Cosa deve contenere il provvedimento di sequestro preventivo di beni ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen

(Riferimenti normativi: Cod. proc. pen., art. 321, co. 2; Cod. pen., art. 240)

Il fatto – I motivi addotti nel ricorso per Cassazione – Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione – Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite – Conclusioni

Il fatto

Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria dichiarava inammissibile una impugnazione proposta da avverso un decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca di somme di denaro ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., in quanto non ancora eseguito, e rigettato l’impugnazione proposta dalla medesima avverso analogo provvedimento finalizzato alla confisca ex art. 240, secondo comma, cod. pen. avente ad oggetto terreno di proprietà dell’indagata.

Entrambi i provvedimenti erano stati inoltre adottati, oltre anche nei confronti di altri quanto indagati, tutti, per i reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di truffe, di illecita raccolta e gestione del risparmio e di numerosi episodi di truffa legati allo schema delle vendite piramidali, nonché per numerosi reati-fine.

In particolare, con un primo decreto, il G.i.p. del Tribunale di Reggio Calabria, ravvisati i gravi indizi in relazione al reato di abusiva raccolta del risparmio ed a tutte le ipotesi di truffa indicate nell’imputazione provvisoria, aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa della somma di euro 765.362,00, quale profitto dell’attività di intermediazione finanziaria, rinvenuto sui conti correnti intestati a taluni degli indagati e ad una società, nonché della somma di euro 48.260,00, quale profitto degli altri reati di truffa rinvenuto sui conti correnti di altri indagati nonché di un’altra società.

Con successivo decreto la misura cautelare reale era stata estesa ad un terreno di proprietà acquistato, sulla scorta degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza, con denaro costituente il profitto derivante dai reati di esercizio abusivo del credito e vendita illecita di prodotti finanziari a carattere “piramidale” (capi b) e c) dell’imputazione contestati, il primo, dal 2007 al 2016 e, il secondo, dal 2007 con condotta “tutt’ora permanente“) e di truffa (capo d) dell’imputazione contestato dal 25/3/2014 all’11/6/2014).

Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale del riesame, investito della sola contestazione concernente il presupposto del periculum in mora, rigettava l’impugnazione proposta avverso tale ultimo decreto ritenendo corretta la valutazione effettuata dal G.i.p. nella parte in cui aveva ritenuto sussistente detto presupposto in virtù della sola confiscabilità del bene, essendo irrilevante la valutazione sia del periculum in mora, che della pertinenzialità del bene.

Si legga anche:

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione uno degli indagati, deducendo, con un unico motivo, i vizi di violazione degli artt. 125 e 321 cod. proc. pen. in merito alla sussistenza del presupposto del periculum in mora posto che il Tribunale del riesame non avrebbe considerato, erroneamente ritenendolo minoritario, il recente orientamento giurisprudenziale (si richiamano, tra le altre, Sez. 5, n. 2308 del 10/11/2017; Sez. 3, n. 5530 del 19/11/2019) che, in relazione al sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa, escludendo qualsiasi automatismo tra la confiscabilità del bene e la sua pericolosità, richiede che il giudice della cautela dia espressamente atto del periculum in mora che giustifica l’apposizione del vincolo, trattandosi, ad avviso del ricorrente, di un’interpretazione costituzionalmente orientata stante l’incidenza della misura ablativa su diritti fondamentali protetti dalla Costituzione.

Nel caso di specie, inoltre, veniva altresì rilevato come la necessità di una motivazione su tale requisito sarebbe discesa anche dalla risalenza nel tempo dei fatti contestati e dall’assenza di condotte della ricorrente volte ad occultare o disperdere il patrimonio, e, in particolare, ad alienare il terreno oggetto del sequestro, ovvero ad aggravare o protrarre le conseguenze del reato.

Sulla base di tali considerazioni, la ricorrente, chiedeva, pertanto, l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

L’assegnataria Quinta Sezione della Corte rimetteva la decisione del ricorso alle Sezioni Unite rilevando l’esistenza di un contrasto interpretativo sulla sussistenza dell’obbligo di motivazione sul periculum in mora in caso di sequestro preventivo di beni finalizzato alla confisca facoltativa.

A tal proposito si evidenziava che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, cui aveva aderito il provvedimento impugnato, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., non presuppone alcuna prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose che ne sono oggetto in quanto queste, proprio perché confiscabili, sono di per sé oggettivamente pericolose.

Pertanto, l’unico requisito richiesto è la confiscabilità del bene essendo, a tal fine, indifferente che si tratti di confisca obbligatoria o facoltativa.

L’ordinanza, nel dare conto di plurime pronunce in tal senso, richiamava, in particolare, Sez. 6, n. 3343 del 25/9/1992, secondo cui “il sequestro strumentale alla confisca previsto dall’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. costituisce figura specifica ed autonoma rispetto al sequestro preventivo regolato dal primo comma dello stesso articolo”, da ciò conseguendo un diverso presupposto di applicabilità e, conseguentemente, la sola verifica che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, il che può avvenire, secondo la disciplina sostanziale del diritto penale, tanto nei casi di confisca facoltativa quanto nei casi di confisca obbligatoria (principio successivamente ribadito da Sez. 6, n. 1022 del 17/3/1995; Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994; Sez. 3, n. 47684 del 17/9/2014, nonché, più di recente, da Sez. 2, n. 31229 del 26/6/2014, e Sez. 3, n. 20887 del 15/4/2015, che avevano ritenuto irrilevante sia la valutazione del periculum in mora, in quanto attinente ai presupposti del sequestro impeditivo, sia quella inerente alla pertinenzialità dei beni).

