Introduzione
Il Codice Civile all’articolo 2103 c.c., modificato dall’art. 13 Legge n.300/70 (cd.Statuto dei lavoratori), disciplina il cosiddetto ius variandi, vale a dire il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del proprio dipendente. Recita, infatti, la norma :”” 1. il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione delle retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diventa definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. 2. Ogni patto contrario è nullo”.
Il primo periodo dell’art. 2103 c.c., nel disporre che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sancisce il cd. principio della contrattualità delle mansioni, in forza del quale la prestazione lavorativa deve essere convenuta dalle parti al momento della instaurazione del rapporto di lavoro e non già in un momento successivo.
Tale principio si arricchisce di un obbligo di informazione gravante sul datore di lavoro e disciplinato dall’art. 96 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il quale prevede l’onere a carico del datore di lavoro di comunicare al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto.
Attribuzione di mansioni equivalenti
La seconda parte dell’art. 2103 c.c. riguarda la facoltà del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni equivalenti alle ultime svolte (si ricorda che, secondo l’orientamento prevalente, queste sono costituite da quell’insieme di compiti inizialmente convenuti), secondo il cosiddetto jus variandi orizzontale.
In altre parole, con la modifica operata dall’art. 13 della Legge n.300/70, l’equivalenza viene riferita ad un elemento oggettivo e determinato quale, appunto, la mansione. Non vi è, quindi, più alcun riferimento al generico ed ampio concetto di “posizione sostanziale” considerata precedentemente: di conseguenza, si ha equivalenza di mansioni quando i nuovi compiti assegnati consentano al prestatore di utilizzare e al contempo accrescere la professionalità acquisita.
Secondo autorevole dottrina, per l’esercizio dello jus variandi orizzontale non sarebbe necessario il consenso del lavoratore, dal momento che l’esercizio di mansioni equivalenti non comporta, ovviamente, alcun pregiudizio di carattere professionale.
Diversa è, invece, l’ipotesi in cui si adibisca il prestatore di lavoro a mansioni superiori. Tale ipotesi, comportando un cambiamento dell’oggetto della prestazione prevista nel contratto, necessita dell’espresso consenso delle parti.
In altre parole, seguendo questa impostazione sarebbe legittimo il dissenso del prestatore di lavoro qualora adibito a mansioni superiori con manifestazione di volontà unilaterale del datore di lavoro. Di contro, costituirebbe un illecito disciplinare il rifiuto del prestatore di svolgere mansioni equivalenti.
La retribuzione è riducibile?
L’articolo 2103 c.c. in esame prevede il principio della irriducibilità della retribuzione secondo cui il mutamento delle mansioni del lavoratore non deve comportare una diminuzione del livello retributivo. In particolare, fanno parte della retribuzione irriducibile tutte quelle erogazioni che vengono corrisposte per le specifiche capacità del lavoratore (ad esempio conoscenze tecniche) in quanto le stesse permangono anche nell’ipotesi di un mutamento dei compiti e delle attività lavorative.
Peraltro, come appare evidente, questa garanzia non si estende alle indennità erogate in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa poiché le stesse, essendo corrisposte soltanto per compensare particolari disagi o difficoltà del lavoratore, possono essere soppresse quando vengano meno le speciali situazioni che le hanno generate.
Questione di rilevante importanza attiene alla validità o meno dei patti con cui le parti del rapporto di lavoro intendano derogare a questo principio di irriducibilità della retribuzione. Secondo la giurisprudenza prevalente tali patti sono viziati di nullità assoluta ai sensi del 1° comma dell’art. 2113 c.c., in materia di rinunzie e transazioni, in quanto l’irriducibilità della prestazione sarebbe un diritto indisponibile del lavoratore (secondo la norma, infatti, “le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art.409 del codice di procedura civile, non sono valide”).
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Attribuzione di mansioni superiori
Lo jus variandi verticale, noto anche come mobilità verticale, può quindi essere esercitato dal datore solo con il consenso esplicito o tacito del prestatore in quanto non sempre lo svolgimento di mansioni superiori (intendendosi per tali quelle che sono inquadrate dalla classificazione contrattuale in un livello o categoria più elevati) risulta essere più vantaggioso.
