Cosa è tenuto a fare il condannato con sentenza pronunciata in assenza che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili, derivanti dall’omessa citazione in giudizio propria e/o del proprio difensore nel procedimento di cognizione

(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 670)

Il fatto

Il Tribunale di Pordenone, pronunciando quale giudice dell’esecuzione, respingeva l’istanza proposta, ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., da un condannato al fine di ottenere la declaratoria di non esecutività di una sentenza pronunciata a suo carico dal Tribunale di Cremona.

Con tale decisione, resa in assenza, era stata condannata alla pena di giustizia, siccome responsabile del reato di cui all’art. 495 cod. pen., commesso fino al 4 novembre 2014.

In particolare, con l’istanza era stata dedotta la mancata formazione del titolo esecutivo in conseguenza della nullità della procedura di notificazione del decreto che aveva disposto il giudizio, compiuta con consegna ad un difensore, ritenuto domiciliatario della destinataria, in realtà designato in altro processo.

Orbene, il Tribunale affermava l’infondatezza della richiesta basata sulla nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio perché non deducibile mediante incidente di esecuzione ma con gli ordinari mezzi d’impugnazione, e, ritenendo, per i residui profili, eventualmente qualificabile la domanda come ricorso per rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen., trasmetteva gli atti per la decisione alla Corte di appello di Brescia deducendosi la mancata incolpevole conoscenza della instaurazione del processo per essere stata compiuta la notificazione dei relativi atti in modo del tutto irrituale.

La Suprema Corte, a sua volta, con sentenza n. 2511 dell’8 novembre 2019, dep. 2020, dichiarava inammissibile il ricorso perché tardivo, essendo stato proposto oltre il termine di trenta giorni, decorrente dalla notificazione del decreto di unificazione di pene concorrenti, comprensivo anche del titolo per il quale era stata proposta domanda di rescissione.

Successivamente, veniva proposto incidente di esecuzione definito col provvedimento impugnato nel caso di specie che, pur avendo respinto la domanda di ineseguibilità del titolo di condanna per la sua infondatezza, trasmetteva gli atti alla Corte di Appello di Brescia, ritenuta competente a pronunciarsi sulla medesima domanda ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen., nelle more introdotto, sul presupposto che la domanda presentasse profili di rilievo ai sensi di tale procedura.

La predetta Corte distrettuale, ricevuti gli atti, con ordinanza, dal canto suo, dichiarava non luogo a provvedere sull’istanza, pur se rientrante nella competenza della Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 625-ter cod. proc. pen. (applicabile ratione temporis in riferimento a sentenza emessa prima dell’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017, n. 103, che aveva introdotto il nuovo art. 629-bis cod. proc. pen.), osservando che il giudice di legittimità si era già pronunciato con declaratoria d’inammissibilità, giusta sentenza n. 2511 dell’8 novembre 2019 e che non residuavano spazi per il proprio intervento sulla questione rimessa.

Il provvedimento emesso dalla Corte di Appello di Brescia, inoltre, non veniva impugnato.

Nel caso di specie, quindi, riassumevano le Sezioni Unite la vicenda in questione, l’incidente di esecuzione era stato attivato dopo la proposizione della richiesta di rescissione del giudicato, in seguito dichiarata tardiva, ed al fine di fa valere la nullità della vocatio in iudicium, effettuata irritualmente al legale che era domiciliatario della ricorrente non nel processo in esame, ma in quello iniziale, di cui l’altro costituiva una separata articolazione.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso l’ordinanza del Tribunale di Pordenone il condannato, per il tramite del difensore, proponeva ricorso per cassazione chiedendone l’annullamento per mancanza della motivazione. Secondo la ricorrente, invero, la soluzione offerta dal Tribunale sarebbe stata erronea e meritava dunque annullamento poichè in contrasto con i fondamentali principi del processo penale dal momento che, pur avendo riconosciuto la sussistenza della nullità endoprocessuale dedotta, a causa della quale ella era stata condannata a sua insaputa e senza l’assistenza del difensore di fiducia, le era stata preclusa la possibilità di far valere la patita violazione delle disposizioni processuali.

Oltre a ciò, si osservava, inoltre, come le sue valide ragioni non potessero trovare accoglimento mediante il rimedio della rescissione del giudicato attivabile nel diverso caso in cui il procedimento sia caratterizzato dalla regolare evocazione in giudizio dell’imputato e del suo difensore.

Difatti, secondo il ricorrente, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza impugnata, deve essere consentito al condannato di rappresentare mediante incidente di esecuzione, proposto ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. – disposizione tuttora vigente anche dopo l’introduzione dell’istituto dell’assenza per effetto della legge nr. 67 del 2014 – la nullità assoluta ed insanabile degli atti processuali per l’omessa notificazione del decreto che dispone il giudizio nei confronti dell’imputato e del difensore, in conseguenza della avvenuta notificazione presso altro legale, designato patrocinatore e domiciliatario in diverso procedimento penale.

Il rilievo della nullità, a sua volta, sempre secondo l’impugnante, avrebbe dovuto condurre alla declaratoria di non eseguibilità della sentenza.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di remissione

La Prima Sezione penale, cui il ricorso era stato inizialmente assegnato, rimetteva la decisione alle Sezioni Unite.

Rilevava in primo luogo che l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, formatosi in riferimento al giudizio contumaciale, come delineato sino all’intervento della legge n. 67 del 2014, nega rilevanza alle nullità verificatesi nel corso del processo di cognizione in un momento antecedente il passaggio in giudicato della decisione affermandosi, inoltre, che, con l’incidente di esecuzione, si può investire il relativo giudice soltanto delle questioni attinenti la regolarità formale e sostanziale del titolo sul quale si basa l’esecuzione intrapresa, in esse ricomprese anche le contestazioni che riguardino la regolarità della notificazione della sentenza contumaciale, che reiteri una nullità di notificazione endoprocessuale, perché parimenti incidenti sulla formazione del titolo esecutivo.

Si osservava, poi, che, dopo l’abrogazione dell’istituto della contumacia, operato dalla legge n. 67 del 2014, e la conseguente eliminazione dell’adempimento della notificazione dell’estratto della sentenza all’imputato dichiarato contumace, ci si era posti il quesito se fosse ancora possibile contestare, ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., l’esecutività del titolo in dipendenza di una nullità verificatasi nel giudizio di cognizione che riverberi i suoi effetti pregiudizievoli sulla conoscenza del processo in capo all’imputato fermo restando che la tesi negativa si fonda sulla introduzione del diverso istituto dell’assenza, che richiede l’accertamento da parte del giudice non solo della corretta instaurazione del rapporto processuale, ma anche della conoscenza o conoscibilità del processo ex art. 420-bis cod. proc. pen.

Specularmente, si notava che, in tema di rescissione, la prevalente giurisprudenza esclude l’incolpevole mancata conoscenza del processo quando l’imputato, nel contesto del verbale di identificazione formato prima ancora dell’iscrizione nel registro degli indagati e dell’esercizio dell’azione penale, abbia eletto domicilio presso il difensore di ufficio ponendo a suo carico l’onere di mantenere i contatti con il legale per ricevere le necessarie informazioni sullo sviluppo del procedimento (Sez. 4, n. 10238 del 03/03/2020; Sez. 2, n. 39158 del 10/09/2019; Sez. 4, n. 32065 del 07/05/2019).

Tal che se ne faceva conseguire che la nullità della citazione in giudizio, per omessa corretta individuazione del difensore domiciliatario, non troverebbe più rimedio in sede esecutiva per la mancanza di valida notificazione dell’estratto contumaciale, così come non lo troverebbe in sede di rescissione, attesa la corretta elezione di domicilio nella fase delle indagini preliminari.

La Sezione rimettente rilevava tra l’altro come, sul tema della mancata conoscenza del processo, un orientamento diverso sia stato espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28912 del 28/02/2019 che, con riferimento all’istituto della restituzione nel termine ex art. 175 cod. proc. pen. per impugnare la sentenza emessa nel giudizio contumaciale, hanno stabilito che «l’effettiva conoscenza del procedimento deve essere riferita all’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium, sicché tale non può ritenersi la conoscenza dell’accusa contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari» rilevandosi al contempo che un principio conforme in tema di rescissione del giudicato è stato, da ultimo, affermato dalla sentenza Sez. 6, n. 43140 del 19/09/2019, per la quale: «l’incolpevole mancata conoscenza del processo non è esclusa né dalla notifica all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dovendo tale conoscenza essere riferita all’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium, né dalla notifica a persona diversa dall’imputato, ma con esso convivente, del decreto di citazione a giudizio, non incidendo il sistema di conoscenza legale in base a notifiche regolari sulla conoscenza effettiva del processo».

A fronte di ciò, la Prima Sezione penale aveva dunque segnalato il contrasto emerso sul tema dei rimedi esperibili per far valere, dopo la formazione del giudicato, la nullità della vocatio in iudicium stante il fatto che, secondo la posizione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità successiva alla legge n. 67 del 2014, definito il processo di cognizione nell’assenza dell’imputato, non è consentito eccepire con l’incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. la non esecutività del titolo a ragione di nullità endoprocessuali, ormai coperte dal giudicato (ex multis: Sez. 1, n. 12823 del 13/02/2020, omissis; Sez. 1, n. 10877 del 17/01/2020; Sez. 1, n. 3265 del 7/05/2019; Sez. 1, n. 1812, del 17/12/2019) mentre l’orientamento opposto, espresso da Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, ammette, invece, l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 670 cod. proc. pen. in caso di nullità assolute ed insanabili «derivanti dall’omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza».

La Sezione remittente, inoltre, aveva anche ravvisato l’opportunità di prevenire un contrasto potenziale in merito ai rapporti tra incidente di esecuzione e rimedio rescissorio ex art. 629-bis cod. proc. pen. mediante la definizione dei due istituti, del rispettivo ambito di applicazione e della possibilità di esperirli in via concorrente, contrasto la cui composizione assume rilievo, al fine di assicurare tutela a diritti fondamentali dell’imputato.

La richiesta formulata dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, con requisitoria scritta, chiedeva l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato a ragione della perplessità del dispositivo «che contestualmente rigetta (…) e riqualifica l’istanza, violando un ovvio limite logico prima che giuridico che deve essere imposto a tutti i provvedimenti» sottolineandosi contestualmente la perdurante validità e correttezza giuridica dell’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità secondo il quale non è possibile dedurre con l’incidente di esecuzione nullità delle notificazioni verificatesi nel processo di cognizione e l’eventuale mancata incolpevole conoscenza del processo può giustificare la proposizione di ricorso per rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen..

