(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 165)
Il fatto
La Corte di appello di Firenze, in funzione di giudice dell’esecuzione, revocava – su richiesta del Procuratore generale – la sospensione condizionale della pena concessa all’imputato con la sentenza del GUP del Tribunale di Livorno e riformata dalla Corte di appello di Firenze.
Ciò posto, il beneficio ex art. 163 cod. pen. era stato condizionato all’obbligo di prestare attività lavorativa non retribuita a favore della collettività per un periodo di 6 mesi da iniziare entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza.
Il giudice dell’esecuzione, a sua volta, aveva rilevato che il condannato aveva sospeso anticipatamente lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità e, pertanto, non potendo costui beneficiare di un ulteriore termine per iniziare un nuovo periodo di attività essendone decaduto e ritenendo che i motivi della interruzione del lavoro di pubblica utilità non costituiscono causa di forza maggiore valendo, invece, come violazione dei relativi obblighi, il giudice dell’esecuzione aveva revocato il beneficio condizionato ai sensi dell’art. 168, n. 1 cod. pen..
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore del condannato, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., deducendo violazione di legge con riferimento agli artt. 165 e 168 n. 1 cod. pen. e correlato vizio di motivazione anche con riferimento all’assoluta mancanza di valutazione del periodo di lavoro socialmente utile svolto in precedenza.
Il ricorrente, in particolare, denunciava come il giudice dell’esecuzione avesse trascurato la memoria difensiva nella quale si illustrava l’impossibilità del condannato di completare il periodo di lavoro di pubblica utilità in quanto nel frattempo era stato assunto con regolare contratto in una località molto distante dal luogo di svolgimento dell’attività non retribuita.
Tale documentata circostanza, tra l’altro, ad avviso del ricorrente, non era stata oggetto di adeguata valutazione e di verifica dell’esigibilità della prestazione dedotta nella condizione del beneficio ex art. 163 cod. pen. così come nemmeno si era considerato che l’imputato aveva anche reperito un nuovo ente assistenziale presso il quale avrebbe potuto ricominciare il lavoro di pubblica utilità, anche senza computare il periodo di due mesi già svolto, essendo peraltro ancora in termini a quell’epoca, non essendo ancora decorso il termine di un anno dal passaggio in giudicato della sentenza concessiva del beneficio condizionato.
In subordine, il ricorrente segnalava come, nel caso in esame, fosse già stata espletata una consistente parte del lavoro di pubblica utilità sicché il giudice dell’esecuzione – nel disporre la revoca del beneficio – avrebbe dovuto indicare quanta afflittività fosse stata concretamente già sopportata dal condannato al fine di detrarla dalla pena inflitta con la sentenza di condanna, come da principi giurisprudenziali affermati dalla Corte di legittimità, mentre, secondo la difesa, tale necessaria statuizione era completamente assente nell’impugnata ordinanza.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva reputato fondato per le seguenti ragioni.
Si osserva prima di tutto che il provvedimento impugnato, pur dando atto con succinta motivazione che il reperimento di un impiego retribuito non costituisce un valido motivo di interruzione del lavoro di pubblica utilità, non conteneva alcuna valutazione in ordine al periodo di lavoro già svolto, né considerava in alcun modo la prospettata eventualità di proseguire o di iniziare ex novo un’attività di pubblica utilità presso un altro ente assistenziale peraltro già individuato dall’interessato.
Al riguardo, si faceva presente come l’astratto richiamo alla decadenza dal beneficio del termine perché già consumato risultasse essere eccentrico rispetto alla materia in questione avendo la Corte di Cassazione affermato che, ai fini della revoca della sospensione condizionale della pena per inadempimento dell’obbligo di prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, il giudice dell’esecuzione non può limitarsi alla semplice presa d’atto dell’inadempienza del condannato ma deve anche procedere a una verifica dell’esigibilità della prestazione stessa e, una volta compiuta in termini positivi, deve valutare il grado di collaborazione prestato dal condannato per soddisfare l’obbligo cui sia stato subordinato il beneficio (Sez. 1, n. 6314 del 10/12/2009 dep. 2010).
