(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 299, c. 2-bis e c. 3)
Il fatto
Il Tribunale di Catanzaro rigettava l’appello proposto da un indagato avverso l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro con la quale era stata respinta la richiesta di revoca o sostituzione ex art. 299 cod. proc. pen. della misura della custodia in carcere in atto applicata a costui, indagato dei reati di cui agli artt. 416-bis e 629, comma 2 (con riferimento all’art. 628, comma 3, n. 3), aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.
Le motivazioni della Corte di Cassazione
Proponeva ricorso il difensore di fiducia dell’indagato e lamentava, per il tramite di cinque motivi di ricorso, quanto segue: a) violazione dell’art. 299, comma 3, cod. proc. pen. per avere il Tribunale ritenuto inammissibile l’istanza di revoca riferita alla estorsione aggravata ascritta al ricorrente (capo d4 della rubrica) in ragione della mancata notifica della stessa alla persona offesa dovendosi ritenere non dovuto siffatto incombente nei confronti della persona offesa che non ha nominato un difensore né dichiarato o eletto domicilio; b) violazione dell’art. 299 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza degli elementi addotti a sostegno del mutato quadro cautelare con riguardo alla gravità indiziaria riferita alla contestazione associativa per non essere stato dato rilievo alla decisione assunta dalla Corte di Cassazione con riferimento alla posizione di un coindagato (con la quale era stata esclusa la sussistenza della ‘ndrina P.-C. della quale sarebbe stato intraneo il ricorrente) e per aver travisato le dichiarazioni di un collaborante dalle quali sarebbe emersa l’estraneità del ricorrente all’organigramma della detta associazione; c) violazione dell’art. 292, comma 2, lettera c) e c bis), cod. proc. pen., per aver ritenuto immutato il quadro indiziario e cautelare senza motivare autonomamente rispetto alla decisione impugnata, dando conto dei rilievi difensivi sollevati avverso la decisione del G.I.P.; 4) violazione dell’art. 416-bis.1 per la ritenuta sussistenza dell’aggravante riferita alla estorsione descritta al capo d4) della rubrica; 5) violazione degli artt. 273, 274, 192, secondo e terzo comma, cod. proc. pen. nonchè vizio di motivazione quanto in punto di perdurante sussistenza delle esigenze cautelari utili a giustificare la misura applicata.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Quanto al primo motivo di ricorso, si rilevava prima di tutto come non si negasse il fatto che sul tema prospettato si era formato un contrasto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
In particolare, veniva fatto presente come non fosse in contestazione, nella specie, l’aspetto afferente la riferibilità, al caso di specie (una estorsione aggravata ai sensi dell’art. 416-bis.1), dei presidi di garanzia, riservati alla persona offesa nei reati commessi con violenza alla persona, innestati nel disposto dell’art. 299 cod. proc. pen. dal 4ecreto Legge n. 93 del 2013, convertito con modificazioni nella legge n. 113 del 2013, e ciò del resto in linea con l’ormai prevalente orientamento nomofilattico sul tema in forza del quale la nozione di “delitti commessi con violenza alla persona” di cui all’art. 299, comma 2 -bis e comma 3, cod. proc. pen., include tutti quei delitti, consumati o tentati, che si sono manifestati in concreto con atti di violenza fisica, ovvero morale o psicologica, in danno della vittima del reato (Sez. 6, n. 27601 del 22/03/2019; Sez. 2, n. 4921 del 19/01/2021).
A fronte di ciò, si notava invece come il contrasto interpretativo riguardasse, piuttosto, la lettura da dare al terzo comma dell’art. 299 cod. proc. pen. nella parte in cui impone la preventiva notifica, alla persona offesa nei reati connotati da violenza personale, della richiesta di revoca, modifica o sostituzione della misura in atto applicata, con precipuo riguardo al perimetro di estensione di siffatto obbligo in quanto, secondo alcuni arresti della Cassazione (Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020; Sez. 1, n. 1460 del 24/11/20) laddove la persona non abbia provveduto a nominare un difensore, a eleggere o dichiarare domicilio, la stessa non “meriterebbe” il contraddittorio preventivo previsto dalla norma in questione.