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Prima di esaminare le questioni proposte al loro scrutinio giurisdizionale, le Sezioni unite provvedevano a delimitarle nei seguenti termini:

«Se il condannato con sentenza pronunciata “in assenza” che intenda eccepire nullità assolute e insanabili derivanti dall’omessa citazione propria e/o del suo difensore nel procedimento di cognizione possa a tal fine adire il giudice dell’esecuzione, con richiesta ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., formulando questione sulla formazione del titolo esecutivo.

Se le nullità che abbiano riguardato la citazione dell’imputato e/o del difensore, coperte dal giudicato, pongano il condannato nella condizione di proporre richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen., allegando l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo, che, da quelle, sia derivata.

Se, in caso di risposta negativa al primo quesito, la richiesta formulata dal condannato, perché sia dichiarata la non esecutività della sentenza (art. 670 cod. proc. pen.) in ragione di nullità che abbiano riguardato la citazione a giudizio nel procedimento di cognizione, sia ríqualificabile, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., come richiesta di rescissione del giudicato».

Precisato ciò, gli Ermellini osservavano in via preliminare come dovesse essere disattesa la richiesta conclusiva formulata nella requisitoria scritta del Procuratore Generale favorevole all’annullamento dell’ordinanza impugnata sotto il profilo della perplessità della sua motivazione e dell’antitesi logica e giuridica delle determinazioni assunte per avere il Tribunale formalmente respinto la domanda intesa ad ottenere l’accertamento che il titolo manca ovvero non è diventato esecutivo, ed al contempo averla riqualificata come ricorso per rescissione del giudicato con trasmissione degli atti alla Corte di appello di Brescia, individuato quale giudice competente, in quanto il contenuto decisorio del provvedimento in contestazione presentava, per la Suprema Corte, in apparenza un’intima contraddizione che si annidava nella struttura del suo dispositivo posto che la qualificazione del rimedio esperito alla stregua di diversa disposizione processuale – operazione cognitiva preliminare ed eventualmente assorbente la disamina della sua fondatezza – avrebbe dovuto condurre a limitare la decisione alla declinazione della competenza ed alla trasmissione degli atti al giudice competente atteso che, diversamente ragionando, il rigetto del ricorso, che definisce la reiudicanda, implica il riconoscimento della competenza a provvedere ed impedisce, sia sul piano logico, che su quello giuridico, di procedere alla sua conversione in altro istituto e di dare impulso al procedimento, affinché prosegua nella sede giudiziaria appropriata.

Orbene, in linea di principio, per il Supremo Consesso, se è condivisibile l’affermazione del Procuratore Generale e va ribadita l’incompatibilità della declaratoria di incompetenza funzionale del giudice investito della reiudicanda con la contestuale pronuncia di inammissibilità per manifesta infondatezza o di rigetto per infondatezza delle istanze proposte (vedi sul punto Sez. 5, n. 287 del 24/11/2005) atteso che soltanto il giudice che si riconosca competente è chiamato dall’ordinamento a delibare la fondatezza o meno della domanda, sicché la decisione negativa sulla competenza assume carattere preliminare e pregiudica la possibilità di una contestuale diversa determinazione che esamini e decida il merito (Sez. 1, n. 34141 del 15/07/2015) oltre a doversi  a ciò aggiungere A ciò si aggiunga che, ancorchè il sistema processuale penale non conosca un ordine formalizzato di graduazione nella trattazione delle questioni, analogo a quello previsto dall’art. 279 cod. proc. civ., per il quale devono essere risolte per prime le questioni di competenza e giurisdizione, poi le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, quindi quelle afferenti al merito, esigenze di razionalità della decisione impongono di rispettare anche in sede processuale penale analoga sequenza che procede dalla soluzione dei temi della giurisdizione e della competenza per pervenire in un momento successivo all’esame delle altre questioni, tale principio non impedisce però di ritenere che, nel caso in esame, ad una più approfondita disamina, che tenga conto e legga contestualmente dispositivo e motivazione, decisione e sua giustificazione, il provvedimento impugnato manifesti l’intento del giudice di esaminare e definire nel merito l’incidente di esecuzione, rispetto al quale è competente (Sez. 3, n. 3969 del 25/09/2018; Sez. 4, n. 26172 del 19/05/2016; Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016; Sez. 4, n. 43419 del 29/09/2015) deponendo in tal senso la disamina della prospettazione difensiva nei presupposti di fatto illustrati, l’individuazione dei profili di nullità degli atti processuali riguardanti il processo di cognizione, la riconosciuta erroneità della dichiarazione di assenza dell’imputata, il diniego del provvedimento sollecitato in via esclusiva quale accertamento della mancanza o ineseguibilità del titolo di condanna, e soltanto perchè consapevole degli effetti della situazione fattuale rappresentata dalla condannata in termini di mancata incolpevole conoscenza del processo, astrattamente legittimante la proposizione del diverso rimedio della rescissione del giudicato e nell’intento di consentirle l’accesso alla più ampia forma di tutela possibile, oltre al fatto che il giudice dell’esecuzione, una volta assunta la decisione per quanto di sua competenza, ha ritenuto di consentire nel caso di specie che quella domanda, considerata anche in una differente prospettiva giuridica, potesse essere vagliata dal giudice ritenuto competente ritenendosi, dunque, di escludere la contraddittorietà logica e la perplessità della decisione, tale da indurre al suo annullamento, non ricorrendo una situazione di incertezza della volontà decisoria, ostativa alla individuazione dell’esito logico e del preciso convincimento del giudice, al tempo stesso, però, veniva fatto presente che, poiché l’ordinanza in verifica contiene la statuizione sul merito della domanda e non già la mera negazione della competenza o l’assunzione di pronuncia di mera interlocuzione, essa è da ritenere impugnabile con la conseguente ammissibilità del ricorso proposto.

Premesso ciò, relativamente alle questioni poste alle Sezioni Unite, appariva necessario per la Corte esaminare prima l’analisi del rapporto tra incidente di esecuzione (art. 670 cod. proc. pen.) e rimedio rescissorio (art. 629-bis cod. proc. pen.) e dei loro rispettivi ambiti di applicazione con riferimento alla eventuale “interferenza” tra i due istituti nei casi in cui si lamenti la nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione a giudizio, nonostante la quale si è proceduto in assenza dell’imputato.

Orbene, a tal fine si evidenziava innanzitutto che l’art. 670, comma 1, cod. proc. pen. prescrive testualmente «quando il giudice dell’esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato, lo dichiara con ordinanza e sospende l’esecuzione, disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l’impugnazione».

Detto questo, si affermava come la formulazione testuale della disposizione, la sua collocazione sistematica nell’ambito del libro X del codice di procedura penale vigente, dopo il corpo di disposizioni che disciplinano le impugnazioni, nonchè le esigenze di certezza del diritto e di stabilità delle situazioni giuridiche sottese alla nozione di giudicato, concorrano a circoscrivere l’oggetto della giurisdizione esecutiva (attivabile mediante proposizione dell’incidente di esecuzione) che riguarda la mancanza del titolo o la sua non esecutività mentre, a contrariis, è da escludere che in sede esecutiva possano essere dedotte questioni attinenti la fondatezza del giudizio di responsabilità sul fatto di reato, la misura della pena irrogata o vizi procedurali verificatisi prima del passaggio in giudicato del provvedimento cui dare attuazione.

Pur essendo proponibile anche quale strumento di tutela e condividendo con i mezzi d’impugnazione la contestazione della decisione giudiziale, sul piano classificatorio, per i giudici di piazza Cavour, l’incidente di esecuzione non appartiene alla categoria delle impugnazioni perché presuppone l’irrevocabilità del provvedimento costituente il titolo da porre in esecuzione e risponde alla «finalità di stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto dell’esecuzione» (Corte cost., sentenza n. 45 del 10/02/1997) introducendo un procedimento di prima istanza, devoluto alla cognizione di un giudice, individuato secondo i criteri dettati dall’art. 665 cod. proc. pen. la cui decisione é soggetta alle disposizioni dettate per le impugnazioni in quanto compatibili (art. 666, comma 6, cod. proc. pen.) e, pertanto, nemmeno il rinvio per relationem contenuto nell’art. 666, comma 6, cod. proc. pen. autorizza l’assimilazione del rimedio esecutivo alle impugnazioni sul piano strutturale e della funzione perseguita (Sez. 1, n. 51053 del 13/07/2017; Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017; Sez. 3, n. 47266 del 04/11/2005; Sez. 4, n. 1622 del 22/05/1998; Sez. 1, n. 14358 del 04/12/2000).

Chiarito ciò, si notava come il predetto inquadramento dell’istituto giustifichi l’opinione, largamente maggioritaria nella giurisprudenza di legittimità ed in dottrina, secondo la quale il sindacato del giudice dell’esecuzione non investe questioni che riguardino la fase di cognizione, compresi vizi procedurali denunciabili unicamente con i mezzi d’impugnazione e, in particolare, sia quelli ordinari, esperibili sino alla conclusione del processo di cognizione, che quelli straordinari attivabili dopo l’irrevocabilità del provvedimento conclusivo del giudizio nei casi previsti dalla legge con l’effetto, se fondati ed accolti, di determinare la riapertura del processo nella fase cognitiva.

Detto questo, si evidenziava inoltre come questa linea interpretativa abbia ravvisato i caratteri dell’abnormità nelle decisioni assunte in sede esecutiva che si siano tradotte nella verifica di vizi relativi alla fase di cognizione con effetti di invalidazione del giudicato di condanna (Sez. 1, n. 58524 del 11/12/2018; Sez. 1, n. 41604 del 13/10/2009; Sez. 6, n. 1785 del 07/04/2000; sez. 5, n. 2862 del 09/01/1998) fermo restando che essa ha ricevuto autorevole avallo anche dalla giurisprudenza costituzionale per la quale «la problematica dell’errore di fatto, in iudicando o in procedendo, in cui sia incorso il giudice della cognizione in una sentenza divenuta irrevocabile, è estranea alla competenza del giudice dell’esecuzione» (Corte cost., ord. n. 14 del 2000; sentt. n. 413 del 1999 e n. 294 del 1995; ord. n. 28 del 1969).