Oltre a ciò, veniva altresì rilevato come, a fondamento di tale orientamento, venisse richiamata la tesi, desumibile anche dalla Relazione al progetto preliminare del codice vigente, secondo cui il legislatore, attraverso l’art. 321 cod. proc. pen., avrebbe disciplinato due differenti tipologie di sequestro con finalità preventive: da un lato, il sequestro c.d. impeditivo, che ha ad oggetto le cose pertinenti al reato, la cui libera disponibilità può aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri e, dall’altro, il sequestro preventivo prodromico alla confisca diretta connotato, invece, da una tipica finalità “conservativa“, in quanto volto ad assicurare la presenza dei beni di cui all’esito del giudizio, potrà o dovrà essere disposta la confisca. E l’inserimento dell’avverbio “altresì” nel testo dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., avrebbe la funzione di sottolineare, anche sul piano sintattico, che, a differenza del sequestro “impeditivo”, non sarebbe richiesta alcuna ulteriore valutazione circa il pericolo connesso alla libera disponibilità della cosa.

Un diverso orientamento ermeneutico richiamato dalla Sezione rimettente proponeva, invece, una lettura dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. che, anche alla luce delle esigenze di tutela del diritto di proprietà (art. 42 Cost.), escluderebbe ogni automatismo tra confiscabilità del bene e pericolosità richiedendo, invece, in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa, un’espressa motivazione sul periculum in mora che giustifica l’apposizione del vincolo.

Tale orientamento, inaugurato da Sez. 5, n. 2308 del 10/11/2017, muovendo dai principi generali affermati da Sez. 6, n. 151 del 19/1/1994, e Sez. 6, n. 1022 del 17/3/1995, in merito alla necessità che il giudice, allorché dispone il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa, dia ragione del potere discrezionale di cui ha ritenuto di avvalersi, sarebbe stato da ultimo ripreso da Sez. 5, n. 25834 del 22/7/2020; Sez. 3, n. 5530 del 19/11/2019; Sez. 3, n. 10091 del 16/1/2020.

In particolare, tale ultima pronuncia, partendo dal presupposto della natura cautelare della confisca facoltativa, in quanto volta a prevenire la commissione di nuovi reati, avrebbe escluso che la motivazione del provvedimento che la dispone possa essere basata sul solo rapporto di asservimento del bene rispetto al reato, dovendo riguardare anche la circostanza che il reo, secondo l’id quod plerumque accidit, reitererebbe l’attività punibile se restasse nel possesso di detto bene.

A conferma di tale secondo orientamento militerebbe anche l’onere di motivazione in tema di sequestro probatorio del corpo del reato, quale strumento idoneo ad assicurare il permanente controllo di legalità della misura ed il ragionevole rapporto di proporzionalità, anche sotto i profili dell’an e della sua durata, tra lo spossessamento del bene ed il fine endoprocessuale perseguito, già affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 5876 del 28/1/2004; Sez. U, n. 36072 del 19/4/2018), venendo inoltre richiamate le precedenti pronunce che, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica, hanno ritenuto applicabili alle misure cautelari reali i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, espressamente previsti dall’art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali – (Sez. 5, n. 8152 del -21/10/2010; Sez. 5, n. 8382 del 16/1/2013; Sez. 3, n. 21271 del 7/5/2014).

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di tutto, delimitavano la questione sottoposta al loro vaglio giudiziale nei seguenti termini: “necessità o meno che il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca e disciplinato dall’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., sia sorretto da motivazione che, oltre a dare conto del presupposto del fumus commissi delicti, sia anche relativa al requisito del perículum in mora, giacché il solo comma 1 dell’art. 321 (dedicato al cosiddetto “sequestro impeditivo”), richiede espressamente la necessità che la libera disponibilità della cosa da sequestrare possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati, mentre ogni menzione in proposito difetta nel comma 2”.

Premesso ciò, gli Ermellini affermavano la necessità che il provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca dia motivatamente conto della sussistenza, oltre che del fumus commissi delícti, anche del requisito del periculum in mora, da intendersi, tuttavia, in una accezione strettamente collegata alla finalità “confiscatoria” del mezzo, evidentemente diversa da quella “impeditiva” dello strumento del comma 1 dell’art. 321 cod. proc. pen., e alla natura fisiologicamente anticipatoria che il sequestro deve necessariamente assumere, nel corso del processo, rispetto alla stessa confisca.

I giudici di piazza Cavour pervenivano a siffatta conclusione sulla scorta delle seguenti considerazioni.