Ad avviso di altri e, per il vero, più numerosi precedenti (Sez. 3, n. 31191 del 21/07/2020; Sez. 2, n. 12377 del 10/02/21; Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017), il riferimento al domicilio eletto o dichiarato attiene alle modalità di esecuzione della notifica e non incide sull’obbligo gravante sul soggetto che propone l’istanza ex art. 299 cod. proc. pen.: in altre parole, se la persona offesa ha nominato un difensore, la notifica va effettuata al predetto anche ai sensi dell’art. 33 disp. att. cod. proc. pen.; diversamente, va notificata alla persona offesa nel luogo ricavabile dagli atti e dunque nel domicilio eletto o dichiarato, se a tanto si è provveduto.
Nel caso in questione, tuttavia, ad avviso del Supremo Consesso, l’accennato conflitto interpretativo finisce tuttavia per non assumere rilievo in quanto, quale che fosse la soluzione da privilegiare, il motivo di doglianza rimaneva comunque inammissibile.
Ciò posto, veniva altresì evidenziato come la difesa avesse contestato la valutazione di inammissibilità delle doglianze spese, con l’appello, in relazione all’estorsione di cui al capo d4) della rubrica, per l’appunto argomentata dal Tribunale facendo leva sulla mancata notifica della richiesta di cui all’art. 299 cod. proc. pen. alla persona offesa che il ricorrente sosteneva nel caso non dovuta, accedendo alla prima delle due opzioni interpretative sopra riassunte, ma, pur prendendosi atto di siffatta doglianza, per gli Ermellini, anche a voler privilegiare la soluzione interpretativa suggerita dal ricorrente, tanto presupponeva, a monte, la dimostrazione che nella specie la persona offesa non aveva nominato un difensore o comunque eletto o dichiarato domicilio, così da legittimare l’indagato a omettere il relativo incombente, diversamente imposto a pena di inammissibilità dato che, a fronte della rilevata inammissibilità, gravava sulla parte chiamata a superare tale, asserita, erronea, valutazione pregiudiziale, l’onere di offrire la prova del presupposto in fatto che, alla luce della citata interpretazione del dato normativo di riferimento, ne avrebbe legittimato l’esonero dall’obbligo di preventiva instaurazione del contraddittorio necessario con la persona offesa: aspetto questo che il ricorso, per la Suprema Corte, dava inammissibilmente per scontato quando, per contro, esso costituiva il passaggio logico giuridico imprescindibile per poter utilmente raccordare il rilievo articolato in questa sede alla ipotesi interpretativa ritenuta, dalla difesa, più coerente al dato normativo di riferimento.
Da qui la inammissibilità del primo motivo di ricorso che portava con sé anche quella inerente il quarto profilo di censura addotta dalla difesa la cui disamina nel merito risultava essere stata assorbita dalla conferma della decisione pregiudiziale contrastata con la prima doglianza.
Quanto agli ulteriori motivi, essi venivano reputati parimenti tutti infondati.
Quello addotto per terzo, la cui disamina veniva anteposta per la connotazione generale che lo caratterizzava, esso era considerato inammissibile sotto diversi versanti.
Per un verso, tale doglianza era, per la Corte di legittimità, manifestamente infondata avendo il Tribunale risposto ai motivi di appello, scrutinando e superando le ragioni di novità addotte dal ricorrente rispetto al quadro indiziario e cautelare riferibile alla posizione del coindagato coperto dal giudicato cautelare a seguito della reiezione del ricorso di legittimità dallo stesso proposto avverso il provvedimento di riesame dell’ordinanza genetica applicata nei suoi confronti.
Per altro verso, il detto motivo era stimato aspecifico rispetto a siffatte argomentazioni riguardo alle quali il ricorso, sempre per i giudici di piazza Cavour, difettava di un puntuale e mirato confronto critico.
Medesima sorte processuale riceveva il secondo motivo di censura reputato privo di critiche dirette alle valutazioni spese dal Tribunale nel negare rilievo e decisività alla statuizione della stessa Corte di Cassazione, impropriamente evocata con l’istanza di revoca, incapace di incidere sul quadro indiziario già consolidato in termini di giudicato cautelare quanto alla partecipazione associativa ascritta al ricorrente.