In particolare, l’art. 2103 c.c. prevede due distinte ipotesi di mobilità verticale del prestatore:
a. l’assegnazione temporanea a mansioni superiori;
b. la cosiddetta promozione automatica.
Promozione automatica
Si realizza l’ipotesi di promozione automatica quando il lavoratore abbia di fatto esercitato mansioni superiori per un periodo di tre mesi ovvero per uno più breve previsto dai contratti collettivi; in questo caso il trascorrere del tempo comporta ex lege una modificazione della prestazione lavorativa.
La ratio di questa disposizione va individuata nella volontà del legislatore di penalizzare il datore di lavoro in quei casi in cui ricorra eccessivamente all’utilizzo del lavoratore per l’esercizio di mansioni superiori.
Mobilità intra-aziendale
L’art. 2103 c.c., così come modificato dallo Statuto dei Lavoratori, disciplina anche la cosiddetta mobilità intra-aziendale ovvero l’esercizio del potere direttivo dell’imprenditore di trasferire il lavoratore da una unità produttiva ad un’altra solo ove sussistano “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza si sono a lungo interrogate se ai trasferimenti collettivi si potesse applicare la disciplina prevista dall’art. 2103 c.c.. La risposta cui sono pervenuti è stata negativa.
Trasferimento disciplinare
Un’ipotesi peculiare di trasferimento è senza dubbio il cd. “trasferimento disciplinare”. Esso consiste in una sanzione disciplinare che il datore di lavoro può irrogare al prestatore in quei casi in cui il comportamento tenuto dal dipendente crei disordine organizzativo, tecnico o produttivo. In merito, la giurisprudenza di legittimità ritiene che il comportamento del dipendente possa configurare, al tempo stesso, un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare nonché una delle ragioni tecniche organizzative e produttive che consentano, a norma dell’art. 2103 c.c., il trasferimento del dipendente.
Dequalificazione del lavoratore
Per quanto riguarda la dequalificazione del prestatore di lavoro è opportuno evidenziare che essa si realizza quando le mansioni assegnate al lavoratore determinano una sottoutilizzazione del suo patrimonio professionale, vale a dire quando il lavoratore venga adibito a funzioni che non gli consentano di realizzare un progressivo sviluppo professionale.
Tuttavia, il principio del divieto di dequalificazione può subire alcune deroghe quando il diritto, o meglio, l’esigenza alla conservazione del posto di lavoro entri in conflitto con il diritto del lavoratore a non essere adibito a mansioni inferiori. In quest’ottica, alcune leggi speciali prevedono la possibilità del datore di lavoro di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni inferiori. Più precisamente:
l’art. 7 del testo unico sui congedi parentali previsto dal D.lgs. n.151/2001 impone al datore di lavoro di adibire le lavoratrici – in gestazione e fino a sette mesi dopo il parto – a mansioni non pregiudizievoli della salute anche se tali mansioni siano inferiori rispetto a quelle di assunzione;
la Legge n. 223/1991 in materia di cassa integrazione, mobilità, e altre disposizioni in materia di mercato del lavoro;
la Legge n. 68/1999 sui lavoratori disabili;
l’art. 8 del D.lgs, n. 277/1991 che stabilisce espressamente l’obbligo per il datore di lavoro di assegnare il proprio dipendente – se possibile – ad altro incarico nell’ambito della stessa azienda, con conservazione della retribuzione e della qualifica originaria qualora sia adibito a mansioni inferiori (quando, ad esempio, per motivi sanitari connessi al lavoro, sentito il parere conforme del medico competente, sia temporaneamente allontanato da un’attività comportante l’esposizione ad un agente fisico, chimico e biologico).
Viene così superata l’interpretazione rigida e formalistica dell’art. 2103 c.c. in quanto – in questi casi – si ritiene prevalente l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro rispetto alla salvaguardia dell’interesse al mantenimento dello status professionale raggiunto.
