(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 572)
Il fatto
La Corte di Appello di Palermo integralmente confermava la condanna alla pena di due anni e sei mesi di reclusione inflitta, all’esito del procedimento di primo grado svoltosi con il rito abbreviato, dal Tribunale della stessa città ad un imputato ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 572, 609 bis e 56 c.p., in relazione a due episodi di violenza sessuale tentata e artt. 582 e 585 c.p., commessi ai danni della propria convivente.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato adducendo i seguenti motivi: 1) vizio di violazione di legge riferito all’art. 572 c.p. e vizio di illogicità motivazionale mancando l’elemento costitutivo dell’abitualità della condotta atteso che la convivenza durata con la p.o. appena dieci giorni, all’inizio della quale, a detta di costei, l’imputato si sarebbe mostrato gentile e premuroso, non consentiva di ravvisare, sia pur senza contestare, la riconducibilità del loro rapporto ad un’unione more uxorio, il regime di vita vessatorio e dunque la serialità delle condotte maltrattanti richiesto ai fini del perfezionamento della fattispecie criminosa difettando comunque l’elemento temporale immanente allo stesso concetto di abitualità; 2) mancanza integrale di motivazione in ordine al reato di violenza sessuale non essendo sul punto neppure richiamata per relationem la sentenza di primo grado laddove il relativo capo aveva costituito oggetto dell’atto di appello con il quale era stata contestata l’attendibilità della vittima alla luce della mancanza di riscontri alla sua deposizione e dei rapporti altamente conflittuali con il compagno; in particolare, ad avviso del ricorrente, la decisione del Tribunale era stata censurata in ordine alla circostanza che i messaggi inviati via cellulare dalla vittima al padre avessero potuto costituire conferma della versione fornita dalla donna, non avendo alcun collegamento con le asserite violenze sessuali, nè tanto meno le deposizioni rese dal genitore e dalla madre adottiva.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il primo motivo veniva ritenuto fondato per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal proposito che, come già affermato dalla Cassazione, i maltrattamenti in famiglia integrano un’ipotesi di reato necessariamente abituale che può caratterizzarsi anche per la contemporanea sussistenza di fatti commissivi e omissivi i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo, perfezionandosi allorché si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità (Sez. 6, n. 34480 del 31/05/2012 – dep. 10/09/2012, D. L., Rv. 253568 che ha annullato la sentenza di secondo grado nella parte in cui aveva ritenuto la continuazione tra condotte commissive e omissive evitando di considerare il carattere unitario dell’azione di maltrattamenti).
Tal che ne deriva che, ai fini del perfezionamento del reato de quo, si rende necessario sia la presenza di ripetuti atti vessatori, anche di natura diversa, ma comunque lesivi dell’integrità fisica o morale della persona tali da rendere dolorosa la convivenza, sia la condizione di soggezione psicologica della p.o. che costituisce la naturale ricaduta di un regime di sistematica sopraffazione della sua persona posto che quello che consente di ritenere integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., distinguendolo dai singoli delitti di lesioni, ingiurie o minacce di cui eventualmente si compone è proprio l’abitualità intesa come sistematicità delle suddette condotte cui necessariamente corrisponde lo stato di sofferenza fisica o morale cui il soggetto passivo in quanto legato all’aggressore dal vincolo familiare o parafamiliare implicante legami di natura affettiva, economica e solidale ben difficili da recidere, è naturalmente esposto (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018; Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012).
In effetti, se è vero che ai fini della configurabilità dell’elemento materiale del reato non è necessario che gli atti cd. vessatori vengano posti in essere per un tempo prolungato essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un periodo cronologicamente limitato, è pur sempre imprescindibile tuttavia che si concretizzi l’abitualità della condotta e che ad essa corrisponda la condizione di soggezione della vittima rispetto a chi, proprio in ragione della relazione sentimentale o del legame parentale o comunque di una stretta comunanza di vita assimilabile ad un consorzio familiare, si ponga rispetto ad essa si ponga in posizione di supremazia.