Chiarito anche tale aspetto giuridico, gli Ermellini osservavano come l’indagine consentita dall’art. 670 cod. proc. pen. sia dunque focalizzata sulla mancanza del titolo esecutivo, intesa in senso materiale o giuridico, e sulla sua non esecutività rilevandosi in particolare che la “inesistenza” del titolo, oltre ai casi di mancanza in senso oggettivo naturalistico, è stata ravvisata allorché l’atto, per difetto di alcuni elementi strutturali che devono contraddistinguerlo, si ponga totalmente fuori dal sistema, tanto da non essere ad esso riferibile, nel senso che è assolutamente inidoneo a produrre un qualsiasi effetto sia nell’ambito che al di fuori del processo e, in quanto tale, non è suscettibile di essere ricondotto ad alcuna delle categorie di vizi che determinano l’invalidità degli atti secondo la disciplina del codice di rito fermo restando che, quale forma di patologia radicale, l’inesistenza supera persino lo sbarramento del giudicato ed il principio di tassatività, proprio delle nullità; può, pertanto, essere rilevato in qualsiasi momento attraverso un’azione di accertamento, che compete al giudice dell’esecuzione (Sez. 6, n. 3683 del 2000).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ha per di più ritenuto inesistenti: la sentenza emessa da soggetto che non appartenga all’ordine giudiziario, che sia privo di capacità, oppure la cui volontà sia stata coartata; la sentenza emessa da autorità giudiziaria straniera, non ancora riconosciuta (Sez. 6, n. 315 del 28/01/1998); quella pronunciata nei confronti di un minore non imputabile al momento del fatto (Sez. 1, n. 35 del 04/12/2018; Sez. 1, n. 31652 del 20/05/2014; Sez. 1, n. 5998 del 04/02/2009; Sez. 5, n. 2874 del 08/05/1998); il provvedimento privo nel dispositivo della statuizione decisoria su un capo di imputazione (Sez. 6, n. 39435 del 14/07/2017; Sez. 2, n. 29427 del 15/06/2011); la sentenza emessa dal giudice civile in un settore della giurisdizione riservato al giudice penale (Sez. U., n. 25 del 1999) e quella pronunciata nei confronti di persona già deceduta al momento dell’esercizio dell’azione penale (Sez. 3, n. 1502 del 19/04/1990), oppure nei riguardi di persona inesistente (Sez. 5, n. 1471 del 11/03/1994).

La “non eseguibilità” del titolo, dal canto suo, è stata intesa quale inidoneità materiale o giuridica del provvedimento ad essere posto in esecuzione visto che il sistema dell’esecuzione penale incentrato sul titolo esecutivo presuppone la formazione del giudicato che, ai sensi dell’art. 648 cod. proc. pen. e si realizza quando, contro le sentenze pronunciate in giudizio, non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione oppure quando l’impugnazione consentita non è proposta, o, se presentata, è dichiarata inammissibile o rigettata mentre, quanto al decreto penale di condanna, il giudicato si forma a seguito del decorso del termine per proporre opposizione o per impugnare l’ordinanza che abbia dichiarato inammissibile l’opposizione.

La consolidata elaborazione giurisprudenziale, i cui esiti sono stati riassunti e valorizzati dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 3423 del 29/10/2020, a sua volta, distingue tra autorità di cosa giudicata ed esecutività della decisione giudiziale nel senso che la prima é il risultato conseguente alla conclusione del processo nel suo sviluppo per gradi ed all’esaurimento del potere decisionale sulla regiudicanda in modo tale da impedire che sul medesimo oggetto possa intervenire ulteriore pronuncia fermo restando che, per un verso, l’autorità di cosa giudicata prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato, per altro verso, la esecutività presuppone la formazione del titolo esecutivo e la definitività del provvedimento, che può riguardare tutte le sue componenti, oppure, in caso di annullamento parziale con rinvio della sentenza da parte della Corte di Cassazione, un solo capo che abbia acquisito autorità di cosa giudicata e sia, quindi, immodificabile nel giudizio di rinvio quanto al giudizio di responsabilità ed alla determinazione della pena principale e che sia autonomo rispetto a quelli attinti dall’annullamento.

Dalla lettura coordinata degli artt. 624, 648 e 650 cod. proc. pen. si desume quindi, per la Corte di legittimità ordinaria, che, in linea generale, l’esecutività del provvedimento discende dalla sua irrevocabilità salvo che non sia diversamente disposto ma la correlazione tra irrevocabilità ed esecutorietà del provvedimento può difettare quando esso, sebbene definitivo sul piano formale a seguito della conclusione del procedimento penale per mancata proposizione dell’impugnazione nel termine prescritto o per l’avvenuto esperimento con esito negativo dei mezzi di impugnazione, contiene un comando giurisdizionale non realizzabile visto che, secondo la lezione interpretativa delle Sezioni Unite (Sez. U., n. 4460 del 19/01/1994; Sez. U, n. 373 del 23/11/1990), la non coincidenza concettuale tra irrevocabilità ed esecutorietà o eseguibilità è apprezzabile nelle ipotesi di condanna a pena condizionalmente sospesa o dichiarata estinta per applicazione dell’indulto revocabile o condizionato, ovvero nei casi di differimento dell’esecuzione della pena detentiva previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., oltre che più in generale nel periodo intermedio tra passaggio in giudicato e attuazione concreta della decisione.

Orbene, in relazione a quanto sin qui esposto, la Suprema Corte evidenziava che, se l’eseguibilità è principalmente collegata al profilo dell’irrevocabilità del provvedimento giudiziale quando il passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna è dipendente dalla sua mancata impugnazione, assume comunque rilievo la verifica positiva della non imputabilità di tale inerzia della parte soccombente alla mancata conoscenza della esistenza della decisione e, nella prassi giudiziaria, il principio ha trovato applicazione nei casi di: omessa o invalida notificazione alle parti dell’avviso del ritardato deposito della sentenza di cui all’art. 548, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. F., n. 3144 del 04/09/2014; Sez. 4, n. 39766 del 26/10/2011); mancata o invalida notificazione dell’estratto della sentenza all’imputato contumace, prescritto dall’art. 548, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 42911 del 02/10/2013; Sez. 1, n. 13616 del 11/03/2009); omessa o invalida notificazione del decreto penale di condanna all’imputato (Sez. 3, n. 11510 del 24/02/2011; Sez. 3, n. 4186 del 06/12/1996); invalida dichiarazione di irreperibilità del condannato ai sensi dell’art. 159 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 1382 del 29/11/2005; Sez. 1, n. 28996 del 28/06/2001).

D’altronde, come osservato da attenta dottrina, in queste situazioni al giudice dell’esecuzione è demandata la verifica sulla esistenza e correttezza giuridica del procedimento notificatorio riguardante atti del percorso processuale finalizzato all’attuazione del comando giudiziale formalmente irrevocabile, atti che devono intervenire dopo la sua formazione e l’acquisizione del carattere di incontrovertibilità posto che in questi casi al giudice dell’esecuzione è attribuito il potere di riscontrare l’inesistenza o la nullità della notificazione e di disporne la rinnovazione, previa sospensione dell’intrapresa esecuzione ed eventuale scarcerazione del condannato, in modo che soltanto dalla rinnovazione della notificazione omessa o invalidamente compiuta decorrono i termini per proporre impugnazione, né può trarre in inganno la locuzione, contenuta nell’art. 670 cod. proc. pen., laddove autorizza la disamina anche nel merito dell’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato: come esplicitato nella Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale del 1988 (pubblicata in G.U., 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2, pag. 203), la disposizione consente infatti il sindacato di legalità sulla dichiarazione di irreperibilità che resta confinato alla notificazione del provvedimento formalmente esecutivo mentre è «escluso che possano venire in rilievo eventuali dichiarazioni relative a fasi processuali precedenti, la cui irritualità dovrà essere fatta valere in sede di impugnazione» (indicazione fatta propria da Sez. 1, n. 5003 del 14/07/1999; Sez. 1, n. 3517 del 15/06/1998).

Pertanto, alla stregua di quanto appena esposto, a parere della Suprema Corte, si conferma così in tal modo la correttezza dell’opzione ermeneutica tradizionale ed accolta dagli interpreti per la quale la giurisdizione esecutiva non ha il compito di emendare o integrare in via postuma il giudicato ma di riscontrare la regolarità formale e sostanziale dell’esecuzione penale rilevandosi contestualmente come una conclusione del genere non sia contraddetta dall’indirizzo esegetico che ha ammesso il ricorso all’incidente di esecuzione nei casi in cui il giudicato già formatosi debba essere aggredito per garantire tutela ai diritti di libertà individuali, stimati preminenti sull’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici definiti, quando la loro perdurante compressione sia frutto di una norma di legge, anche diversa da quella incriminatrice, che sia stata abrogata, modificata in termini più favorevoli o dichiarata incostituzionale in un momento successivo alla sua applicazione nel giudizio di cognizione, nonché per conformarsi ai precetti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali a seguito di sentenza di condanna della Corte sovranazionale nei confronti dello Stato italiano (Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015; Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014; Sez. U., n. 18821 el 24/10/2013) in quanto sono noti gli ulteriori sviluppi cui è approdata la giurisprudenza della Suprema Corte pervenuta, in base ad una lettura costituzionalmente orientata, a riconoscere la possibilità che tramite l’incidente di esecuzione venga posto rimedio ad illegittimità in cui sia incorso il giudice della cognizione nell’irrogare immotivatamente sanzioni, principale o accessoria, difformi dalle previsioni di legge per specie o quantità (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015,; Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014; Sez. 1, n. 26601 del 16/09/2020).