Dequalificazione della lavoratrice-madre
Oggi, con il testo unico sui congedi parentali, approvato con il Dlgs. 26 marzo 2001 n. 151, il legislatore ha previsto una disciplina organica per la tutela della paternità e della maternità. In particolare, parlando dello ius variandi, l’art. 7 stabilisce che, quando il datore di lavoro adibisca la lavoratrice ad altre mansioni equivalenti o superiori a quelle di assunzione, si applicherà la disciplina prevista dall’art. 2103 c.c..
Di contro, qualora la lavoratrice venga adibita a svolgere mansioni inferiori a quelle abituali, la stessa conserverà la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte e la qualifica di assunzione.
In conclusione, con l’art. 7 del T.U. la dequalificazione della lavoratrice madre è consentita solo in quanto sia preordinata alla tutela del diritto alla salute della madre e del figlio, tutela costituzionalmente garantita dall’art. 32 Cost.
Accordi sindacali
Anche l’articolo 4, comma 11 della Legge 23 luglio 1991 n. 223 pone una deroga al divieto di ius variandi in peius, in quanto stabilisce che gli accordi sindacali, stipulati nel corso della procedura di mobilità, quando prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono derogare al secondo comma dell’art. 2103 c.c.; la ratio di questo articolo va rinvenuta nella finalità di operare un compromesso tra le esigenze dell’impresa e la salvaguardia del posto di lavoro.
Tuttavia, il lavoratore potrà certamente rifiutare le deroghe all’art. 2103 c.c. pattuite dalle organizzazioni sindacali e dal datore di lavoro. In tal caso, però, dovrà accettare il rischio di perdere il posto di lavoro.
E’ bene, inoltre, precisare che tali accordi hanno un’efficacia erga omnes nel senso che sono pienamente validi anche per i lavoratori non iscritti al sindacato stipulante. Ciò in quanto tali sindacati operano in virtù di un potere riconosciutogli dalla legge (art. 4) e non, invece, in qualità di organi rappresentativi degli iscritti.
Infine, per quanto riguarda l’aspetto retributivo, poichè l’art. 4 , comma 11 della Legge n. 223/1991 non si esprime, si ritiene che, alla luce della ratio della norma, sia lecito operare una modifica della retribuzione in proporzione alle nuove mansioni, anche inferiori, assegnate al lavoratore.
La Legge n. 68/1999 costituisce una importante riforma del così detto collocamento obbligatorio in quanto, ha modificato la disciplina del diritto al lavoro dei disabili abrogando la precedente disciplina contenuta nella Legge n. 482/68.
La più importante novità operata da questa legge è senza dubbio il c.d. “inserimento mirato” che viene definito all’art. 2 come l’insieme di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative ed inserirle nel posto adatto, attraverso analisi del posto di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzione dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione. Secondo l’art. 4, quarto comma, della legge n.69/1999 i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni a causa di infortunio o malattia non possono essere computati nella quota di riserva di cui all’art.3 (a condizione che abbiano subito una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60 per cento o, comunque, se siano divenuti inabili a causa dell’inosservanza da parte del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro).
Per i predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui gli stessi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori sussiste per tali soggetti il diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Qualora per i predetti lavoratori non sia possibile l’assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi vengono avviati, dagli uffici competenti di cui all’art. 6, comma 1, presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative, senza inserimento nella graduatoria di cui all’art.8.
Alcune considerazioni
In conclusione, il divieto di demansionamento previsto dall’art. 2103 c.c. deve cedere il passo alla tutela del posto di lavoro nelle ipotesi in cui il legislatore intenda perseguire la realizzazione dei principi costituzionali di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 cost.), nonché promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro riconosciuto a tutti i cittadini (art. 4, comma 1 Cost.).
Al di fuori delle deroghe espressamente previste dalla legge, anche la giurisprudenza più recente ha ammesso la modificabilità in peius delle mansioni.