Orbene, in tale prospettiva, ad avviso della Suprema Corte, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto valutare l’opzione alternativa proposta dall’imputato per lo svolgimento della residua parte di lavoro di pubblica utilità presso altro ente già reperito per cui il condannato era ancora in termini essendo stato prescritto in sede di cognizione che il lavoro avrebbe dovuto essere iniziato entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza concessiva del beneficio condizionato e, nel caso avesse ritenuto che comunque tale possibilità non era coerente con la condizione dedotta, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto considerare il parziale svolgimento dell’obbligo lavorativo onde valutarne il grado di afflittività già concretamente indotto ed eventualmente detrarlo dalla pena inflitta con la sentenza di condanna.
Sul punto, si rilevava come vi sia un criterio legale di ragguaglio dell’obbligo di svolgere lavoro di pubblica utilità, come quello previsto dall’art. 57 L. n. 689 del 1981 per la conversione della semidetenzione e della libertà controllata ossia il criterio legale disciplinato dall’art. 58, comma 2, D. Lgs. n. 274 del 2000, ma, secondo il Supremo Consesso, tale disposizione non si applicava al caso di specie in cui il lavoro di pubblica utilità non costituiva sanzione bensì condizione al cui adempimento a cui era subordinato il beneficio ex art. 163 cod. pen. visto che l’art. 18 bis disp. att. cod. pen. richiama gli artt. 44, 54 (commi 2, 3, 4 e 6) e l’art. 59 D. Lgs. n. 274 del 2000 ma non l’art. 58.
A fronte di ciò, gli Ermellini denotavano come la revoca del beneficio ex art. 163 cod. pen. per incompleto svolgimento del lavoro di pubblica utilità al quale era condizionato non sia vincolata ad alcun criterio di ragguaglio predeterminato ma è conforme ad una interpretazione costituzionalmente orientata il recupero dell’adempimento parziale della prestazione secondo valutazioni demandate al giudice dell’esecuzione il quale ne soppesa il carico e ne verifica l’incidenza in termini di afflittività e potenzialità rieducativa.
Ciò detto, si evidenziava a tal riguardo come la materia in esame sia stata analiticamente vagliata dalla stessa Cassazione e, in particolare, nella sentenza n. 32649 del 16/06/2009, che ha affermato che la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, cui può essere subordinata in mancanza di opposizione del condannato la sospensione condizionale della pena, pur non rivestendo natura di sanzione penale, ha contenuto afflittivo e, pertanto, nel caso di revoca del beneficio per il parziale inadempimento della prestazione, occorre tener conto nella determinazione della pena da scontare delle prestazioni adempiute e delle restrizioni subite dal condannato con un giudizio analogo a quello svolto per l’affidamento in prova al servizio sociale o la liberazione condizionale.
In detta pronuncia, inoltre, è stato osservato che la novella (L. 11/6/2004 n. 145), la quale ha introdotto la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività di pubblica utilità, nulla ha previsto per l’ipotesi che il condannato svolga solo in parte tale attività sopportando un certo carico afflittivo e poi smetta così da non potersi dire che la prestazione sia stata interamente adempiuta dato che l’art. 168 n. 1 cod. pen. continua a prevedere soltanto che la sospensione condizionale è revocata se il condannato non adempie agli obblighi impostigli.
Ebbene, in relazione a tale vulnus normativo, i giudici di legittimità ordinaria ritenevano come dovesse ritenersi demandato all’interprete, guidato dai principi costituzionali, armonizzare la nuova prestazione condizionante il beneficio ex art. 163 cod. pen. con la disciplina della revoca del medesimo dovendosi considerare che la rigida regressività dettata dall’art. 168 n. 1 cod. pen. si giustificava quando la realizzazione dell’evento posto quale condizione era interamente riportata ad autonome e indipendenti determinazioni del soggetto mentre, invece, la nuova “obbligazione“, cui può essere subordinata la sospensione condizionale, ha radicalmente inciso su caratteristiche che si ritenevano connaturate all’istituto.