Si evidenziava prima di tutto come tutte le pronunce intervenute sul punto apparissero essere, in realtà, ugualmente e correttamente volta ad escludere (se si eccettuano affermazioni, evidentemente incidentali, che, pur nell’ambito del secondo indirizzo, seguitano, come già visto, ad includere un riferimento alla “protrazione degli effetti del reato”) che, ai fini del sequestro del comma 2, il giudice debba motivare sul pericolo che la libera disponibilità della cosa da sequestrare possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati: del resto, ove così non fosse, per la Corte, non solo diverrebbe allora sempre sufficiente ricorrere al solo sequestro impeditivo (con conseguente inutilità della stessa previsione ad hoc del comma 2), ma proprio la stessa distinzione normativa dei due sequestri enfatizzata da quasi tutte le sentenze sopra ricordate verrebbe annullata venendo dimenticati i diversi presupposti e la diversa finalità delle due misure, sottolineata anche dalla Relazione al codice di procedura penale.

Sicché, per la Suprema Corte, la effettiva divergenza appare in realtà riguardare, non già il rapporto, di sistema, intercorrente tra il sequestro innpeditivo e quello a fini confiscatori, rapporto appunto unanimemente ricostruito da tutte le pronunce in termini di autonomia reciproca, quanto i riflessi che tale autonomia avrebbe in punto di motivazione in particolare del sequestro del comma 2, facendone il secondo indirizzo discendere, per ciò solo, incongruamente, la mera sufficienza di una motivazione incentrata sulla confiscabilità del bene, e trascurando la stretta connessione intercorrente tra funzione cautelare e relativo rendiconto giustificativo (ovvero la immanenza alla misura cautelare, anticipatrice di effetti ordinariamente conseguenti alla sentenza, della giustificazione della sua adozione).

Precisato ciò, il Supremo Consesso notava come non potesse esservi infatti dubbio, anzitutto, sulla natura autonoma del sequestro preventivo a fini di confisca rispetto a quello impeditivo: oltre alle ragioni logico – sistematiche appena sopra ricordate, ne è indice evidente, per il Supremo Consesso, oltre alla distinta collocazione topografica, all’interno della norma, della prima misura rispetto alla seconda, anche la diversa finalità, rapportata, nel caso del comma primo, all’esigenza di evitare che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati, e, nel caso del comma secondo, invece, all’esigenza di assicurare al processo cose di cui la legge preveda la confisca indipendentemente dalla “attitudine” delle stesse a dare luogo agli effetti e alle conseguenze, in termini di aggravamento, protrazione degli effetti, e reiterazione del reato, già considerati dal primo comma.

Detto questo, la Cassazione rilevava altresì che, tuttavia, se l’autonomia del sequestro a fini di confisca, rispetto a quello impeditivo, ben può giustificare l’affermazione costante secondo cui i parametri di adozione e i conseguenti oneri motivazionali del sequestro di cui al comma 2 non possono ricalcare, evidentemente, quelli del sequestro impeditivo, non per questo la motivazione della misura adottata a fini di confisca potrà sempre esaurirsi nel dare atto, semplicemente, della confiscabilità della cosa, come invece predicato dalle sentenze espressione del primo indirizzo (essendo una tale giustificazione, anzi, sufficiente, come meglio si dirà oltre, solo con riguardo alle cose indicate dall’art. 240, comma 2, n. 2 cod. pen.) dal momento che il fatto che il sequestro, a fini di confisca, debba essere sorretto da una motivazione è affermazione che, per la Corte di legittimità, non può essere posta in dubbio anzitutto con riferimento al piano letterale della norma considerata.

Se è infatti vero che, a differenza del comma 1, testualmente comprensivo del riferimento ad un “decreto motivato” (evidentemente in relazione ai presupposti rivelati dall’incipit dello stesso comma quanto all’oggetto del pericolo che si vuole evitare), il comma 2 nulla evidenzia sul punto della motivazione, è altresì però innegabile che al carattere discrezionale dell’esercizio del potere di ablazione, rivelato dall’impiego del verbo modale (“il giudice può“), ed ancor più sottolineato, oggi, dalla diversa formulazione del nuovo comma 2-bis dedicato ai delitti previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale (“il giudice dispone il sequestro dei beni di cui è consentita la confisca”), non possa non coniugarsi l’esigenza della attestazione della sua giustificazione.

Ciò è quanto, del resto, sempre ad avviso del Supremo Consesso, viene colto da quelle pronunce, annoverabili nel secondo indirizzo, che, proprio su tale elemento, fondano un onere motivazionale (quantunque, evidentemente, non esplicitato dalla norma) in ordine al pericolo che, nelle more del giudizio, la cosa venga modificata, dispersa, deteriorata, utilizzata o alienata; ed è quanto, invece, viene sottovalutato da quelle pronunce annoverabili all’interno del primo indirizzo che, pur dando atto del “dovere” del giudice di “rendere conto dell’esercizio del potere discrezionale attribuitogli dal legislatore, hanno, ciononostante, escluso un “obbligo di motivare sul pericolo” senza esplicitare i margini di differenza tra l’uno e l’altro compito posto che non è dato comprendere perché il dovere di rendere conto della scelta ablatoria esercitata dovrebbe essere altra e diversa cosa rispetto all’essenza stessa della motivazione che, già sotto l’aspetto definitorio generalmente accettato, si risolve nella esposizione delle ragioni che giustificano una determinata decisione, e dunque, con riferimento al provvedimento in oggetto, di spiegare, in termini di fatto e di diritto, le ragioni dell’adozione dello stesso.

