L’ordinamento lavoristico italiano ha iniziato a consolidarsi nel corso degli anni settanta attraverso lo Statuto dei Lavoratori, caratterizzandosi così per una solida base di disposizioni aventi carattere inderogabile atte a proteggere la posizione del lavoratore, sia dal punto di visto normativo che retributivo. ( Riv. It. Dir. Lav. 2009, 3, 413- le modifiche in pejus delle condizioni individuali di contratto nelle ristrutturazioni di impresa in Italia.)
Era quindi possibile asserire che il diritto del lavoro è costituito per la gran parte da norme inderogabili, che si caratterizza non solo perché elimina la clausola difforme ma anche perché ne assume efficacia sostitutiva.
A suo tempo, la Corte Costituzionale (sentenza n. 344/1996 e 266/1994) ha sottolineato la natura di fonte extra ordinem del contratto collettivo in presenza di leggi che deleghino alla contrattazione collettiva le stesse funzioni di produzione normativa con efficacia generale. E’ pertanto da considerarsi una sorta di delega di efficacia che sino ad oggi ha assunto caratteristiche specifiche e circostanziate, che permettono al legislatore di valutare puntualmente l’ opportunità della deroga, consentendo l’ assestamento della fonte legislativa. Di grande rilievo sono poi gli accordi trilaterali tra Governo e sindacati che realizzano la c.d. concertazione sociale della politica economica e salariale. Non si tratta però di contratti, ma di vincoli assunti nel nome del Governo e del legislatore ( Vallebona, op.cit., 30). Alla contrattazione collettiva sono così concesse notevoli deroghe alle norme concernenti il trasferimento d’ azienda di cui all’ art. 2112 del codice civile ( deroghe che addirittura ebbero a configgere con l’ Ordinamento Comunitario- v. Corte Di Giustizia 25.7.91 e Roccella Dir. Lav. Comunità Europea). Anche la legge 223/1991 in tema di ammortizzatori sociali, cassa integrazione e mobilità, concede ampie deroghe alla contrattazione collettiva. Così è accaduto con le recenti normative in tema di flessibilità dei rapporti di lavoro. Notiamo così che la delega del legislatore alla contrattazione collettiva è frequente laddove la materia trattata coinvolga interessi esposti alle fluttuazioni dell’ economia e del mercato. Si tratta sempre di deleghe puntuali attinenti a specifici settori di intervento dove la legge apre le proprie maglie alla negoziazione contrattuale. Permane dunque come principio generale l’ inderogabilità della normativa del lavoro allorquando si pone come normativa di tutela della parte debole, anche se può notarsi nel tempo una costante emancipazione della norma contrattuale rispetto alla fonte legale. Non si è giunti però ad un sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale a causa della mancata attuazione dell’ art. 39 della Costituzione che impone alle associazioni sindacali il filtro del riconoscimento al fine di poter dar luogo ad accordi sindacali a carattere generale. Inoltre, alla questione giuridica così prospettata, corrisponde un ambito di rappresentatività diversa tra la fonte legale e quella contrattuale. La prima è il risultato dell’ esemplificazione di un potere legislativo volto a rappresentare gli elettori mediante regole di rango costituzionale; mentre lo stesso non accade per l’ attività di negoziazione sindacale che non appare legata ad un simile quadro di generalità in mancanza dell’ attuazione dell’ art. 39 della Costituzione. Vero è che nell’ attuale quadro economico è avvertita la necessità di una fonte normativa capace di adattarsi rapidamente alle realtà emergenti, ma è anche altrettanto vero che la rappresentatività sindacale, in assenza di regole eteronome e di un processo democratico e predeterminato delle decisioni, fatica a rappresentare le nuove istanze dei senza lavoro, dei precari ma anche delle più alte professionalità.
