- Il riconoscimento del figlio naturale.
- L’azione per il riconoscimento di paternità.
- Il “falso riconoscimento di paternità”.
- L’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c.
- I “risvolti” penali del falso riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale.
Ai sensi dell’art. 250 c.c. il figlio naturale può essere riconosciuto dal padre e dalla madre anche se uniti in matrimonio con un’altra persona.
Il riconoscimento può esser fatto nell’atto di nascita, o con una dichiarazione resa avanti ad un ufficiale dello stato civile, o anche in un atto pubblico o in un testamento.
I genitori possono riconoscere il figlio naturale sia congiuntamente che disgiuntamente. In quest’ultimo caso però il riconoscimento del figlio (minore dei sedici anni), non può avvenire senza il consenso del genitore che abbia effettuato il riconoscimento per primo, se invece il figlio ha compiuto i sedici anni, il riconoscimento non può avvenire senza il suo consenso.
Il consenso non può esser negato se il riconoscimento risponde all’interesse del figlio.
L’azione per il riconoscimento di paternità.
Ma cosa accade in concreto se il genitore che ha per primo riconosciuto il figlio naturale, si oppone a che l’altro genitore effettui a sua volta il riconoscimento?
A quest’ultimo non rimane che rivolgersi alla competente Autorità Giudiziaria.
L’art. 250 co. 3 c.c. prevede infatti che il genitore che vuole effettuare il riconoscimento proponga ricorso al Tribunale competente il quale, instaurato il contraddittorio con il genitore che si oppone e con il Pubblico Ministero, decide con sentenza che in caso di accoglimento della domanda, avrà lo stesso effetto del consenso.
La decisione del Tribunale deve esser presa nell’esclusivo interesse del figlio con riferimento alle sue esigenze materiali, morali e psicologiche, anche con riferimento all’età e attuando una valutazione comparativa tra quella che è la condizione attuale del minore e quella in cui verrebbe a trovarsi dopo il “secondo riconoscimento”. Il Tribunale rigetterà il ricorso solo se tale riconoscimento possa tradursi in un pregiudizio per la sua personalità ed il suo complessivo equilibrio[1] .
Il “falso riconoscimento di paternità”.
Esaminiamo in proposito un caso del tutto particolare.
Una donna sposata ha un figlio fuori dal matrimonio. La donna effettua per prima il riconoscimento del bambino ma si oppone a che il padre naturale effettui a sua volta il riconoscimento.
Il padre, stante il rifiuto della donna, ricorre al Tribunale ex art. 250 c.c. al fine di ottenere una sentenza che abbia luogo del consenso rifiutato.
Interviene a questo punto un elemento che pone fin al giudizio con una sentenza di non luogo a deliberare.
Alla “vigilia” dell’esame del DNA che il Tribunale aveva disposto sul bambino e sul padre naturale, il marito della donna, con il consenso della stessa, effettua avanti all’Ufficiale dello Stato Civile, il riconoscimento del bimbo.
Di fronte a questa evidenza l’azione ex art. 250 c.c. non può esser portata avanti e il Tribunale pronuncia una sentenza di non luogo a deliberare[2].
A questo punto il bambino era legalmente riconosciuto sia dalla madre che dal “padre”, e non c’era più spazio per l’azione di riconoscimento.
Non si può certo riconoscere un figlio già riconosciuto.
L’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c. .
Il padre naturale deve dunque intraprendere un altro percorso avviando un nuovo giudizio.
L’art. 263 c.c. prevede infatti la possibilità di impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità. Possono impugnare l’autore stesso del riconoscimento, colui che è stato riconosciuto e chiunque vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile e può essere promossa anche dopo la legittimazione.
Nel caso in esame l’impugnazione viene accolta con sentenza che dichiara la non veridicità del riconoscimento di paternità effettuato dal marito della donna e dichiara la perdita da parte del minore del cognome di quest’ultimo e l’acquisizione del cognome della madre[3]. La situazione è di nuovo quella di partenza.
A questo punto il padre naturale può di nuovo intraprendere l’azione ex art. 250 c.c., ed è quello che fa. Ottiene una sentenza di accoglimento che vale come consenso al riconoscimento di paternità e finalmente può procedere al riconoscimento del figlio.
I “risvolti” penali del falso riconoscimento.
Nella vicenda in esame non sono mancate le conseguenze penali per la donna e suo marito.
Il Tribunale per i Minorenni avanti al quale pendeva il primo giudizio ex art. 250 c.c., appreso dell’avvenuto riconoscimento da parte del marito della donna, pronunciò sentenza di non luogo a procedere ma al contempo, – considerati i modi e la tempistica di quel riconoscimento di paternità, effettuato all’evidente scopo di impedire il riconoscimento da parte del padre naturale -, inviò gli atti alla Procura[4].
La donna e il marito furono processati e condannati per il reato di cui agli artt. 110 e 483 c.p. perché in concorso e previo accordo tra loro, l’uomo, nell’atto di riconoscimento di figlio naturale attestava falsamente all’Ufficiale dello Stato Civile di essere il padre del bambino, la donna, nel medesimo atto dava il suo consenso, pur essendo entrambi consapevoli che la paternità naturale era da attribuire “all’amante”. La Corte d’Appello di Firenze, avanti alla quale i coniugi avevano impugnato la sentenza di primo grado, ha confermato la sentenza del Tribunale di Pistoia[5].
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[1]Cassazione Civile 6649/1986
[2]Tribunale per i Minorenni di Firenze, sezione civile, sentenza n. 14/03
[3]Tribunale di Pistoia, sentenza n. 139/09.
[4]Tribunale per i Minorenni di Firenze, Sezione Civile, sentenza n. 14/03.
[5]Tribunale di Pistoia, sentenza n. 127/07; Corte di Appello di Firenze, sentenza n. 3818/09.
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