Ciò posto, si osservava inoltre come l’indice testuale rivelatore dalla natura discrezionale del potere esercitato si coniughi, poi, con il ragionamento sistematico, e, in particolare, come già anticipato, con la necessità che l’esigenza cautelare in sé non possa, quasi per definizione, non essere sorretta da una motivazione sul punto giacché già il solo fatto che gli effetti di misure limitative di diritti dell’imputato(ordinariamente condizionati all’affermazione di responsabilità o comunque all’accertamento del fatto) vengano anticipati rispetto alla decisione finale non può non comportare, per la Cassazione, un giudizio quanto meno di tipo prognostico non solo sul piano del fumus del reato, ma anche sul piano della necessità di una anticipata esigenza ablatoria attesa la complementarietà dei due profili.

In tale prospettiva, pertanto, nell’ottica assunta dal Supremo Consesso su tale tematica, affermare, come è, nella sostanza, delle sentenze annoverabili all’interno del primo orientamento, che possa bastare sempre, in caso di sequestro finalizzato alla confisca, la motivazione in ordine alla riconducibilità del bene tra le categorie di cose oggettivamente suscettibili di confisca, significa semplicemente motivare ciò che è richiesto, né più né meno, ai fini della misura finale, in tal modo annullando ogni divaricazione tra il piano cautelare e il piano del giudizio, sì che, davvero, la mera confiscabilità finirebbe, inammissibilmente, per giustificare ipso iure il sequestro.

Sicché, anche la mancanza, nelle ipotesi del comma 2 dell’art. 321, a differenza di quanto previsto nell’incipit del comma 1, di una specifica formulazione del presupposto su cui imperniare l’adozione del provvedimento e, conseguentemente, la sua motivazione, è dovuto proprio alla finalità specifica della confisca, le cui diverse tipologie (solo per fermarsi all’art. 240 cod. pen., coevo all’epoca di conio dell’art. 321 comma 2) e il cui diverso possibile oggetto avrebbero reso non praticabile (se non attraverso appunto il richiamo alla mera locuzione di “cose di cui è consentita la confisca“) una specificazione delle diverse esigenze anticipatorie calibrate proprio sulla ragione della confisca stessa.

Né, in tale contesto, sempre ad opinione del Supremo Consesso, l’avverbio aggiuntivo “altresì” del comma 2, valorizzato in senso riduttivo dal primo orientamento, può assumere alcun significato di esclusione di un onere motivazionale del giudice (che semmai sarebbe stato più propriamente il risultato dell’impiego di un avverbio avversativo) dovendo invece, più pianamente, intendersi che, accanto al sequestro impeditivo, il giudice può, “inoltre” (sinonimo, questo, appunto, di “altresì”), disporre anche il sequestro a fini di confisca, tenuto conto altresì del fatto che, anzi, proprio la differente formulazione dei commi 2 e 2-bis conduce, ancor più, a ripudiare la opzione riduttiva, abbracciata dal primo orientamento, di una motivazione confinata nella mera individuazione della confiscabilità del bene, invece sufficiente, alla luce della differente formulazione della norma, proprio per il sequestro introdotto dal legislatore con riguardo ai reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Del resto, per la Cassazione non potevano essere sottaciuti, sul punto, i rilievi, avanzati anche in dottrina, sulle conseguenze che una esegesi riduttiva dell’onere motivazionale del provvedimento di sequestro a fini di confisca potrebbe comportare sul piano dei principi costituzionali e, in particolare del principio di presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. e di cui all’art. 6, par. 2, CEDU: evidenti sarebbero infatti per la Corte gli aspetti problematici di una soluzione ermeneutica in ragione della quale il provvedimento cautelare prescindesse da una concreta prognosi in ordine alla conseguibilità della misura ablativa finale, così non scongiurandosi la possibilità, esattamente antitetica al predicato costituzionale appena ricordato, che la misura cautelare possa incidere sui diritti individuali più di quanto non lo possa la pronuncia di merito; in altri termini, la risposta afflittiva, quale è anche quella propria della confisca, dovrebbe, si è condivisibilmente detto, costituire il contenuto delle sole pronunce emesse a seguito di un giusto processo sul fatto colpevole e mai di provvedimenti disposti prima della soluzione giudiziaria definitiva, rilevandosi come non si possa al contempo trascurare che, solo aderendo ad una scelta impositiva di un obbligo motivazionale del provvedimento di sequestro a fini di confisca anche in ordine al periculum, si potrebbe assicurare, come già osservato dalla sentenza di Sez. 5, n. 6562 del 14/12/2018, la corrispondenza a quell’ineludibile esigenza di rispetto dei criteri di proporzionalità la cui necessaria valenza, con riferimento proprio alle misure cautelari reali, e in consonanza con le affermazioni della giurisprudenza sovranazionale, la stessa Cassazione ha ritenuto di dovere a più riprese rimarcare al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata (Sez. 5, n. 8152 del 21/10/2010; Sez. 5, n. 8382 del 16/01/2013; Sez. 3, n. 21271 del 07/05/2014; Sez. 2, n. 29687 del 28/05/2019) tanto che, sia pure con riferimento al sequestro probatorio, e tuttavia all’interno di una medesima, simmetrica, ratio, anche le medesime Sezioni Unite hanno riconosciuto l’importanza, nella valutazione dell’an e del quomodo della scelta ablativa, del cosiddetto test di proporzione (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004; Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018).