Comune denominatore delle decisioni giurisprudenziali va ravvisato nell’indirizzo interpretativo della dottrina secondo cui i diritti derivanti dall’art. 2103 c.c. devono trovare un bilanciamento con altri diritti costituzionalmente garantiti.
Pertanto, nel caso in cui la fattispecie concreta non rientri nelle ipotesi derogatorie espressamente previste dal legislatore, è consentito al datore di lavoro adibire il lavoratore a mansioni inferiori quando ricorrano due presupposti:
uno oggettivo che attiene alla tutela degli stessi beni-interessi tutelati dalle norme speciali quali la salute della lavoratrice madre (art. 7 del testo unico sui congedi parentali previsto dal D.lgs. n.151/2001), il diritto alla conservazione del posto di lavoro per il lavoratore inabile (art. 4, quarto comma, della Legge n.69/1999) o meno (art. 4, comma 11, della Legge 23 luglio 1991 n. 223);
uno soggettivo, consistente nel consenso del prestatore di lavoro.
In ultima analisi, il secondo comma dell’art. 2103 c.c. prevede la nullità di ogni accordo tra datore di lavoro e prestatore di lavoro subordinato diretto a derogare alla disciplina sulle mansioni del lavoratore prevista dal Codice Civile.
Questa previsione costituisce una novità rispetto alla formulazione originaria della norma. Infatti, con l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970), che ha modificato l’art. 2103 c.c. introducendo la nullità di ogni patto ad esso contrario, il legislatore ha voluto sancire l’indisponibilità della posizione professionale del lavoratore.
Secondo una impostazione restrittiva di una parte della dottrina e della giurisprudenza il legislatore avrebbe voluto operare una scelta a favore di uno strumento rigido di tutela e pertanto sarebbero nulli i patti modificativi in peius, anche se conclusi per soddisfare un interesse del prestatore di lavoro. Il legislatore ritiene, quindi, che il consenso del lavoratore non sarebbe sufficiente a giustificare la deroga all’art. 2103 c.c.
Secondo un altro orientamento, invece, sarebbero nulli solamente quei patti volti a soddisfare un interesse del datore di lavoro, mentre sarebbero pienamente validi quelli che, al contrario, siano stati conclusi nell’esclusivo interesse del prestatore di lavoro (in senso conforme si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n.266/84). Ciò si giustifica in quanto tali accordi, conclusi nell’interesse esclusivo del lavoratore, fanno presumere ritenere validamente prestato il consenso di quest’ultimo. Dunque, sarebbero nulli quei patti che disciplinano l’esercizio del potere unilaterale del datore di lavoro di modificare le mansioni, sottraendo così tale potere ai limiti legali previsti dall’art. 2103 c.c.. Di contro, sarebbero pienamente validi quegli accordi diretti a soddisfare un interesse particolarmente qualificato del prestatore di lavoro (come appunto quello alla conservazione del posto di lavoro), nei casi in cui vi sia una situazione che non presenti altra via di uscita, ad esempio un infortunio invalidante, che ponga, come unica alternativa al licenziamento, la modifica in peius delle mansioni del lavoratore.
Conclusioni
In conclusione, alla luce dell’evoluzione legislativa e degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali si ritiene che la sanzione della nullità, ex art.2103, secondo comma, del codice civile, prevista per gli accordi tesi a derogare alla disciplina dello ius variandi, abbia perso la sua assolutezza e rigidità. Infatti, si è giunti ad effettuare una interpretazione evolutiva della norma di modo che la sanzione della nullità vada ad incidere esclusivamente sui patti derogatori che ledano gli interessi dei lavoratori. Quindi, sarebbe più in linea con l’evoluzione normativa e giurisprudenziale accogliere le spinte riformiste e ritenere ammissibili le deroghe all’art. 2103 c.c., anche al di fuori delle ampie ipotesi espressamente previste dal legislatore, ma ciò solo quando sussistano due condizioni: il consenso del lavoratore e l’interesse alla conservazione del posto di lavoro.
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