Pur tuttavia, al di là di quanto contemplato in tale approdo ermeneutico, per il Supremo Consesso, resta comunque fermo che la giurisprudenza della Cassazione non ha mai ammesso che in sede di incidente di esecuzione possa attribuirsi rilievo a nullità endoprocedimentali che avrebbero dovuto essere fatte valere nel corso del giudizio di cognizione e, quindi, nonostante il fatto che l’interpretazione estensiva dell’istituto dell’incidente di esecuzione abbia raggiunto esiti distanti dal tenore letterale dell’art. 670, comma 1, cod. proc. pen. e sia rimasta immutata la tradizionale affermazione di principio, quasi totalitaria nelle pronunce di legittimità, secondo la quale con questo strumento non è consentito far valere forme di patologia degli atti processuali, nullità o inutilizzabilità, che siano occorse prima della formazione del giudicato, compresa la irregolare costituzione del rapporto processuale di cognizione: la relativa denuncia ad iniziativa della parte interessata o il relativo rilievo giudiziale devono avvenire durante il processo, attivando i mezzi d’impugnazione nei confronti della decisione che definisce il grado e che, per derivazione, ne è a sua volta inficiata, in difetto della deduzione con l’impugnazione, i vizi, pur sussistenti, restano sanati dall’irrevocabilità della decisione.

Oltre a ciò, si evidenziava per giunta come il principio, in precedenza enunciato, abbia trovato applicazione in caso di: nullità della notificazione effettuata al domicilio eletto presso lo studio del difensore rinunciante al mandato (Sez. 1, n. 5880 del 11/12/2013); dichiarazione di contumacia erroneamente effettuata dal giudice di primo grado (Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008; Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004); omessa comunicazione all’imputato della notifica dell’atto di citazione ricevuto dal difensore di fiducia domiciliatario (Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008); erronea indicazione del patrocinatore quale difensore d’ufficio, anziché di fiducia (Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006); nullità del decreto che dispone il giudizio (Sez. 6, n. 748 del 04/03/1998); nullità del decreto che abbia dichiarato l’imputato irreperibile nel corso del processo di cognizione (Sez. 5, n. 36779 del 17/06/2008; Sez. 6, n. 41982 del 21/09/2004; Sez. 1, n. 5003 del 14/07/1999; Sez. 1 n. 3517 del 15/06/1998) tenuto conto inoltre che, da una parte, le nullità conseguenti, pur se assolute ed insanabili, trovano il loro limite preclusivo nel perfezionarsi del giudicato (Sez. U., n. 24630 del 26/03/2015), dall’altra, la rassegna delle pronunce, che hanno escluso la esperibilità dell’incidente di esecuzione a fronte della deduzione di ipotesi di nullità endoprocessuali, va completata con la citazione delle decisioni – del tutto compatibili con le prime – che hanno ammesso la possibilità di contestare la formazione del titolo esecutivo nei casi in cui la nullità dell’elezione di domicilio, operata dall’imputato nel processo di cognizione, si risconta anche nel procedimento notificatorio dell’estratto contumaciale della sentenza di condanna compiuto presso il medesimo domicilio eletto nel senso che il vizio rileva non in sè e nemmeno per avere prodotto i suoi effetti per derivazione sulla fase successiva alla pronuncia, secondo lo schema di propagazione di cui all’art. 185, comma 1, cod. proc. pen., ma perchè verificatosi nuovamente in un momento successivo alla formazione del giudicato (Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017; Sez. 1, n. 34115 del 08/05/2015; Sez. 1, n. 42911 del 2/10/2013) deducendosi al contempo che delle decisioni conformi sono state assunte nei confronti di condannato latitante in tema di notificazione dell’estratto della sentenza contumaciale (Sez. 1, n. 44988 del 10/06/2014; Sez. 1, n. 30384 del 13/06/2019).

Orbene, a questo punto della disamina, la Cassazione evidenziava come l’art. 670 cod. proc. pen., sul piano sistematico, si collochi in un ordinamento processuale che nel suo impianto originario approntava un apparato di garanzie a tutela del soggetto condannato in contumacia, comprensivo del diritto di ottenere, ai sensi dell’art. 548 cod. proc. pen., la notificazione dell’estratto della sentenza di condanna, quale condizione per la decorrenza dei termini per proporre impugnazione considerato che il processo contumaciale assegnava rilievo alla regolarità formale delle notificazioni degli atti introduttivi del giudizio, fonte della presunzione di conoscenza legale del processo a prescindere dall’effettività della conseguita conoscenza reale il cui difetto era deducibile soltanto mediante il rimedio dell’impugnazione tardiva della sentenza di primo grado oppure, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, con la richiesta di restituzione nel termine per impugnare trattandosi di strumenti che, senza eliminare la pronuncia emessa, affidavano ai gradi successivi la tutela della posizione del condannato sul quale gravava comunque l’onere di dimostrare le ragioni della mancata partecipazione e conoscenza del procedimento.

Ciò posto, si evidenziava inoltre come il sistema processuale così delineato e basato sul coordinamento fra incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. e restituzione nel termine per impugnare di cui all’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., abbia subito un progressivo mutamento caratterizzato da passaggi successivi di graduale ampliamento delle garanzie riconosciute al condannato in contumacia.

La prima tappa di tale percorso, invero, è stata contrassegnata dall’adeguamento del legislatore italiano alle pronunce del giudice sovranazionale che avevano riscontrato il contrasto tra la disciplina della contumacia ed il diritto dell’imputato di partecipare al proprio processo e di esercitarvi le facoltà difensive (Colozza c. Italia, 12/02/1985; F.C.B. c. Italia, 28/08/1991; Somogy c. Italia, 18/05/2004; Sejdovic c. Italia, 10/11/2004).

Nel riaffermare la centralità della conoscenza della vocatio in iudicium quale presupposto di una consapevole scelta di non comparire in giudizio, la Corte EDU precisava, peraltro, che la conoscenza del processo, della natura e delle cause dell’imputazione, potevano essere desunte, pur in mancanza di una notifica personale all’imputato dell’atto di citazione, da taluni fatti estrinseci idonei a dimostrare in maniera inequivoca la conoscenda aliunde dello stesso.

Orbene, per effetto di tali decisioni, il dl. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito con modificazioni dalla legge 22 aprile 2005, n, 60, modificava il secondo comma dell’art. 175 cod. proc. pen., subordinando la restitutio in integrum dell’imputato alle sole due condizioni che questi ne facesse richiesta e che non avesse già volontariamente rinunciato a comparire o ad impugnare.

La riforma in questione, in particolare, si concentrava soltanto su due istituti: la restituzione nel termine (art. 175 cod. proc. pen.) e le notificazioni con il dichiarato intento di assicurare al condannato che non risultasse, in maniera inequivoca, a conoscenza del processo a suo carico e che non avesse esplicitamente rinunciato a prendervi parte, di proporre impugnazione avverso la sentenza contumaciale e di rendere più probabile l’effettività della conoscenza del processo.

Precisato ciò, gli Ermellini osservavano come la nuova disciplina fosse stata oggetto di plurimi rilievi critici posto che essa attribuiva eccessiva discrezionalità all’Autorità giudiziaria nel valutare l’effettività della conoscenza quale presupposto per una scelta consapevole in ordine alla comparizione e all’individuazione del soggetto (imputato o Autorità giudiziaria precedente) su cui gravava l’onere probatorio con evidenti ricadute sul diritto ad un giusto processo affidando, inoltre, allo strumento disciplinato dall’art. 175 cod. proc. pen. la tutela pressocchè esclusiva dell’imputato “assente involontario” e, in caso di accoglimento della domanda di restituzione nel termine, non garantiva con pienezza il diritto ad un nuovo processo che consentisse la facoltà del diritto alla prova ed un nuovo giudizio sul merito dell’accusa (Kollcaku c. Italia, 08/02/2007).

In senso conforme, del resto, si pronunciava la Corte EDU, Sez. 1, del 01/09/2016, Huzuneanu c. Italia, riguardante un caso di ritenuta preclusione, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 6026 del 31/01/2008), ad esperire il rimedio della restituzione nel termine per impugnare sentenza contumaciale da parte di imputato il cui difensore aveva già proposto impugnazione avverso la stessa sentenza, preclusione ravvisata in base al principio di unicità del diritto di impugnare ed a salvaguardia della ragionevole di durata del processo.

La Corte di Strasburgo, in particolare, riteneva violato l’art. 6 CEDU, sia perché «i diritti della difesa di un imputato — che non si è sottratto alla giustizia e non ha rinunciato inequivocabilmente alle sue garanzie procedurali — non possono essere ridotti al punto da renderli inoperanti con il pretesto di garantire altri diritti fondamentali del processo, come il diritto al “termine ragionevole”» (§ 48), sia per la negazione al condannato in contumacia della «possibilità di ottenere una nuova decisione sulla fondatezza dell’accusa sia in fatto che in diritto, sebbene la sua assenza al processo non gli fosse imputabile» (§ 49).

Ebbene, tali criticità erano state, per la Corte di legittimità, all’origine del successivo passaggio evolutivo del sistema processuale italiano realizzato mediante la definitiva abrogazione del giudizio contumaciale e la sua sostituzione con il processo in assenza, disciplinato dalla legge 28 aprile 2014, n. 67.

In effetti, al fine di rafforzare il sistema di garanzie a favore dell’imputato e di assicurare che la sua mancata partecipazione al processo sia oggetto di determinazione volontaria e consapevole, quale condizione per assicurare l’equità del processo secondo le indicazioni della Corte EDU, è stato abbandonato il meccanismo di conoscenza presuntiva legato alla regolarità formale delle notificazioni avendo la novella subordinato la possibilità di celebrare il processo “in assenza” dell’imputato all’effettiva informazione sul contenuto dell’accusa, sulla pendenza del procedimento e sui tempi e luoghi della sua celebrazione in guisa tale che l’incertezza sulla conoscenza della citazione a giudizio ne comporta la sospensione e ne inibisce l’ulteriore corso, compresa la pronuncia della sentenza, sino al verificarsi di una delle ipotesi alternativamente previste dall’art. 420-quinquies cod. proc. pen..

Tal che se ne faceva conseguire come sia compito, dunque, del giudice della cognizione, una volta condotta la verifica sulla regolare costituzione delle parti e, quindi, sulla validità del procedimento notificatorio degli atti introduttivi ai sensi dell’art. 420, comma 2, cod. proc. pen., accertare la rituale instaurazione del contraddittorio e la corretta costituzione del rapporto processuale in modo da garantire che la mancata partecipazione dell’imputato sia ascrivibile alla conoscenza del processo e ad una determinazione volontaria in dipendenza della ricezione personale dell’atto di citazione in giudizio, oppure, secondo l’elencazione dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., di situazioni definibili quali “indici di conoscenza“.

