinnovazione del dibattimento dinanzi ad altro giudice.
La ratio ispiratrice della disciplina codicistica, di contro, per la Cassazione, si muove nella diversa prospettiva di consentire una chiusura immediata e definitiva del giudizio incidentale sulla ricusazione con l’adozione delle relative statuizioni sugli effetti degli atti in precedenza compiuti fermo restando che tali statuizioni producono immediatamente le loro conseguenze e su di esse le parti possono aver fatto affidamento orientando le successive richieste ed esercitando i relativi diritti processuali laddove la decisione assunta dal nuovo giudice in ordine alla eliminazione di una prova o di un determinato atto processuale dalla base cognitiva che ne dovrebbe sorreggere il giudizio in sede dibattimentale potrebbe porsi in antitesi rispetto alla libera esplicazione di forme e modalità di esercizio di diritti e facoltà la cui piena tutela rischierebbe di non essere adeguatamente garantita dalla riproposizione di un sindacato di merito sui limiti di efficacia di un atto che potrebbe non essere convalidato ex post.
Da tale approdo interpretativo, dunque, il Supremo Collegio intendeva discostarsi valorizzando l’esigenza di ricondurre integralmente il controllo sugli atti compiuti dal giudice “sospetto” nell’ambito del giudizio incidentale che l’organo giurisdizionale a ciò funzionalmente preposto è chiamato a celebrare ex art. 40 cod. proc. pen.: modulo procedimentale, questo, che nella prospettiva delineata dal legislatore costituisce – anche per la possibilità di svolgimento di una celere e “mirata” attività istruttoria – il naturale alveo di trattazione della relativa delibazione, attraverso lo stretto collegamento logico-sistematico tra i diversi tipi di provvedimenti che rispettivamente possono esservi assunti per effetto delle previsioni di cui agli artt. 41, commi 2 e 3, e 42, comma 2, cit. .
Sotto tale profilo veniva inoltre rilevato che il procedimento di ricusazione integra una sequenza autonoma di tipo incidentale destinata a chiudersi in tempi necessariamente brevi per la tutela dei principi di ordine costituzionale che ne presidiano l’attivazione, ed unanimemente ritenuta del tutto estranea – per presupposti, forme di svolgimento, epiloghi decisori e finalità – alle caratteristiche proprie del processo principale su cui essa s’innesta deducendosi al contempo come la Cassazione (Sez. 1, n. 4533 del 11/12/1990) abbia affermato il principio secondo cui l’esercizio del diritto di ricusazione del giudice, tanto nel codice vigente che in quello abrogato, determina un procedimento incidentale autonomo il cui oggetto è essenzialmente diverso da quello del processo nel quale si inserisce trattandosi di una potestà che la legge attribuisce al p.m. ed alle parti private, in ordine alla costituzione del giudice.
Rientra, dunque, per la Corte, nella competenza funzionale dell’organo giurisdizionale, chiamato a pronunciarsi sulla ricusazione l’individuazione degli atti che conservano o meno efficacia, sulla base di una valutazione autonoma e non sovrapponibile, da un lato o dall’altro, a quella propria del giudice del dibattimento, a sua volta non competente a decidere sul relativo incidente in forza della disposizione di cui all’art. 40 cit. posto che è evidente che, nel riesaminare i profili di imparzialità e terzietà del giudice con riferimento agli atti da lui compiuti, il giudice della rinnovazione sarà inevitabilmente chiamato a rivalutare gli stessi presupposti sui quali si è già pronunciato il giudice funzionalmente competente a provvedere sulla ricusazione con il possibile determinarsi di ulteriori incoerenze sistematiche legate, da un lato, all’esercizio dei diritti di impugnazione su una materia sottratta alle decisioni dell’organo giurisdizionale chiamato a celebrare il processo, dall’altro lato, alla possibile attivazione di un sindacato su atti “pregiudicati” – siano essi di natura probatoria o meno – compiuti in una fase processuale antecedente a quella dibattimentale: atti dei quali il giudice del dibattimento non dispone e che dovrebbe pertanto acquisire per verificare quanto avvenuto nella fase precedente dissolvendo la ratio della competenza funzionale attraverso la duplicazione di un improprio controllo di merito, peraltro esercitato non in forma “verticale“, ma “orizzontale” contrariamente alla logica del sistema.