Oltre a ciò, veniva altresì rammentato che il principio di proporzionalità, costantemente richiamato dalla giurisprudenza della Corte EDU nella valutazione delle ingerenze rispetto al diritto di proprietà tutelato dall’art. 1, Prot. 1, CEDU (si veda, al riguardo, Corte EDU, Grande Camera, del 5/1/2000, Beyeler c. Italia; Corte EDU, Grande Camera, del 16/7/2014, Alisic c. Bosnia e Erzegovina, nonché, nella declinazione della residualità della misura, Corte EDU del 21/2/1986, James e altri c. Regno Unito), costituisce anche uno dei principi generali del diritto dell’Unione (Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 3/12/2019, C-482/17) ed è espressamente sancito dall’art. 52, paragrafo 1, della Carta di Nizza, secondo cui possono essere apportate limitazioni all’esercizio dei diritti sanciti dalla suddetta Carta (quale, nella specie, il diritto di proprietà riconosciuto dall’art. 17), purché tali limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale di detti diritti e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui fermo restando che, anche secondo la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (da ultimo, Corte giustizia, 03/12/2019, C-482/17), il principio di proporzionalità «esige che gli strumenti istituiti da una disposizione di diritto dell’Unione siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa di cui trattasi e non vadano oltre quanto è necessario per raggiungerli (sentenza dell’d giugno 2010, Vodafone e a., C-58/08, EU:C:2010:321, punto 51 e giurisprudenza ivi citata)» tenuto conto altresì del fatto che tale principio è stato espressamente richiamato nel Regolamento 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca in materia penale.

In particolare, l’art. 1, par. 3, prevede che “nell’emettere un provvedimento di congelamento o un provvedimento di confisca, le autorità di emissione assicurano il rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità”.

Il medesimo parametro è evocato, inoltre, dalla Direttiva 2014/42/UE del 3 aprile 2014 relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea.

In particolare, al considerando n.17, è previsto che “nell’attuazione della presente direttiva con riguardo alla confisca di beni di valore corrispondente ai beni strumentali al reato, le pertinenti disposizioni potrebbero essere applicate se, alla luce delle circostanze particolari del caso di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati”.

Ed ancora, il successivo considerando n. 18 prevede che “nell’attuazione della presente direttiva, gli Stati membri possono prevedere che, in circostanze eccezionali, la confisca non sia ordinata qualora, conformemente al diritto nazionale, essa rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato, sulla base delle circostanze del singolo caso, che dovrebbero essere determinanti”, pur aggiungendosi, poi, essere opportuno che “gli Stati membri facciano un ricorso molto limitato a questa possibilità e abbiano la possibilità di non ordinare la confisca solo quando essa determinerebbe per l’interessato una situazione critica di sussistenza”

In definitiva, dunque, per il Supremo Consesso, solo una soluzione ermeneutica, che vincoli il sequestro preventivo funzionale alla confisca ad una motivazione anche sul periculum in mora, garantirebbe coerenza con i criteri di proporzionalità, adeguatezza e gradualità della misura cautelare reale, evitando un’indebita compressione di diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti, quali il diritto di proprietà o la libertà di iniziativa economica, e la trasformazione della misura cautelare in uno strumento, in parte o in tutto, inutilmente vessatorio.

Vale ribadire, in definitiva, che «il requisito di proporzionalità della misura, che, nell’ambito dei valori costituzionali, è espressione del principio di ragionevolezza, contiene in sé…quello della “residualità” della misura: proprio la necessaria componente della misura di “incisione” sul diritto della persona di disporre liberamente dei propri beni senza limitazioni che non derivino da interessi di altro segno maggiormente meritevoli di tutela (come quelli pubblici, connessi al processo penale, di accertamento dei fatti) contiene necessariamente in . sé l’esigenza che al ‘sequestro possa farsi ricorso solo quando ‘allo stesso risultato (nella specie l’accertamento dei fatti appunto) non possa pervenirsi con modalità “meno afflittive”» (Sez. n. 36072 del 19/04/2018).