Questa situazione di sostanziale equilibrio viene però a mutare con l’ormai approvato art. 8 del Decreto Legge 13 agosto 2011 n.138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo. Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità). Tale nuova disposizione ha introdotto un particolare meccanismo di regolazione delle materie concernenti l’organizzazione del lavoro, fondato sulla stipulazione di contratti collettivi aziendali o territoriali dove è previsto possano essere raggiunte specifiche intese con i sindacati in grado di derogare alla stessa disciplina legale e con efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati. Rivolto quindi alle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale e alle RSA operanti nelle aziende, l’ articolo stabilisce che tali intese sono finalizzate “alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’ adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’ emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’ avvio i nuove attività.” La norma parla inoltre espressamente di impianti audiovisivi e nuove tecnologie, mansioni e inquadramento, contratti a termine, orario, modalità di assunzione, disciplina del rapporto di lavoro, conseguenze del recesso ad eccezione del licenziamento discriminatorio. Unitamente a ciò è però opportuno ricordare che nell’ ambito operativo dell’ art. 8 rientrano anche le collaborazioni a progetto e le partite IVA: questo a riprova della quanto mai ampia delega e deroga alla gerarchia delle fonti introdotta con questa disposizione di legge e concepita a favore della contrattazione collettiva. Si crea pertanto una situazione inedita dove in forza di un generico raccordo legislativo dato dall’ art. 8 la contrattazione aziendale può sostituirsi a norme di legge inderogabili.
Inoltre, ulteriori criteri di legittimazione dei soggetti attori sono contenuti nell’ accordo interconfederale del 28.6.2011, che definisce una sorta di certificazione della rappresentatività in sede aziendale determinata dal numero delle deleghe relative ai contributi sindacali e dai dati relativi alle elezioni per le RSU che andrebbero assieme ponderate.
Sono molte le perplessità sul piano tecnico che solleva questa disposizione di legge, in primis perché comporta il sovvertimento del normale ordine gerarchico delle fonti del diritto, mentre dovrebbe essere la disciplina contrattuale a soggiacere alla legge e non viceversa. Permette infatti di derogare, ove si siano stipulate le intese tra associazioni dei lavoratori o le loro rappresentanze sindacali operanti in azienda, dalle disposizioni di legge che disciplinano tutte le materie richiamate dal secondo comma. Dette leggi non comprendono solo lo Statuto dei Lavoratori del 1970, ma anche le altre centinaia di disposizioni che hanno interessato il diritto del lavoro dagli anni settanta in poi.
Quel di cui poi si dovrebbe tenere conto, e che appare ancor più grave, è che tali leggi, sulle quali si basa il nostro ordinamento, sono per la gran parte di diretta derivazione del diritto comunitario. Da cinquant’ anni la Comunità Europea è all’ opera per conseguire elevati livelli non solo di occupazione, ma anche di protezione sociale, migliori condizioni di vita e lavoro e la coesione economica e sociale. I principi e i diritti fondamentali a cui la Comunità si ispira sono contenuti essenzialmente nella Carta Dei Diritti Fondamentali Dell’ Unione Europea firmata come Dichiarazione solenne al Consiglio europeo di Nizza, nel dicembre 2000. Con tale Carta, i principi sociali a cui si ispira l’ Unione Europea ne escono rafforzati: sul piano strettamente lavoristico ci si sofferma su alcuni importanti diritti, quali ad esempio: il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque, la partecipazione alla vita attiva, la tutela in caso di licenziamenti ingiustificati, la libertà di riunione e associazione, il diritto di negoziare e concludere i contratti collettivi, il diritto a forme elementari di partecipazione. Il modello a doppio canale di rappresentanza è quello più diffuso nei Paesi dell’ Unione Europea e in esso vi è una rappresentanza generale dei lavoratori dell’ azienda attribuita ad un organismo unitario eletto dai lavoratori medesimi, mentre alle organizzazioni sindacali sono garantite forme autonome di presenza nell’ impresa, esclusivamente a tutela degli iscritti. Il rispetto di questa caratteristica deve essere assicurato, almeno sul piano formale, rinviando alle fonti nazionali la disciplina delle modalità organizzative e limitando alla semplice attività di informazione e consultazione i poteri dei rappresentanti dei lavoratori. (Gianni Arrigo, Il diritto del lavoro dell’ Unione Europea, Giuffrè, 2000) Per quanto concerne invece i diritti di informazione, gli articoli 12, 27 e 28 della Carta creano un quadro normativo di diritti collettivi idoneo a tutelare la dignità dei lavoratori e che pertanto, deve essere rispettato. L’ attuazione di questo articolo 8, la sua portata derogatoria, comporterebbero anche quindi delle distorsioni alle tutele minime che sono delineate dall’ ordinamento comunitario. Ricordando quindi che tutte le direttive pongono obblighi di risultato che devono essere rispettati ed attuati dai singoli Stati in conformità ai principi cardine, una scorretta attuazione dell’ articolo 8 non farebbe altro che aumentare i contenziosi, dal momento che tutte le normative di cui all’ art. 8, fatta esclusione per i licenziamenti individuali, per i quali la Comunità non ha legiferato, sono coperte da norme comunitarie. Nella “Risoluzione del Consiglio Europeo su crescita e occupazione” del 16 giugno 1997, approvata ad Amsterdam, si è auspicato che “le possibilità offerte ai partner sociali dal Capitolo sociale, che è stato integrato nel nuoo trattato, dovrebbe servire a sostenere l’opera del Consiglio per l’ occupazione. Il Consiglio europeo sostiene il dialogo sociale e il pieno utilizzo della legislazione europea in vigore sulla consultazione delle parti sociali, anche dove è possibile, nei processi di ristrutturazione , e tenendo conto delle regole nazionali” Quest’ ultimo inciso riguarda pertanto anche l’ art. 39 della Costituzione. Ora, ove si dovesse continuare a lasciare inattuata tale direttiva , non potrebbero certo ritenersi, in campo nazionale, un’ aspirazione primaria tanto l’obiettivo europeo di sviluppare una forza lavoro qualificata e flessibile, quanto l’ impegno di rendere i mercati del lavoro sensibili ai cambiamenti economici. (Rossi, Nozioni di Diritto Europeo del lavoro, Cedam, 2000).