In particolare, secondo quanto, per le Sezioni Unite, in modo condivisibile, affermato dalla pronuncia delle Sezioni Unite, n. 23948 del 28/11/2019, che ha trattato approfonditamente il tema e di cui si raccoglievano le riflessioni interpretative sin qui enunciate nella pronuncia in commento, l’intera configurazione normativa del processo in assenza postula che il giudice abbia acquisito la certezza della conoscenza, da parte dell’imputato, dell’accusa elevata e della data di udienza.

Ed allora, alla stregua di quanto appena esposto, per la Suprema Corte, in coerenza con la mutata impostazione di fondo, l’enunciazione di principio dell’art. 420-bis cod. proc. pen., per cui si procede in assenza se vi è stata rinuncia espressa dell’imputato a comparire o se ricorrono le situazioni previste dal secondo comma, riceve attuazione mediante altre disposizioni, in correlazione logica con esso, che prevedono strumenti riparatori operanti in primo luogo nell’ambito delle varie fasi processuali in cui si articola il giudizio di cognizione e tali strumenti, pur con diversa ampiezza di effetti, sono accomunati dall’essere basati sulla allegazione da parte dell’imputato della «incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo» oppure, quando previsto, della «assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento» e dalla finalità di impedire lo sviluppo ulteriore del rapporto processuale in situazioni di ignoranza incolpevole, intercettandolo prima della sua naturale conclusione e della formazione del giudicato, volendosi in tal modo assicurare in ogni grado del processo l’effettiva conoscenza da parte dell’imputato e rendere più incisivo ed efficace il controllo giudiziale a partire dalla vocatio in iudicium sino al provvedimento conclusivo della singola fase e, pertanto, ad avviso della Suprema Corte, se l’imputato inizialmente assente compare nel corso del giudizio di primo grado ed offre la prova nei termini indicati dall’art. 420-bis, comma 4, cod. proc. pen., ha diritto di produrre atti e documenti, di formulare richieste istruttorie e di chiedere la rinnovazione delle prove già assunte, qualora la mancata incolpevole conoscenza del processo sia dedotta con l’atto di appello, a norma dell’art. 604, comma 5-bis, cod. proc. pen., e il giudice pronuncia l’annullamento della sentenza impugnata e restituisce gli atti a quello di primo grado per la rinnovazione del giudizio mentre, se poi i controlli attivabili nel corso del processo di cognizione non abbiano condotto all’eliminazione di patologie incidenti sulla consapevolezza della sua pendenza da parte dell’imputato, rimasto assente per tutto il suo corso, è prevista la possibilità di ottenere la rescissione del giudicato.

Detto questo, i giudici di legittimità ordinaria osservavano, a questo punto della disamina, che a sua volta l’introduzione della rescissione del giudicato, dapprima disciplinato dall’art. 625-ter cod. proc. pen., poi sostituito dall’art. 629-bis cod. proc. pen., costituisce il punto di arrivo del percorso evolutivo descritto e ne riflette i principi ispiratori in quanto istituto che non si limita, come già previsto dall’art. 175 cod. proc. pen., a restituire nel termine per impugnare la sentenza emessa nel processo in cui l’imputato sia rimasto assente, ma gli garantisce la celebrazione di un nuovo giudizio, se la sua mancata partecipazione non sia stata volontaria.

Invero, nella lettura offertane dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 32848 del 17/07/2014, la rescissione del giudicato si pone quale mezzo di impugnazione straordinario e quale strumento di chiusura del sistema dato che con essa è perseguito l’obiettivo del travolgimento del giudicato e dell’instaurazione ab initio del processo quando si accerti la violazione dei diritti partecipativi dell’imputato rilevandosi al contempo che si trae conferma dai tratti qualificanti l’istituto e dal coordinamento tra l’art. 629-bis e l’art. 420-bis cod. proc. pen. dalle seguenti circostanze: il riconoscimento della legittimazione al solo condannato o sottoposto a misura di sicurezza con sentenza irrevocabile, che sia rimasto assente per tutto il corso del processo, per tale intendendosi colui che versi nella situazione prevista dal vigente art. 420-bis cod. proc. pen., non quindi il contumace; l’attribuzione al giudice della verifica, sulla scorta della deduzione della parte, che l’assenza è stata o meno effetto della «incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo», da condurre mediante la documentazione prodotta dall’istante con possibilità di un intervento integrativo, esercitabile anche d’ufficio, «per chiarire aspetti ambigui o colmare possibili lacune o verificare la rispondenza della documentazione esibita alla realtà processuale» (Sez. U., omissis, citata; Sez. 5, n. 31021 del 15/09/2020); gli effetti del rimedio in termini di revoca della sentenza, a significare la sua funzione di strumento per assicurare ex post, dopo la formazione del giudicato, il diritto dell’imputato di partecipare al processo a suo carico e di consentire una rinnovata valutazione in fatto ed in diritto dell’accusa con la piena attivazione delle facoltà difensive, comprensive anche dell’accesso ai procedimenti deflattivi del dibattimento.

La legge n. 67 del 2014, dal canto suo, rivela tra l’altro il mutamento di prospettiva che ispira il processo “in assenza” anche sul piano della regolamentazione dei rimedi esecutivi tradizionali per avere eliminato il legame, operativo in fase esecutiva, tra incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. e restituzione nel termine per impugnare di cui all’art. 175 cod. proc. pen. ed avere drasticamente ridotto l’ambito di applicazione di quest’ultimo istituto.

Le riflessioni già esposte, per il Supremo Consesso, convincono della differenza concettuale, finalistica e regolamentativa dei due istituti a confronto: l’incidente di esecuzione (art. 670 cod. proc. pen.); la rescissione del giudicato (art. 629-bis cod. proc. pen.) in quanto essi, seppur accomunati dall’essere rimedi giuridici proponibili dopo la definizione del processo di cognizione contro pronunce giudiziali irrevocabili, presentano caratteri distintivi, producono effetti autonomi e sono collocati in contesti sistematici differenti nell’ambito delle norme del codice di procedura penale atteso che: il primo si pone quale istanza volta a sollecitare il controllo giurisdizionale sull’esecuzione, non è soggetto al rispetto di termini e di forme rigide di proposizione, a vincoli particolari di legittimazione e di contenuto, né impone oneri probatori all’istante ed è rimedio idoneo a paralizzare il corso del rapporto esecutivo, che può essere sospeso mentre il secondo costituisce un’impugnazione straordinaria, ammessa in favore di una categoria specifica di legittimati, da presentare entro un termine perentorio e per ragioni specifiche e tassativamente delineate dalla norma processuale, attinenti al diritto dell’imputato di partecipare al processo, con onere di allegazione a carico del proponente e con l’effetto che, se accolto, la relativa decisione rimuove il giudicato e fa ripartire il processo dal primo grado, consentendo di formulare richiesta di ammissione di prove a discarico, di rinnovata acquisizione di prove già assunte e di accesso ai riti alternativi fermo restando che la loro coesistenza è, però, caratterizzata dalla progressiva sempre maggiore limitazione dell’ambito applicativo dell’art. 670 cod. proc. pen., specie se si voglia far valere nullità incidenti sulla corretta instaurazione del rapporto processuale dal momento che il sistema vigente ha i suoi referenti, quali punti di forza, negli artt. 420-bis, 604 e 629-bis cod. proc. pen., perché è con i rimedi consentiti da tali disposizioni che si appresta tutela in tutti i casi in cui la mancata comparizione in giudizio dell’imputato non sia frutto di una scelta volontaria, conseguente alla rituale conoscenza del provvedimento di vocatio in iudicium (Sez. U. n. 23948/2019; Sez. 5, n. 31201 del 15/08/2020).

Terminata la disamina di questi istituti, per le Sezioni Unite si poteva, a questo punto della decisione, esaminare i termini del contrasto giurisprudenziale che ha portato ad investire le Sezioni Unite.

In particolare, si notava come, in opposizione all’orientamento costante che sarà menzionato da qui a poco, sia stata di recente sostenuta la tesi secondo cui, tra le finalità dell’incidente di esecuzione, dovrebbe includersi, a seguito del superamento del procedimento contumaciale, quella di dare rilievo alle nullità endoprocessuali che non è stato possibile dedurre tempestivamente prima della formazione del giudicato e, a sostegno di tale conclusione, si era giunti muovendosi da una considerazione preliminare fermo restando che la coerenza del nuovo assetto normativo, introdotto dalla legge n. 67 del 2014, è stata altresì assicurata mediante l’eliminazione dell’adempimento della notificazione della sentenza all’imputato dichiarato contumace e la riformulazione dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., che nel testo attuale limita la possibilità di accordare la restituzione nel termine all’ipotesi del decreto penale di condanna a favore del condannato che non abbia avuto conoscenza del provvedimento al fine di consentirgli di proporre opposizione.

Detto questo, proprio dal mantenimento in termini invariati della formulazione dell’art. 670 cod. proc. pen., pur a fronte dell’eliminazione della contumacia, dalla limitazione dello spazio applicativo della restituzione nel termine per proporre impugnazione e dall’ampliamento dei rimedi riparatori approntati a tutela dell’imputato non presente al processo nascono gli interrogativi che avevano dato luogo alla ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.

Nel dettaglio, era emersa come plausibile la deducibilità mediante incidente di esecuzione, ai sensi dell’art. 670, comma 1, cod. proc. pen., di nullità assolute riguardanti la notificazione del decreto che dispone il giudizio nei confronti dell’imputato, in seguito rimasto assente in tutto il corso del processo e condannato con sentenza passata in giudicato, al fine di ottenerne l’accertamento di ineseguibilità fermo restando che il quesito traeva origine proprio dalla constatata eliminazione della notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza e dall’idea che tale eliminazione avesse anche determinato l’effetto di rendere non più deducibili quelle nullità endoprocessuali che, prima della riforma, avrebbero trovato spazio di deduzione “riproducendosi” sull’attività di notificazione dell’estratto contumaciale.

Inoltre, il quesito trovava ulteriore argomento, ad avviso della Suprema Corte, nel limitato ambito di azionabilità della rescissione del giudicato che, secondo la sequenza delle verifiche da condurre nel giudizio di cognizione (artt. 420-bis e 484 cod. proc. pen.), parrebbe essere consentita solo all’imputato legittimamente giudicato in assenza, ossia destinatario di regolari notifiche degli atti introduttivi, che, malgrado ciò, non abbia preso parte al processo, perchè l’assenza é dipesa da incolpevole mancata conoscenza della sua celebrazione.