Orbene, quanto appena detto pone, per il Supremo Consesso, anche le logiche premesse per l’individuazione dei parametri generali del periculum ai quali la motivazione del sequestro preventivo a fini di confisca deve rispondere dato che se il decreto di sequestro deve spiegare, in linea con la ratio della misura cautelare reale in oggetto, per quali ragioni si ritenga di anticipare gli effetti della confisca che, diversamente, nascerebbero solo a giudizio concluso, la valutazione del periculum non potrà non riguardare esattamente un tale profilo, dando cioè atto degli elementi indicativi del fatto che la definizione del giudizio non possa essere attesa, posto che, diversamente, la confisca rischierebbe di divenire, successivamente, impraticabile, ma ciò comporta, tuttavia, la diversa modulazione del contenuto motivazionale del provvedimento a seconda, non già, come pur predicato da alcune delle sentenze del secondo indirizzo sopra ricordato, della diversa tipologia formale della confisca cui il sequestro è finalizzato (se, cioè, definita, dalla legge, come obbligatoria ovvero come facoltativa) ma dei riflessi del necessario giudizio prognostico sull’an del sequestro visto che nessun utile parametro può essere rappresentato dalla qualificazione formale della confisca come obbligatoria (per la quale, secondo l’indirizzo ricordato, nessun obbligo motivazionale si porrebbe) o, invece, come facoltativa (per la quale sola, invece, il giudice sarebbe tenuto a motivare): e ciò non solo perché una tale distinzione appare riposare semplicemente sulla scelta normativa di qualificare in un senso o nell’altro le predette misure non in base alle loro caratteristiche, spesso coincidenti, in ambedue le ipotesi, nei presupposti e nella funzione, bensì in ragione della tipologia di reato cui collegare le stesse, ma soprattutto perché, appunto, non congruente rispetto al criterio di valutazione rappresentato dalla anticipata apprensione di un bene che, ove il giudizio si definisse favorevolmente, non potrebbe essere confiscato, in tale valutazione ben potendo rientrare anche cose definite dal legislatore come obbligatoriamente confiscabili.

A fronte di ciò, non può sfuggire, per la Corte, in proposito, sotto il primo profilo, come, in un panorama già da tempo contraddistinto dalla natura “proteiforme” della confisca (tanto che già, con la preveggente sentenza n. 29 del 1961, la Corte costituzionale osservava che la confisca poteva “presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica”, potendo essere “disposta per diversi motivi e indirizzata a ‘varia finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione o ‘di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa”), al progressivo incremento, negli ultimi anni, all’interno del codice e delle leggi speciali, delle ipotesi prescrittive di tale misura, imposto dalla considerazione della necessità di adottare risposte sanzionatorie di sicura dissuasività ed afflittività, abbia corrisposto, a fronte di misure caratterizzate dalla medesima struttura e finalità, la configurazione di tali ipotesi come di confisca obbligatoria ovvero facoltativa semplicemente in dipendenza del titolo di reato collegato, così rendendosi ardua la stessa individuazione di una “dogmatica” della confisca tanto è vero che non è un caso che le Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, nel cercare di individuare una ratio comune alle varie confische, abbiano, ancora nel 2015, fatto riferimento a «un caleidoscopio di istituti, ciascuno dei quali iscritto in un differenziato regime, fortemente condizionato dalla specifica natura della res da assoggettare alla misura, dal reato cui la cosa pertiene, e, da ultimo ma non certo per ultimo, dagli esiti del processo in cui la confisca viene applicata», apparendo emblematico in proposito, con riguardo alle cose che siano, come il terreno oggetto del sequestro nella specie disposto, profitto del reato, il raffronto tra l’art. 240, primo comma, cod. pen. e l’art. 322-ter, primo comma, cod. pen. (al quale, come si è già ricordato sopra, rimanda anche l’art. 640-quater cod. pen., riguardante i reati di cui agli artt. 640, secondo comma, n.1, 640-bis e 640-ter cod. pen.) dato che, mentre alla stregua dell’art. 240, comma primo, la confisca appare configurata dal legislatore come facoltativa (“…il giudice può ordinare la confisca…”), secondo quanto invece disposto dall’art. 322-ter, la confisca è strutturata come obbligatoria (“…è sempre ordinata la confisca..”).

Ma è per le Sezioni Unite soprattutto il secondo profilo evidenziato a rendere artificiosa e foriera di conseguenze illogiche ogni distinzione tra confisca obbligatoria e facoltativa non comprendendosi perché, per restare al caso del sequestro di un bene quale profitto del reato, la prescrizione che imponga la confisca del bene all’esito del giudizio e unicamente a seguito di una pronuncia di condanna o di applicazione della pena dovrebbe, per ciò solo, nel caso di cui all’art. 322-ter cod. pen., esentare il giudice della cautela, a differenza di quanto richiesto dall’art. 240 cod. pen., dall’onere di spiegare perché, ancor prima che tali condizioni si realizzino, il bene debba essere sequestrato, in tal modo finendosi, infatti, per eludere un presupposto posto dal legislatore a garanzia, come già spiegato sopra, del principio di presunzione di non colpevolezza.

Del resto, veniva aggiunto, anche a volersi fondare sulla sola caratterizzazione normativa della misura, il fatto che la confisca sia stabilita come “obbligatoria“, non basterebbe, evidentemente, per il Supremo Consesso, a rendere “obbligatorio” anche il sequestro dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. se non altro perché, sulla base di detta norma generale e onnicomprensiva, il giudice, come già osservato, “può“, e quindi non “deve“, adottare la misura cautelare.