La subordinazione della sospensione alla prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività, invero, impone al condannato un facere successivo che comporta a sua volta significative limitazioni all’esercizio di garanzie costituzionali da svolgersi secondo modalità e tempi imposti dal giudice e suscettibili di controllo e verifica (art. 59 D.Lgs. n. 274 del 2000, richiamato dall’art. 18 bis disp. att. c.p.) trovando giustificazione nella condanna e nella non opposizione del condannato, che condiziona il giudizio di meritevolezza del beneficio.
In particolare, nel caso di revoca della sospensione condizionale della pena subordinata allo svolgimento di prestazioni lavorative gratuite in favore della collettività a causa del parziale inadempimento di dette prestazioni, ove nella determinazione della pena da scontare non potessero in alcun modo incidere le prestazioni adempiute e le restrizioni subite, ad avviso dei giudici di Piazza Cavour, si avrebbe un’aggiunta di carico afflittivo che, in quanto determinato da comportamenti che non costituiscono di per sè reato, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 13, 36 e 27 Cost..
Il problema, ad avviso della Cassazione, dunque, nasce dalla constatazione che le limitazioni, che conseguono alla sottoposizione a lavoro non remunerato a favore della collettività, sono anch’esse afflittive e rieducative sicché, in caso di revoca della sospensione perché l’attività è stata prestata in modo incompleto o non soddisfacente, va comunque stabilito quanta afflittività sia stata, in concreto, già “sopportata” dal condannato al fine di detrarla dalla pena inflitta con la sentenza di condanna e quindi il silenzio della disciplina positiva, con riguardo alla specifica ipotesi dell’inadempimento parziale, come visto anche prima, consente la sua integrazione sulla scorta dei principi costituzionali richiamati.
Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, affermava come dovesse essere annullata l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Firenze quale giudice dell’esecuzione al quale era demandato il compito di attenersi alle indicazioni sopra illustrate, sia nel caso in cui dovesse ritenere di procedere alla revoca del beneficio ex art. 163 cod. pen., sia che dovesse ritenere di concedere all’imputato una ulteriore possibilità di completamento della condizione imposta fermo restando che, ove venisse confermata la revoca della sospensione condizionale della pena, sarebbe necessario considerare esattamente le prestazioni già effettuate e la loro incidenza sulla durata legale dell’attività lavorativa imposta valutando se il condannato ha in concreto patito un carico di afflizione aggiuntiva, determinandone la quantità e detraendola dalla pena eventualmente da espiare.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui, una volta fatto presente che la novella (L. 11/6/2004 n. 145), la quale ha introdotto la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività di pubblica utilità, nulla ha previsto per l’ipotesi che il condannato svolga solo in parte tale attività sopportando un certo carico afflittivo e poi smetta così da non potersi dire che la prestazione sia stata interamente adempiuta, si affronta questa tematica in chiave ermeneutica attraverso una lettura costituzionalmente orientata della revoca del beneficio ex art. 163 cod. pen. per incompleto svolgimento del lavoro di pubblica utilità al quale è condizionato nel senso che si deve tener conto nella determinazione della pena da scontare delle prestazioni adempiute e delle restrizioni subite dal condannato con un giudizio analogo a quello svolto per l’affidamento in prova al servizio sociale o la liberazione condizionale.
Difatti, come già evidenziato in precedenza, per la Suprema Corte, ove nella determinazione della pena da scontare non potessero in alcun modo incidere le prestazioni adempiute e le restrizioni subite, si avrebbe un’aggiunta di carico afflittivo che, in quanto determinato da comportamenti che non costituiscono di per sè reato, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 13, 36 e 27 Cost. e, di conseguenza, in caso di revoca della sospensione perché l’attività è stata prestata in modo incompleto o non soddisfacente, va comunque stabilito quanta afflittività sia stata, in concreto, già “sopportata” dal condannato al fine di detrarla dalla pena inflitta con la sentenza di condanna.
Fermo restando come sarebbe auspicabile che intervenisse il legislatore su tale questione, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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