In ordine, poi, al rilievo da assegnare alle dichiarazioni del collaborante summenzionato, ne veniva comunque rilevata l’indifferenza per la inammissibilità della relativa deduzione, rilevabile d’ufficio in sede di legittimità ordinaria, atteso che il gravame ex art. 310 cod. proc. pen. ha un perimetro devolutivo irretrattabilmente definito dal contenuto della istanza di revoca, modifica o sostituzione esitata dal Giudice delle indagini preliminari: istanza che a tali propalazioni non faceva alcun riferimento così che le stesse non andavano neppure scrutinate nel merito.
Il quinto motivo di impugnazione e le doglianze esposte con i motivi nuovi erano valutati altrettanto inammissibili poiché il Tribunale aveva chiarito che la definizione della posizione cautelare di uno dei coindagati non produce di per sé alcun rilievo su quelle degli altri con particolare riguardo alla ipotesi del rischio di recidiva, la cui valutazione resta per forza di cose improntata ad una serie di autonome indicazioni, imprescindibilmente connesse alla singola situazione oggetto di scrutinio e da qui la coerente conclusione della rilevata indifferenza della sentenza di legittimità resa in relazione ad altro coindagato, quanto alla perduranza del rischio da neutralizzare riferibile al ricorrente nonché la manifesta inconferenza della richiesta di modifica della misura a fronte della immutata sussistenza delle esigenze riscontrate in origine e della conseguente vincolatività della presunzione di legge legata, in punto di esclusiva adeguatezza della misura, all’ipotesi di reato ascritta al ricorrente al capo a) della rubrica.
Valutazioni queste immuni da errori in diritto che la difesa, per la Cassazione, trascurava integralmente di contrastare con conseguente inammissibilità dei rilievi articolati in ordine alla perdurante sussistenza delle esigenze cautelari (peraltro rivendicata anche sotto il versante della distanza dei fatti a giudizio, a tacer d’altro non evocata in precedenza) nonché della doglianza svolta in ordine alla adeguatezza della misura, aspetto travolto dalla citata presunzione assoluta, una volta rimasto insuperato il giudizio sulla persistenza del rischio da neutralizzare.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito cosa deve intendersi per “delitti commessi con violenza alla persona” in relazione a quanto previsto dall’art. 299, comma 2 -bis e comma 3, cod. proc. pen..
Difatti, in tale pronuncia, citandosi precedenti conformi, si afferma che la nozione di “delitti commessi con violenza alla persona” di cui all’art. 299, comma 2 -bis e comma 3, cod. proc. pen., include tutti quei delitti, consumati o tentati, che si sono manifestati in concreto con atti di violenza fisica, ovvero morale o psicologica, in danno della vittima del reato.
Di conseguenza, tale sentenza deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare, in relazione a quanto sancito dall’art. 299, c. 2-bis e c. 3, c.p.p., se ricorrano o meno siffatti delitti.
Ciò posto, in questo provvedimento, si richiama inoltre, senza entrare nel merito della questione (ritenendosi la questione proposta dal ricorrente inammissibile), la sussistenza di un contrasto ermeneutico in ordine alla lettura da doversi dare al terzo comma dell’art. 299 cod. proc. pen. nella parte in cui impone la preventiva notifica, alla persona offesa nei reati connotati da violenza personale, della richiesta di revoca, modifica o sostituzione della misura in atto applicata.
Difatti, secondo un orientamento nomofilattico, laddove la persona non abbia provveduto a nominare un difensore, a eleggere o dichiarare domicilio, la stessa non “meriterebbe” il contraddittorio preventivo previsto dalla norma in questione mentre, secondo un differente indirizzo interpretativo, sempre sostenuto dai giudici di legittimità ordinaria, il riferimento al domicilio eletto o dichiarato attiene alle modalità di esecuzione della notifica e non incide sull’obbligo gravante sul soggetto che propone l’istanza ex art. 299 cod. proc. pen. in guisa tale che, se la persona offesa ha nominato un difensore, la notifica va effettuata al predetto anche ai sensi dell’art. 33 disp. att. cod. proc. pen.; diversamente, va notificata alla persona offesa nel luogo ricavabile dagli atti e dunque nel domicilio eletto o dichiarato, se a tanto si è provveduto.
Orbene, sarebbe auspicabile che su tale questione intervenissero le Sezioni Unite per dirimere tale contrasto giurisprudenziale.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su quale significato deve essere dato ai “delitti commessi con violenza alla persona” in relazione a quanto previsto dall’art. 299, comma 2 -bis e comma 3, cod. proc. pen., non può che essere positivo.
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