Sicché, per la Corte, in definitiva, affermare, come si rinviene in alcune pronunce sopra ricordate, che la motivazione del provvedimento di sequestro di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. dovrebbe sempre risolversi nel dare atto della confiscabilità della cosa perché già tale caratteristica sarebbe indice di pericolosità oggettiva del bene (tra le altre, in particolare, Sez. 2, n. 31229 del 26/06/2014, e Sez. 2, n. 9829 del 2006), significa, da un lato, e in correlazione con la già ricordata natura “proteiforme” della confisca, trascurare la diversità sostanziale delle ipotesi per le quali il legislatore ha previsto la confisca di beni, peraltro non sempre incentrata sulla pericolosità del bene quanto, piuttosto, in numerosi casi, espressiva, semplicemente, di intento sanzionatorio (come è ad esempio per le ipotesi di confisca “per equivalente“: v. Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013) e, dall’altro, pervenire ad una non consentita sovrapposizione della misura cautelare, da una parte, e di quella definitiva, dall’altra.

Se, dunque, il criterio su cui plasmare l’onere motivazionale del provvedimento di sequestro in oggetto va rapportato alla natura anticipatrice della misura cautelare, deve ritenersi corretto, per il Supremo Consesso, con riferimento, come nel caso di specie, al sequestro che abbia ad oggetto cose profitto del reato, l’indirizzo che afferma la necessità, sia pure facendola impropriamente rientrare nell’alveo dell’esigenza di evitare la protrazione degli effetti del reato (in realtà già insita nel sequestro impeditivo), che il provvedimento si soffermi sulle ragioni per le quali il bene potrebbe, nelle more del giudizio, essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato.

Una esigenza, questa, rapportata appunto alla ratio della misura cautelare volta a preservare, anticipandone i tempi, gli effetti di una misura che, ove si attendesse l’esito del processo, potrebbero essere vanificati dal trascorrere del tempo, di cui non si può non cogliere il parallelismo rispetto al sequestro conservativo di cui all’art. 316 cod. proc. pen. che, analogamente, e con riferimento, tuttavia, alla necessità di garantire l’effettività delle statuizioni relative al “pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato”, presenta le stesse caratteristiche di preservazione della operatività di dette statuizioni, anch’esse condizionate alla definitività della pronuncia cui accedono.

E proprio in relazione al sequestro conservativo deve allora ricordarsi come le stesse Sezioni Unite abbiano chiarito, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sull’estensione del giudizio prognostico richiesto ai fini della valutazione di tale presupposto, che, per l’adozione del sequestro conservativo, è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che

il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, cod. proc. pen., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore, necessario solo a fronte di un patrimonio già di per sé adeguato (Sez. U, n. 51660 del 25/09/2014; in termini conformi, da ultimo, Sez. 2, n. 51576 del 04/12/2019).

In particolare, è stato spiegato quanto segue: «le garanzie mancano quando sussista la certezza, allo stato, dell’attuale inettitudine del patrimonio del debitore a far fronte interamente all’obbligazione nel suo ammontare presumibilmente accertato; si disperdono, quando l’atteggiamento assunto dal debitore è tale da far desumere l’eventualità di un depauperamento di un patrimonio attualmente sufficiente ad assicurare la garanzia a causa di un comportamento del debitore idoneo a non adempiere l’obbligazione. I due eventi, come chiaramente espresso dall’art. 316, con la formula disgiuntiva rilevano (o possono rilevare) autonomamente».

E del resto, sempre le Sezioni Unite, sia pure affrontando il profilo del periculum relativo al sequestro impeditivo, hanno, ancora, sottolineato la rilevanza della necessità di evitare che «il trascorrere del tempo possa pregiudicare irrimediabilmente l’effettività della giurisdizione espressa con la sentenza irrevocabile di condanna» (Sez. U, n.12878 del 29/01/2003); da qui, dunque, per la Suprema Corte, si può ricavare una ulteriore conferma, in generale, della insostenibilità di opzioni esegetiche che, sostanzialmente limitando l’onere motivazionale al solo aspetto del fumus, finiscono per obliterare la funzione precipua della cautela reale.

In definitiva, dunque, ad avviso del Supremo Consesso, è il parametro della “esigenza anticipatoria” della confisca a dovere fungere da criterio generale cui rapportare il contenuto motivazionale del provvedimento con la conseguenza che, ogniqualvolta la confisca sia dalla legge condizionata alla sentenza di condanna o di applicazione della pena, il giudice sarà tenuto a spiegare, in termini che, naturalmente, potranno essere diversamente modulati a seconda delle caratteristiche del bene da sottrarre, e che in ogni caso non potranno non tenere conto dello stato interlocutorio del provvedimento, e, dunque, della sufficienza di elementi di plausibile indicazione del periculum, le ragioni della impossibilità di attendere il provvedimento definitorio del giudizio rilevandosi al contempo che il criterio qui indicato spiega anche perché, invece, con riguardo alle cose “la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione costituisca reato” (art. 240, secondo comma, cod. pen.), sia sufficiente dare, semplicemente, conto, della confiscabilità del bene: difettando infatti, per legge, per la intrinseca pericolosità derivante dalle sue caratteristiche, il presupposto della confisca rappresentato dalla sentenza di condanna o di applicazione della pena, l’esigenza anticipatoria verrà a ridursi alla sola attestazione della ricomprensione dell’oggetto tra quelli, appunto, di natura “illecita“, giacché già solo tale requisito finisce, con ogni evidenza, per esaurire la dimensione “cautelare” connessa alla misura finale.