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini osservavano come su tale punto – che aveva costituito oggetto di specifico motivo di appello avendo la difesa lamentato la mancanza di un regime di vita abitualmente vessatorio in ragione del fatto che il rapporto di convivenza, iniziato appena dieci giorni prima ,non avesse nella parte iniziale presentato, a detta della stessa vittima, episodi lesivi essendosi il prevenuto mostrato “premuroso e gentile” nei confronti di costei – la sentenza impugnata, a loro avviso, restava silente omettendo di dare le necessarie risposte.
Si imponeva pertanto per la Suprema Corte, limitatamente al capo A) dell’imputazione, l’annullamento della pronuncia in esame con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo che avrebbe dovuto, in ragione dei sovraesposti rilievi, procedere a nuovo esame sulla configurabilità del reato di maltrattamenti nei confronti della convivente.
All’opposto, il secondo motivo non veniva, invece, ritenuto meritevole di accoglimento.
Difatti, una volta fatto presente che l’oggetto delle doglianze esposte nell’atto di impugnazione indirizzato alla Corte di appello era costituito dalla valutazione di credibilità della vittima alla luce dei rapporti gravemente conflittuali correnti con l’imputato che minavano la genuinità del suo racconto, i giudici di piazza Cavour ritenevano che la sentenza impugnata, sebbene non esaminasse singolarmente i due capi di imputazione contestati dall’appellante, affrontava ciò nondimeno compiutamente – passando in rassegna le plurime minacce che precedevano o accompagnavano, secondo quanto emerso dalle s.i.t. rese da costei alla PG, la richiesta di congiunzioni sessuali in cui si estrinsecavano per lo più le condotte vessatorie dell’imputato – la questione dell’attendibilità della p.o..
Con puntuale motivazione, sempre secondo il Supremo Consesso, la Corte palermitana sottolineava come il racconto reso dalla donna dovesse ritenersi intrinsecamente genuino alla luce sia della sua mancata costituzione come parte civile tale da fugare ogni dubbio su possibili rivendicazioni di natura economica nei confronti del prevenuto, sia della linearità, della spontaneità, della ripetitività di singoli particolari e delle stesse parziali ammissioni dell’imputato nonché estrinsecamente credibile.
Non risultando sul punto, secondo la Cassazione, la sentenza impugnata passibile di alcuna censura, il motivo in esame veniva rigettato.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si spiega cosa occorre ai fini del perfezionamento del reato di maltrattamenti in famiglia.
Difatti, citandosi giurisprudenza conforme, in siffatta pronuncia, una volta dedotto che i maltrattamenti in famiglia integrano un’ipotesi di reato necessariamente abituale che può caratterizzarsi anche per la contemporanea sussistenza di fatti commissivi e omissivi i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo, perfezionandosi allorché si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità, si afferma che, ai fini del perfezionamento del reato de quo, si rende necessario accertare sia la presenza di ripetuti atti vessatori, anche di natura diversa, ma comunque lesivi dell’integrità fisica o morale della persona tali da rendere dolorosa la convivenza, sia la condizione di soggezione psicologica della p.o. che costituisce la naturale ricaduta di un regime di sistematica sopraffazione della sua persona posto che quello che consente di ritenere integrato il reato di cui all’art. 572 c.p., distinguendolo dai singoli delitti di lesioni, ingiurie o minacce di cui eventualmente si compone, è proprio l’abitualità intesa come sistematicità delle suddette condotte cui necessariamente corrisponde lo stato di sofferenza fisica o morale cui il soggetto passivo in quanto legato all’aggressore dal vincolo familiare o parafamiliare implicante legami di natura affettiva, economica e solidale ben difficili da recidere dal momento che, se è vero che ai fini della configurabilità dell’elemento materiale del reato non è necessario che gli atti cd. vessatori vengano posti in essere per un tempo prolungato essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un periodo cronologicamente limitato, è pur sempre imprescindibile tuttavia che si concretizzi l’abitualità della condotta e che ad essa corrisponda la condizione di soggezione della vittima rispetto a chi, proprio in ragione della relazione sentimentale o del legame parentale o comunque di una stretta comunanza di vita assimilabile ad un consorzio familiare, si ponga rispetto ad essa si ponga in posizione di supremazia.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione per verificare la sussistenza di questo delitto.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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