In altri termini, secondo tale prospettiva, poiché la regolarità della notificazione è presupposto e condizione di base per poter operare i successivi controlli, imposti dalla mancata comparizione dell’imputato, sarebbe possibile ammettere il condannato, erroneamente dichiarato assente a seguito di una nullità della notificazione del decreto che dispone il giudizio, non rilevata dal giudice a far valere tale vizio soltanto mediante l’incidente di esecuzione e ciò al fine di impedire l’ingiustificata compressione del diritto ad un processo equo, comprensivo del diritto di prendervi parte personalmente (Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018) rilevandosi al contempo come in tal senso si siano espresse alcune pronunce della Prima Sezione penale, vale a dire: la sentenza n. 48723 del 18/10/2019 (e la conforme in un caso analogo Sez. 1, n. 20989 del 23/06/2020) che ha ritenuto ammissibile, seppur infondato, l’incidente di esecuzione, proposto per lamentare le violazioni di legge conseguenti all’abbandono della difesa nel processo di cognizione da parte del difensore di ufficio, in origine nominato, e la mancata designazione di un nuovo patrocinatore di ufficio che assumesse la titolarità della difesa ai sensi dell’art. 97, comma 1, cod. proc. pen. dal momento che, a fronte di una pluralità di nomine estemporanee di diversi difensori sostituti, di volta in volta reperibili ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc. pen., la citata sentenza ha ritenuto che il vizio di nullità di ordine generale a regime intermedio non influisse sulla esecutività del titolo poiché l’imputato aveva avuto conoscenza del processo mediante la notificazione del decreto che dispone il giudizio ed era rimasto assente per propria volontà, disinteressandosi del suo corso e del suo esito.

In termini più espliciti, anche se espressi in via soltanto incidentale ed in assenza di una disamina comparata e compiutamente argomentata tra i due istituti disciplinati dagli artt. 670 e 629-bis cod. proc. pen., Sez. 1, n. 13647 del 12/02/2019 ha affermato che «sono estranee al tema della conoscenza del processo le questioni, regolate dall’articolo 420, comma 2, cod. proc. pen., concernenti la regolare citazione delle parti, cui corrisponde correlativamente nella fase esecutiva il rimedio di cui all’articolo 670 cod. proc. pen.».

Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, a sua volta, ha sostenuto che la deduzione del vizio, consistente nella violazione del principio di «continuità ed effettività» della difesa, verificatosi nel processo di cognizione, può essere effettuata anche mediante incidente di esecuzione in quanto interferente con la formazione del giudicato perchè, «incidendo in modo determinante sulla assistenza tecnica dell’imputato», finisce per compromettere l’autonoma facoltà di impugnazione spettante al difensore deducendosi contestualmente che, nel caso concreto affrontato dalla citata decisione, alla rinuncia espressa al mandato da parte dell’originario difensore di fiducia dell’imputato non era seguita la prescritta nomina dì un difensore di ufficio ai sensi dell’art. 97, comma 1, cod. proc. pen. ma solo nomine officiose, di carattere estemporaneo, di difensori immediatamente reperibili ai sensi dell’art. 97, comma 4, del codice di rito.

Oltre a ciò, si faceva presente come anche la Sezione Quarta penale, con la sentenza n. 50571 del 14/11/2019, abbia espresso convincimento innovativo per avere affermato che l’istanza di restituzione nel termine per l’impugnazione, fondata sull’omessa notifica al difensore di fiducia del decreto di citazione diretta a giudizio, deve essere qualificata come incidente di esecuzione perché la restituzione in termini presuppone la ritualità dell’atto a cui è legato il termine scaduto per impugnare.

Tuttavia, pur in presenza di tale approdo ermeneutico, le Sezioni Unite osservavano come la maggioranza delle più recenti pronunce della Suprema Corte sia, invece, concorde nel ribadire l’orientamento tradizionale formatosi prima che fosse introdotto il processo in assenza, e in tal senso venivano citate le seguenti pronunce: Sez. 1, n. 12823 del 13/02/2020 che ha escluso la rilevanza, ai fini della contestazione sulla valida formazione del titolo esecutivo, della nullità derivante dalla designazione di difensori d’ufficio, via via diversi per ciascuna udienza, dopo che quello originariamente nominato aveva comunicato la sua cancellazione dalle liste dei difensori di ufficio, con conseguente abbandono della difesa:  Sez. 1, n. 3265 del 07/05/2020 la quale ha ritenuto che la deduzione del vizio di incompetenza funzionale del giudice ordinario a giudicare reati commessi dall’imputato all’epoca minore di età riguarda un’ipotesi di nullità assoluta, da dedurre col rimedio della revisione. Sez. 1, n. 1812 del 17/12/2019 la quale ha affermato che la nullità della notifica all’imputato del decreto di fissazione dell’udienza del processo di appello, effettuata al precedente difensore di ufficio in forza di elezione di domicilio successivamente sostituita da altra, non può essere dedotta con l’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., ma soltanto col ricorso per cassazione avverso la sentenza;  Sez. 1, n. 10877 del 17/01/2020 ha a sua volta pronunciato sulla non deducibilità con incidente di esecuzione del vizio del consenso, prestato dall’imputato a definire il processo con sentenza di patteggiamento, per mancata conoscenza dell’inutilizzabilità di alcuni atti compiuti dopo la scadenza del termine delle indagini preliminari; Sez. 1, n. 31051 del 22/05/2018 ha escluso che possa essere fatta valere ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. la nullità della citazione a giudizio dell’imputato dichiarato assente per omessa notifica dell’atto al domicilio eletto presso il difensore di fiducia al momento della sottoposizione a misura cautelare, vizio da far valere con i mezzi d’impugnazione, compreso il ricorso per rescissione del giudicato.

Orbene, una volta concluso questo excursus giurisprudenziale, le Sezioni Unite ritenevano come l’indirizzo espresso dalla posizione prevalente della giurisprudenza di legittimità meritasse conferma in quanto, una volta precisata la differente natura giuridica dell’incidente di esecuzione e della rescissione del giudicato e la relazione di non interferenza reciproca, per la Corte di legittimità, se si deve escludere che, tramite le contestazioni sul titolo esecutivo secondo la previsione dell’art. 670 cod. proc. pen., possano farsi valere nullità assolute, verificatesi nella fase introduttiva del giudizio di cognizione nei confronti dell’imputato o del suo difensore, la cui deduzione o il cui rilievo d’ufficio sono preclusi dall’irrevocabilità della decisione, che definisce il procedimento atteso che la struttura testuale della disposizione e la sua funzione non consentivano in precedenza e non consentono tuttora, dopo l’introduzione della regolamentazione della disciplina del processo in assenza in luogo di quello contumaciale, di pervenire ad un diverso risultato ermeneutico, doveva essere piuttosto recepito l’orientamento secondo cui l’art. 629-bis cod. proc. pen. si pone in stretta correlazione con le previsioni dell’art. 420-bis cod. proc. pen. e offre una forma di tutela all’imputato non presente fisicamente in udienza, mediante la possibilità di proposizione di un mezzo straordinario di impugnazione, che realizza la reazione ripristinatoria del corretto corso del processo per situazioni di mancata partecipazione del soggetto accusato, in dipendenza dell’ignoranza incolpevole della celebrazione del processo stesso, che non siano state intercettate e risolte in precedenza in sede di cognizione e dunque si deve trattare di una ignoranza che non deve essere a lui imputabile, né come voluta diserzione delle udienze, né come colposa trascuratezza e negligenza nel seguirne il procedere.

Ebbene, per le Sezioni Unite, la correttezza di una siffatta impostazione discende dalla formulazione testuale dell’art. 629-bis cod. proc. pen. che non contiene una tipizzazione, né indicazioni esemplificative degli eventi all’origine della situazione fattuale di assenza incolpevole e dal rilievo che l’art. 420-bis, comma 4, cod. proc. pen., laddove prevede la revoca dell’ordinanza che dispone di procedere in assenza a fronte di determinate evenienze, dedotte dall’imputato, al fine di garantire che il processo in assenza sia legittimamente condotto e implica che tutti i meccanismi di controllo abbiano operato con efficacia prima della declaratoria di assenza e che prima ancora siano stati regolarmente compiuti gli accertamenti sulla costituzione delle parti, secondo l’ordine sequenziale di verifiche, stabilito dall’art. 420, comma 2, cod. proc. pen..

Tuttavia, sia lo scrupoloso compimento dei controlli preliminari funzionali alla dichiarazione di assenza, sia la loro conduzione in modo non corretto, possono comunque dar luogo per la Corte di legittimità al verificarsi di situazioni concrete nelle quali l’imputato sia stato privato incolpevolmente della possibilità di conoscere la celebrazione del processo.

Secondo l’interpretazione dell’istituto della rescissione del giudicato, offerta dalla sentenza Sez. 5, n. 31201 del 15/09/2020, che le Sezioni Unite condividevano nel caso di specie, difatti, «l’art. 629-bis cod. proc. pen. attribuisce al giudice della rescissione il compito di valutare la sintomaticità dei comportamenti tenuti dall’imputato rimasto assente nel corso dell’intero processo, specie nel caso in cui abbia avuto cognizione della pendenza del procedimento, senza instaurare alcun automatismo in riferimento alle condizioni che, ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen. autorizzano il giudice della cognizione a procedere in sua assenza»; in altri termini, l’art. 629-bis è esperibile a prescindere dalla correttezza degli accertamenti condotti in fase di cognizione per procedere in assenza con la conseguenza che, al di fuori di ogni presunzione, anche l’imputato dichiarato assente nel rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen. ed è legittimato ad allegare l’ignoranza del processo a lui non imputabile rilevandosi al contempo che, in questa prospettiva ermeneutica, non soltanto si conferma la coerenza dell’istituto con i principi costituzionali e convenzionali, ma gli si riconosce utilità pratica ed uno spazio di applicabilità, che consentono, per le Sezioni Unite, di superare i dubbi della Sezione remittente e di escludere che il pregiudizio subito per la mancata partecipazione al processo si debba far valere mediante l’incidente di esecuzione.