E’ significativo, inoltre, per la Cassazione, come l’assetto di cui si è data sin qui spiegazione risulti in piena sintonia con le affermazioni contenute nella decisione delle Sezioni Unite n. 40847 del 30/05/2019, divenendo così, la conclusione qui indicata, una soluzione, per così dire, “obbligata“.

Con tale pronuncia, intervenuta in ordine a contrasto insorto sull’ambito di applicabilità dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., difatti, le Sezioni Unite, nell’affermare che il divieto di restituzione previsto da tale norma riguarda le sole cose soggette a confisca obbligatoria di cui all’art. 240, secondo comma, cod. pen., ovvero di cui alle norme speciali che a tale previsione codicistica facciano riferimento, hanno circoscritto la portata del divieto di restituzione alle cose intrinsecamente pericolose per le quali la restituzione resta dunque esclusa sia nella fase cautelare che all’esito del giudizio di merito, deducendosi contestualmente come queste Sezioni abbiano altresì precisato che «solo la confisca delle cose oggettivamente criminose prescinde…dalla sentenza di condanna e può trovare applicazione anche nel caso di estinzione del reato» aggiungendo che, con il divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., l’ambito e gli effetti del riesame vengono «a concentrarsi sull’accertamento dell’illiceità intrinseca del bene in sequestro, mentre diviene irrilevante la verifica della motivazione del sequestro o della convalida», ben diversa essendo «la situazione negli altri casi di confisca obbligatoria, nei quali la confiscabilità del bene dipende pur sempre dall’accertamento dell’esistenza di un’attività vietata» sicché «postulare il divieto di restituzione per un bene la cui detenzione o il cui uso non presenta profili di illiceità ha l’effetto di privare di rilevanza lo stesso giudizio di riesame, il che si pone in una logica antitetica rispetto a quella che ha spinto le Sezioni Unite (Sentenza n. 5876 del 28/01/2004, omissis, Rv.226713) ad affermare la necessità che il sequestro, anche se probatorio, sia sempre supportato da adeguata motivazione circa le finalità del vincolo (orientamento più di recente ribadito da Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, omissis, Rv.273548)».

Oltre a quanto sin qui enunciato, le Sezioni Unite ritenevano infine precisare che, con riferimento invece alle cose che costituiscono il prezzo del reato, il sequestro di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., che abbia ad oggetto le stesse, non si sottrae all’onere motivazionale atteso che, pur non essendo necessario, ai fini della confisca diretta, un giudicato formale di condanna, è pur sempre richiesta, come del resto ricordato dalle stesse Sez. U n. 40847/2019, nel ripercorrere il tracciato nomofilattico sviluppatosi a partire dalle pronunce di Sez. U, n. 5 del 25/03/1993, e Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, omissis, Rv.240565, sino a Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, una pronuncia in tal senso, anche se il processo sia poi stato definito con una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione; di qui la necessità, anche in tal caso, all’interno di una medesima ratio, della giustificazione delle ragioni che impongono la anticipazione della misura rispetto a tale momento finale.

In definitiva, dunque, per gli Ermellini, alla sufficienza, nel solo caso delle cose, per così dire, intrinsecamente “illecite“, di una motivazione che, con riguardo al sequestro ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., dia conto semplicemente della natura del bene, corrisponde, sul versante della valutazione invece operata in sede di riesame, il divieto, in ogni caso, e dunque anche in ipotesi di annullamento della misura reale, di restituzione delle stesse; viceversa, laddove si tratti di cose che tale qualità non possiedano, alla necessità di una motivazione che espliciti, sia pure, come detto, secondo “stilemi” adeguati alla fase processuale interessata, la ragione dell’anticipazione della misura finale rispetto ai presupposti che condizionano l’adozione della confisca, non può non corrispondere, in sede di riesame, la piena espansione degli effetti dell’annullamento della misura reale.

Veniva, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulato il seguente principio di diritto: Il provvedimento di sequestro preventivo di beni ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen., deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in mora, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca prima della definizione del giudizio, salvo restando che, nelle ipotesi di sequestro delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili ex lege“.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo in esso risolto il seguente contrasto giurisprudenziale: se sia necessario o meno che “il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca e disciplinato dall’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., sia sorretto da motivazione che, oltre a dare conto del presupposto del fumus commissi delicti, sia anche relativa al requisito del perículum in mora”.

Orbene, le Sezioni Unite hanno risolto siffatto contrasto enunciando, come appena visto prima, il seguente principio di diritto: “Il provvedimento di sequestro preventivo di beni ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen., deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in mora, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca prima della definizione del giudizio, salvo restando che, nelle ipotesi di sequestro delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili ex lege”.

Da ciò consegue che ove un provvedimento di sequestro preventivo di beni ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen., sia privo di tale “concisa motivazione”, ben si potrà impugnarlo nei modi e nelle forme previste dal codice di rito penale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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