E’ quindi, nel ristretto contesto del giudizio incidentale volto a stabilire, caso per caso, il grado di “compromissione” del giudice ai fini della decisione se sia legittima o meno la richiesta di sostituirlo, che deve essere propriamente effettuata la valutazione sulla sorte degli atti che quel giudice ha compiuto nel corso del procedimento trattandosi di decisioni che, come osservato dalla dottrina, “presuppongono ontologicamente uno stesso tipo di apprezzamento”, quello inerente, appunto, ai profili di imparzialità-terzietà in concreto del giudice.
Invero, evidenziavano le Sezioni Unite, nel recidere ogni legame tra l’istanza di ricusazione e la sospensione dell’attività processuale (art. 41, comma 2, cod. proc. pen.), il sistema disegnato dal legislatore del 1988 e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale mira a “rafforzare“, come già sottolineato dalla Cassazione (Sez. U, n. 31421 del 26/06/2002), “la funzione di filtro svolta dal giudice della ricusazione, al quale solo compete la scelta in ordine all’eventuale sospensione del processo principale e, quindi, la valutazione del fumus boni iuris che assiste la dichiarazione presentata”.
Di conseguenza, entro tale prospettiva ermeneutica, secondo la Suprema Corte, il “merito della ricusazione“, a voler utilizzare la formula lessicale impiegata dal legislatore nella disposizione di cui all’art. 41, comma 3, cit., costituisce l’oggetto dell’attività demandata al giudice funzionalmente competente a decidere nell’ambito della relativa procedura incidentale e ricomprende nel suo ampio raggio di applicazione qualora la relativa dichiarazione venga accolta anche l’operazione di controllo selettivo sugli atti che conservano efficacia ai sensi dell’art. 42, comma 2, cit. fermo restando che non di un’attività meramente ricognitiva si tratta ma, come osservato dalla dottrina, di una puntuale verifica incentrata su ogni singolo atto al fine di stabilire se ne sia possibile il recupero, accertando se la sua formazione sia avvenuta in situazioni e condizioni tali da escludere qualsiasi rischio di compromissione delle richiamate i garanzie costituzionali tenuto altresì conto del fatto che è il risultato di un orientamento interpretativo costante nella giurisprudenza della Cassazione l’affermazione del principio secondo cui il provvedimento sul “merito” della ricusazione, adottato ai sensi dell’art. 41, comma 3, è impugnabile dinanzi alla Corte di cassazione che decide al riguardo, in difetto di specifica disciplina, nelle forme del rito camerale disciplinato dall’art. 611 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 3853 del 24/11/1999; Sez. 1, n. 5251 del 29/09/1999; in motivazione, Sez. 6, n. 47556 del 16/10/2013) rilevandosi al contempo che in tal senso l’art. 41, comma 3, cit. stabilisce che sul merito della ricusazione la Corte di Appello decide a norma dell’art. 127 cod. proc. pen. il quale a sua volta prevede, nel settimo comma, che l’ordinanza conclusiva del relativo giudizio è ricorribile per cassazione e per tal via detto rimedio è azionabile anche contro la decisione sul merito della ricusazione sebbene il disposto di cui all’art. 41, comma 3, c.p.p. non ne faccia espressamente menzione a differenza di quanto esplicitato nel primo comma a proposito dell’ordinanza con la quale la corte di appello dichiara la inammissibilità dell’istanza di ricusazione.
Sulle ragioni di tale scelta del legislatore, le Sezioni Unite facevano tra l’altro presente come si sia soffermata la Relazione al progetto preliminare del codice di proceduta penale là dove aveva spiegato che non si è ritenuto necessario “formulare alcuna esplicita previsione” sulla ricorribilità per cassazione dell’ordinanza che decide sul merito della ricusazione “provvedendo al riguardo in via generale” la disposizione che regola il procedimento di cui all’art. 127 cit., alla quale fa espressamente rinvio il terzo comma dell’art. 41 cit..