In assenza di una legge che, attuando l’ art. 39 della Costituzione, avrebbe potuto istituire un sistema di contrattazione collettiva con efficacia generale, la legge ordinaria disciplina ormai la gran parte del diritto del lavoro, essendo non ipotizzabile una riserva a favore della contrattazione collettiva, in assenza di una legge sindacale che, in attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione, avrebbe dovuto istituire un sistema di contrattazione collettiva con efficacia generale (Vallebona, Istituzioni di Diritto del Lavori I, Il diritto sindacale, Giappichelli 2000, 27). Il che, unitamente ad un continuo proliferare di provvedimenti legislativi, (Vallebona, op.cit., 28) ha come conseguenza una serie di “effetti collaterali” che con il tempo hanno avuto modo di acuirsi. Detto ciò, l’art. 8, nel prevedere che le intese sindacali realizzate con i contratti territoriali o aziendali abbiano “efficacia obbligatoria nei confronti di tutti i lavoratori interessati” ignora l’art. 39, che pone limiti precisi al potere normativo dei sindacati, precisando che essi, a determinate condizioni, unitariamente rappresentati in proporzione ai propri iscritti, possono stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti ad una categoria che impone il riconoscimento di accordi sindacali a carattere generale.
Non si può parlare di articolo 39 senza occuparsi di quanto viene fatto a discapito di un altro importante pilastro della carta, uno dei principi cardine della nostra Repubblica, sancito dall’ art. 3 e volto a garantire l’ uguaglianza sostanziale non solo tra i lavoratori di uno stesso settore, ma anche tra imprese di uno stesso settore. Una lettura congiunta di questo principio costituzionale, assieme a quella degli articoli 35 e 36 porta ad un’ unica e inequivocabile conclusione, ossia che, al fine di tutelare la dignità personale del lavoratore ed il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato e di garantire al lavoratore una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa, è compito del legislatore emanare norme che incidano nei rapporti di lavoro nel rispetto di tali principi.
In definitiva, con la sua approvazione, non solo si attivano una serie di meccanismi volti a mettere in atto la supremazia comunitaria e costituzionale, ma viene indubbiamente snaturata la ratio della contrattazione collettiva nazionale, che si basa sulla garanzia dell’ esistenza di standard uniformi per tutti i lavoratori. Quel che si ottiene infatti con l’ormai approvato articolo 8 è che ciascuna azienda, se raggiunto l’ accordo con i sindacati, possa regolare il rapporto di lavoro con i dipendenti.
In tal senso appare quindi una ferita profonda nell’ ordinamento giuridico, comportando il proliferare di norme diverse, anche da provincia a provincia e di fronte a contratti diversi e quindi a conseguenti conflitti tra essi, non si possono che prospettare difficoltà estreme per gli organi giudicanti (a causa di una legislazione carente) che si vedranno presumibilmente sommersi dai ricorsi.
Appare evidente che solo un sindacato che attui il principio di rappresentatività democratica al proprio interno e sia in grado di rappresentare le diverse istanze del mondo del lavoro e delle professioni globalmente o singolarmente può acquisire quella forza di rappresentanza degli interessi che consentirebbe agli accordi di acquisire valenza generale verso i soggetti rappresentati.
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