Per queste Sezioni, quindi, l’interpretazione letterale dell’art. 629-bis cod. proc. pen. consente di affermare che il rimedio è utilizzabile anche nei casi in cui la declaratoria di assenza sia stata preceduta da notificazioni dell’atto di citazione a giudizio, inficiate da nullità assoluta -non rilevate nel processo di cognizione – che abbiano pregiudicato l’informazione sull’esistenza del processo e sulla fissazione dell’udienza e non abbiano consentito al destinatario di scegliere se parteciparvi o meno e al medesimo risultato si perviene in base al criterio teleologico in quanto la considerazione della finalità dell’istituto della rescissione, che assegna centralità alla mancanza di prova della reale conoscenza del processo da parte dell’imputato che non vi abbia presenziato e di approntare tutela a chi sia stato involontariamente assente, conferma la possibilità di ricorrervi in tutti i casi in cui la mancata partecipazione non sia stata addebitabile a libera determinazione e non abbiano operato i meccanismi preventivi, attivabili nel giudizio di cognizione prima dell’irrevocabilità del provvedimento di condanna, evenienza verificabile, sia a fronte della legittima dichiarazione di assenza, nel rispetto delle disposizioni degli artt. 420-bis e ss. cod. proc. pen., che però non sia assistita dalla effettiva conoscenza del processo, sia quando l’assenza sia stata ritenuta dal giudice per effetto di erronea considerazione degli atti processuali e del mancato rilievo di eventuali nullità realmente occorse fermo restando come questa conclusione era già stata espressa, seppur in via incidentale, nella sentenza delle Sezioni Unite n. 23948/2019 laddove era stato osservato che, con il ricorso per rescissione del giudicato, non può escludersi «che venga dedotto l’errore di valutazione del giudice nel considerare la parte a conoscenza della chiamata in giudizio… » tenuto inoltre conto del fatto che essa è compatibile con gli ampi poteri cognitivi, conferiti al giudice funzionalmente competente a decidere sulla rescissione, cui sono demandati controlli non solo formali, ma anche sostanziali, sui dati fattuali dai quali desumere la conoscenza della celebrazione del processo, senza incontrare limitazioni nella conduzione dell’accertamento, non rinvenibili nella disciplina testuale.

Un diverso approdo interpretativo – come quello rappresentato dalla Sezione remittente – che negasse la legittimazione ad ottenere di rescindere il giudicato a chi sia stato per errore giudiziale dichiarato assente, nonostante la nullità assoluta ed insanabile della citazione, ad avviso delle Sezioni Unite, condurrebbe ad esiti irrazionali nonché priverebbe di tutela il condannato che abbia subito tra le più gravi forme di violazione del diritto di difesa, e ciò in contrasto con gli obiettivi perseguiti con la introduzione dell’istituto di cui all’art. 629-bis cod. proc. pen. e con le modifiche apportate nel tempo al processo penale per adeguarlo ai canoni del giusto processo, come interpretati dalla Corte.

Del resto, secondo i giudici di legittimità ordinaria, anche sul piano dell’interpretazione convenzionalmente orientata, la lettura proposta è aderente all’esigenza di apprestare meccanismi efficaci e realmente restitutori di facoltà perdute nella fase dei controlli volti a garantire la posizione dell’imputato non presente al processo ed i suoi diritti fondamentali e rende il rimedio della rescissione del giudicato perfettamente adeguato e funzionale rispetto a tale finalità senza imporre torsioni interpretative del diverso strumento dell’incidente di esecuzione.

La giurisprudenza della Corte EDU, le cui linee evolutive sono state oggetto di una puntuale rassegna nella sentenza delle Sezioni Unite n. 23948/2019, per la Suprema Corte, non riconosce ostacoli di principio alla celebrazione del processo senza la partecipazione dell’imputato ma, per assicurare il rispetto dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, esige la certa conoscenza del processo da parte dell’imputato e la sua inequivoca e non presunta rinuncia a presenziarvi pretendendo altresì che al soggetto condannato “in assenza” e rimasto privo di conoscenza della condanna sia consentito di ottenere che una giurisdizione statuisca nuovamente, dopo averlo sentito e nel rispetto dei diritti convenzionali, sul merito dell’accusa (C. EDU, Grande Camera, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia, § 82) evidenziandosi al contempo come in tal senso militasse, nell’ambito delle fonti convenzionali, in primo luogo, la Raccomandazione n. 11, adottata nel 1975 dal Comitato dei Ministri degli Stati membri del Consiglio d’Europa per la quale un processo senza imputato è legittimo se l’accusato, non sottrattosi alla giustizia, sia stato effettivamente raggiunto in tempo utile da una citazione, se non sussistano elementi da cui presumere un suo impedimento a comparire ed a condizione che gli sia riconosciuto il diritto alla ripetizione del processo, qualora la sua assenza e l’omessa citazione siano dipese da una causa indipendente dalla sua volontà e, in secondo luogo, la Direttiva 2016/343/EU del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo prescrivendo essa che gli Stati membri garantiscano che «gli indagati o imputati, una volta informati della decisione, in particolare quando siano arrestati, siano informati anche della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, in conformità dell’art. 9» (art. 8, § 4).

In conclusione le Sezioni Unite stimavano di potere affermare che gli effetti di demolizione del giudicato e di rinnovazione del processo, propri della rescissione ex art. 629-bis cod. proc. pen. – certamente più ampi nel recupero delle facoltà difensive rispetto alla restituzione nel termine di cui all’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. (per i residui ambiti di applicazione, cfr. par. 8.6) ed alla declaratoria di ineseguibilità del titolo ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen.-, si prestano perfettamente ad assolvere allo scopo di tutelare il condannato anche nella prospettiva convenzionale, quando la sua assenza sia stata incolpevole, perché eventualmente determinata da nullità assoluta ed insanabile che abbia colpito la notificazione del decreto che dispone il giudizio: proprio come verificatosi nella vicenda della ricorrente che mai aveva ricevuto notizia del processo celebrato nella sua assenza perché il relativo atto introduttivo era stato notificato al difensore, eletto quale suo domiciliatario per altro procedimento penale, quindi, sulla base di una indicazione di domiciliazione priva di efficacia per il presente giudizio.

Pur tuttavia, secondo le Sezioni Unite, alla soluzione prospettata si sarebbe potuto obiettare, come si leggeva nell’ordinanza di rimessione della Prima Sezione penale, che per tale via si finisce per rende superfluo il mantenimento nell’ordinamento delle disposizioni dell’art. 670 cod. proc. pen., superate dalla disciplina sul processo in assenza, ma si riteneva tale assunto non condivisibile giacchè la considerazione testuale e sistematica dell’attuale contesto normativo indica tuttora uno spazio di autonoma rilevanza e di utilità processuale dell’incidente di esecuzione volto a contestare la non esecutorietà del titolo quando si deducono: a) vizi attinenti alla notificazione del decreto penale di condanna; b) vizi di omessa o illegittima notificazione dell’avviso di ritardato deposito della sentenza ai sensi dell’art. 548, comma 2, cod. proc. pen.; c) vizi di omessa o illegittima notificazione dell’estratto della sentenza di condanna, emessa nei confronti dell’imputato contumace, ex art. 548, comma 3, cod. proc. pen., il cui processo resta soggetto alla previgente regolamentazione perché pronunciata prima dell’introduzione dell’”assenza” e della disciplina transitoria di cui all’art. 15-bis della legge 11 agosto 2014, n. 118 (Sez. 1, n. 1552 del 12/11/2018; Sez. 1, n. 21735 del 22/12/2017, dep. 2018; Sez. 1, n. 8654 del 21/12/2017; Sez. 1, n. 20485 del 08/03/2016).

In base alle considerazioni sinora svolte, pertanto, secondo la Suprema Corte, anche il terzo comma dell’art. 670 cod. proc. pen. ha un ambito di applicazione ridotto limitato all’ipotesi in cui il titolo sia costituito dal decreto penale di condanna e il destinatario non ne abbia avuto tempestivamente effettiva conoscenza ed intenda proporre opposizione ed è questo l’unico caso per il quale il comma 2 dell’art. 175 cod. proc. pen., come riformulato dalla legge n. 67 del 2014, contempla ancora la restituzione nel termine per proporre impugnazione e che, a sua volta, giustifica il permanente significato dell’art. 670, comma 3, cod. proc. pen..

Oltre a ciò, si faceva altresì presente che la disposizione dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. nel testo previgente conserva un residuo spazio applicativo in relazione ai procedimenti contumaciali trattati e definiti nei gradi di merito prima dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014,poiché la «nuova disciplina sul procedimento in assenza, e in particolare il rimedio della rescissione del giudicato di cui all’art. 625-ter cod. proc. pen., si rivolge espressamente a regolare gli effetti di atti processuali posteriori alla sua entrata in vigore, con la conseguenza che a regolare gli effetti degli atti processuali precedenti non possono che provvedere le disposizioni vigenti al momento della loro verificazione» (Sez. U., n. 32848/2014; Sez. 5, n. 10433 del 31/01/2019).

Ciò posto, si evidenziava infine che la rassegna degli strumenti di garanzia a tutela dell’imputato non presente al processo si completa con la possibilità di un’ulteriore applicazione dell’art. 175, comma 1, cod. proc. pen. nei casi in cui l’assenza incolpevole abbia riguardato non l’intero corso del processo, ma il solo grado di appello, per effetto di vizi riguardanti la notificazione degli atti introduttivi del giudizio atteso che la Cassazione, con la sentenza Sez. 5, n. 29884 del 15/09/2020, ha ritenuto ammissibile l’istanza di restituzione nel termine per impugnare la sentenza di appello e l’ha accolta a ragione della ravvisata situazione di caso fortuito o forza maggiore (art. 175, comma 1, cod. prod. pen.) che aveva impedito ad imputato e difensore di partecipare al processo di appello e di avere conoscenza della sentenza che l’aveva definito così come ha, altresì, condiviso il prospettato impedimento ad esperire il rimedio della rescissione del giudicato perché l’assenza si era verificata soltanto in un grado e non per tutto il corso del processo.

La conclusione e l’iter logico-giuridico che la sorreggeva meritavano quindi per le Sezioni Unite adesione perché, nell’apprezzabile sforzo di assicurare adeguata tutela all’imputato rimasto assente non per propria libera scelta in un solo segmento dello sviluppo del rapporto processuale, mostrava una corretta considerazione dei limiti applicativi dell’istituto disciplinato dall’art. 629-bis cod. proc. pen. ed al contempo individuava una via praticabile ed efficace per assicurargli la possibilità di impugnare la sentenza di cui non ha avuto notizia.

In conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, veniva enunciato il seguente principio di diritto:

«il condannato con sentenza pronunciata in assenza che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili, derivanti dall’omessa citazione in giudizio propria e/o del proprio difensore nel procedimento di cognizione, non può adire il giudice dell’esecuzione per richiedere ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. in relazione ai detti vizi, la declaratoria della illegittimità del titolo di condanna e la sua non esecutività.

Può, invece, proporre richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen., allegando l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che possa essere derivata dalle indicate nullità».

Composto nei termini sopra esposti il contrasto sul tema principale, in discussione nel processo, le Sezioni Unite ritenevano necessario esaminare l’ulteriore questione sulla possibilità di riqualificare quale istanza di rescissione del giudicato la richiesta del condannato formulata ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., perché sia dichiarata la non esecutività della sentenza resa nei suoi confronti atteso che già la Sezione rimettente aveva riscontrato, con riferimento al caso in esame, che la relativa disamina non era imposta dalle deduzioni articolate in ricorso.

In effetti nel caso specifico non vi era per la Corte di legittimità nessuno spazio per ammettere un’eventuale operazione di diversa qualificazione giuridica dell’istanza anche nell’ottica convenzionale di garantire alla condannata l’accesso, nella massima latitudine possibile, agli strumenti giuridici di reazione al giudicato sfavorevole posto che la ricorrente, di sua iniziativa, come già osservato in precedenza, aveva rivolto istanza di rescissione del giudicato alla Corte di Cassazione che l’aveva a sua volta dichiarata inammissibile per tardiva proposizione prima ancora che il Tribunale di Pordenone si pronunciasse con l’ordinanza impugnata, peraltro anche trasmettendo l’istanza introduttiva alla Corte di appello di Brescia, che l’aveva dichiarata irricevibile.

Tuttavia la tematica, per le Sezioni Unite, aveva rilevanza generale e richiedeva un intervento chiarificatore da parte loro posto che essa aveva ricevuto difformi risposte da parte delle Sezioni semplici.

Precisato ciò, per la soluzione che nega ogni possibilità di riqualificare l’incidente di esecuzione in istanza di rescissione del giudicato o viceversa si erano pronunciate: Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, nonché numerose altre sentenze precedenti e successive (Sez. 1, 12713 del 28/02/2020; Sez, 1, n. 5042 del 07/05/2019, in motivazione; Sez. 2, n. 25777 del 08/07/2020; Sez. 3, n. 22583 del 15/01/2019; Sez. 1, n. 39881 del 06/06/2018; Sez. 1, n. 31051 del 22/05/2018; Sez. 6, n. 10000 del 14/02/2017; Sez. 3, n. 19006 del 14/01/2015; Sez. 1, n. 23426 del 15/04/2015) trattandosi tutte di decisioni che si basavano sulla eterogeneità dei due istituti per natura e funzione tale da escludere la riconducibilità dell’incidente di esecuzione alla categoria delle impugnazioni cui, invece, appartiene la rescissione del giudicato con la conseguente non operatività del disposto dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen..

In consapevole contrasto si era però posta la sentenza Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018 per la quale la conversione deve consentirsi quando sia dedotta la nullità della notificazione del decreto di citazione, tale da inficiare anche la sentenza di condanna, prospettandosi in tali termini una questione sulla corretta formazione e validità del titolo esecutivo evidenziandosi al contempo come, a fondamento di tale posizione, si sia argomentato che la già riconosciuta possibilità di operare la conversione tra un mezzo di impugnazione ed un atto che non ha strettamente tale natura, ma che può essere riqualificato in senso lato impugnatorio, si giustifica in nome del principio generale di conservazione degli atti giuridici e del principio del favor impugnationis, che riceve applicazione in tutti i gradi del processo ed anche nella fase cautelare.

Ebbene, a fronte di tale approdo ermeneutico, si osservava come tale secondo orientamento, assolutamente minoritario ed isolato nel panorama delle pronunce di legittimità, in primo luogo fosse stato già smentito da Sez. U. n. 10433/2019 che, sul piano generale, ha escluso ogni possibilità di riqualificare la richiesta di rescissione del giudicato come restituzione nel termine ed anche quale incidente di esecuzione tenuto conto del differente oggetto giuridico dei rimedi in questione.

In ogni caso, il principio affermato dalla sentenza n. 7818/2018 non appariva per le Sezioni Unite essere condivisibile perché omette di affrontare il nodo pregiudiziale della natura giuridica dell’incidente di esecuzione che risolve, definendola genericamente “impugnatoria in senso lato“, senza peraltro fornire giustificazioni valutabili sul piano dogmatico e normativo.

Per contro, è assolutamente pacifico in giurisprudenza, e condiviso da larga parte della dottrina, che i due rimedi differiscono per petitum e per effetti conseguibili nei termini che sono già stati illustrati in precedenza, il che esclude in radice che possa trovare applicazione il criterio conservativo dettato dall’art. 568, comma 5, cod. proc. pen..

L’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., infatti, stabilisce che «l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla parte che l’ha proposta. Se l’impugnazione è proposta a un giudice incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente» e non è dunque evocata in modo pertinente quale referente normativo perché espressiva non di una regola di applicazione generalizzabile per ogni istituto giuridico ma valevole per il solo settore delle impugnazioni in riferimento a provvedimento impugnabile e per rimediare ad eventuali errori di denominazione del nomen iuris in cui sia incorso il proponente che abbia manifestato la volontà di chiedere la rivalutazione e la modifica della decisione sfavorevole consentendo al giudice competente di operare la corretta qualificazione giuridica dell’atto.

Per tali ragioni, per le Sezioni Unite, il tema della riferibilità del principio di conservazione dell’atto giuridico, come sancito dall’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., afferente a rimedi non omogenei, quali appunto un mezzo di impugnazione e l’incidente di esecuzione, ha già ricevuto soluzioni contrarie da parte delle Sezioni Unite con le sentenze n. 27 del 24/11/1999, e n. 36848 del 17/07/2014, seguite da altre successive decisioni conformi (Sez. 3, n. 36372 del 18/06/2015; Sez. 4, n. 29246 del 18/06/2013; Sez. 3, n. 10409 del 16/01/2020).

Oltre a tali pronunce, inoltre, veniva richiamata la lezione interpretativa espressa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 45371 del 31/10/2001, citata anche dalla sentenza n. 7818/2019, ma senza rispettarne l’indirizzo nomofilattico, che, in un caso di appello proposto avverso sentenza inappellabile, ma soltanto ricorribile per cassazione, affermando in motivazione (punto 4) che «la regola di cui all’art. 568/5° c.p.p., la cui matrice va ricercata nel principio “di conservazione dei valori del mondo del diritto” dei quali fa parte l’impugnazione, attiene alla esatta “qualificazione” dell’atto che abbia esistenza giuridica come manifestazione di volontà avente i caratteri minimi necessari per essere riconoscibile in relazione al tipo funzionate e, solo in senso improprio, può parlarsi di “conversione”, come peraltro già chiarito da queste Sez. U. con la sentenza 24/11/99 ” omissis “» posto che la conversione in senso tecnico ricorre nei seguenti casi: proposizione, in riferimento al medesimo provvedimento giudiziale, di distinti rimedi giuridici di natura impugnatoria (art. 580 cod. proc. pen.) al fine di evitare decisioni contrastanti; rinuncia all’appello entro quindici giorni dalla notifica del ricorso per cassazione delle altre parti che hanno proposto tale impugnazione in caso di processo cumulativo (art. 569, comma 2, cod. proc. pen.) con conseguente conversione dell’appello in ricorso e possibilità di presentare entro i successivi quindici giorni motivi nuovi al fine di integrare l’appello con i requisiti propri del ricorso; conversione in appello del ricorso immediato per cassazione (art. 569, comma 3, cod. proc. pen.) nell’ipotesi che siano state dedotte censure, non rientranti tra i motivi deducibili col ricorso diretto, perché attinenti alla mancata assunzione di una prova decisiva o alla assenza o manifesta illogicità della motivazione.

La correttezza di tali rilievi, per la Suprema Corte, quindi, dimostra che è improprio parlare non solo di riqualificazione, ma anche di conversione del mezzo d’impugnazione al di fuori dei casi previsti in via tassativa dal legislatore, quando, come nella presente vicenda, non concorrano in via simultanea distinti rimedi impugnatori proposti per avversare uno stesso provvedimento giudiziale, ma sia stato esperito un unico strumento, potenzialmente riferibile a diversi modelli legali.

In continuità con le decisioni che alimentano l’orientamento dominante, veniva dunque affermato il seguente principio di diritto: «la richiesta formulata dal condannato perché sia dichiarata la non esecutività della sentenza ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. in ragione di nullità che abbiano riguardato la citazione a giudizio nel procedimento di cognizione, non è riqualificabile come richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.».

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto in essa, componendosi un pregresso contrasto giurisprudenziale, si chiarisce cosa è tenuto a fare il condannato con sentenza pronunciata in assenza che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili, derivanti dall’omessa citazione in giudizio propria e/o del proprio difensore nel procedimento di cognizione.

Difatti, in tale sentenza, è formulato l’arresto giurisprudenziale secondo il quale il condannato con sentenza pronunciata in assenza, che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili derivanti dall’omessa citazione in giudizio propria e/o del proprio difensore nel procedimento di cognizione, non può adire il giudice dell’esecuzione per richiedere, ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. in relazione ai detti vizi, la declaratoria della illegittimità del titolo di condanna e la sua non esecutività mentre può, invece, proporre richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen. allegando l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che possa essere derivata dalle indicate nullità.

Di conseguenza, ove si voglia proporre una eccezione di questo genere, è consentito chiedere la rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen. allegando l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che possa essere derivata dalle indicate nullità mentre non è permesso adire il giudice dell’esecuzione per richiedere ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. in relazione ai detti vizi, la declaratoria della illegittimità del titolo di condanna e la sua non esecutività.

Tale provvedimento, dunque, deve essere preso nella dovuta considerazione dato che esso indica quale strumento processuale deve essere attivato ove si voglia proporre una eccezione di questo genere.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta decisione, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, di conseguenza, non può che essere positivo.

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