Ebbene, proprio per realizzare “un più ampio contraddittorio nel procedimento incidentale di ricusazione”, il legislatore ha fatto rinvio, come sottolineato nella predetta Relazione, alle disposizioni che regolano il procedimento camerale prevedendo che possano esservi assunte, se necessario, le opportune informazioni.
Dalla trama normativa delineata dal legislatore emergeva quindi, per la Corte di legittimità con chiarezza, che il provvedimento richiamato nell’enunciato della disposizione di cui all’art. 42, comma 2, cit. pertiene logicamente alla pronuncia sul merito della ricusazione ex art. 41, comma 3, cit. nel senso che ne forma parte necessaria ed integrante atteso che nel disegno del codice il provvedimento dichiarativo, che ne costituisce l’oggetto, è il risultato di un’attività doverosa e necessaria da parte del giudice che pronuncia sul merito della ricusazione finanche nell’ipotesi in cui vi appaia temporalmente scissa e non contestualmente adottata, come di regola dovrebbe accadere in seno all’ordinanza che decide sul merito della ricusazione, la declaratoria in ordine alla conservazione dell’efficacia degli atti non si traduce in un provvedimento autonomo ma nel necessario epilogo della decisione sull’oggetto del giudizio incidentale.
Se, dunque, si ammette la ricorribilità del provvedimento reso sul merito della ricusazione ai sensi dell’art. 41, comma 3, c.p.p., per il Supremo Consesso, non è possibile escludere al contempo l’impugnabilità del provvedimento ad esso direttamente collegato ex art. 42, comma 2, cit. e ciò vale anche nella ipotesi in cui il provvedimento di accoglimento della dichiarazione di ricusazione ometta completamente di provvedere in merito alla declaratoria di conservazione della efficacia degli atti pregressi – di natura probatoria e non – compiuti dal giudice ricusato, altrimenti verificandosi in tal caso, per effetto della regola presuntiva individuata dalla sentenza n. 13626, una situazione di generale, e al contempo immotivata, improduttività di effetti non suscettibile di controllo in sede di legittimità e in tal caso l’impugnazione in Cassazione dell’ordinanza sul merito della ricusazione ben potrà far valere l’omessa pronuncia del giudice e, dunque, la strutturale incompletezza del provvedimento che egli avrebbe dovuto adottare in relazione ai temi oggetto della connessa declaratoria prevista dall’art. 41, comma 3, cit..
Sulla base delle considerazioni sin qui esposte, veniva pertanto enunciato il seguente principio di diritto: «L’ordinanza che decide sul merito della ricusazione ai sensi dell’art. 41, comma 3, cod. proc. pen. provvede contestualmente a dichiarare, in caso di accoglimento della dichiarazione di ricusazione, se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci; contro tale ordinanza è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia sulla conservazione della efficacia degli atti, ricorso per cassazione nelle forme dell’art. 611 cod. proc. pen.».
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante in quanto con essa si chiarisce cosa accade al decreto che dispone il giudizio emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del giudice dell’udienza preliminare.
Difatti, in tale pronuncia, componendosi un contrasto giurisprudenziale, viene affermato il principio di diritto secondo il quale, in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del giudice dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio – emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione – non conserva efficacia ed è affetto da nullità ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen..
Dunque, fermo restando che in tale pronuncia è stato affermato anche il principio di diritto secondo il quale l’ordinanza che decide sul merito della ricusazione ai sensi dell’art. 41, comma 3, cod. proc. pen. provvede contestualmente a dichiarare, in caso di accoglimento della dichiarazione di ricusazione, se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci; contro tale ordinanza è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia sulla conservazione della efficacia degli atti, ricorso per cassazione nelle forme dell’art. 611 cod. proc. pen.», tale sentenza deve essere presa nella dovuta considerazione, in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del giudice dell’udienza preliminare, laddove il decreto che dispone il giudizio sia emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione, ben potendosi eccepire, alla luce di questo arresto giurisprudenziale, la sua nullità.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, quindi, non può che essere positivo.
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