Il referendum costituzionale
Solamente pochi mesi fa, gli italiani si sono espressi favorevolmente al taglio dei parlamentari, segno di un paese che vuole imboccare la strada del cambiamento.
Questo referendum, però, se non seguito da un intervento normativo organico rischia di rimanere
un’insignificante goccia nell’oceano.
Ci sono moltissimi temi di carattere costituzionale, anche più importanti del numero di parlamentari, che si intrecciano tra di loro e che andrebbero discussi.
Il presente articolo si propone di illustrare, seppur brevemente, alcuni aspetti di un impianto costituzionale che oggi non è garantista come quando è stato studiato e approvato dai padri costituenti, oltre settant’anni fa.
Sarebbe il caso si iniziasse a discutere, finalmente, di quanto realmente blocca il processo democratico in Italia da diversi anni.
Il potere legislativo esercitato dal governo
Tutte le democrazie moderne si fondano su un principio fondamentale, quello della separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
Il primo a teorizzare la separazione in discorso, nel lontano 1748, è stato l’illuminista francese Montesquieu, il quale sosteneva che ogni funzione pubblica dovesse essere esercitata da un potere distinto, per evitare l’instaurarsi di una tirannia che si sarebbe realizzata con la concentrazione dei poteri in un unico soggetto.
Vivendo anche noi in un paese democratico, il nostro testo costituzionale individua tre distinti organi deputati ad esercitare altrettanti poteri:
- Il Parlamento, che esercita il potere legislativo;
- Il Governo, in capo al quale è demandato l’esercizio del potere esecutivo;
- La Magistratura, a cui è attribuito il potere giudiziario.
Esiste però una questione che passa sovente in sordina: al di là di quelle che sono le regole costituzionali, da molto tempo a questa parte la maggioranza delle leggi vigenti in Italia non sono frutto del lavoro del Parlamento, ma sono di emanazione diretta del Governo.
Tradotto in termini diversi, da molti anni il nostro Parlamento non svolge più il suo lavoro di fonte della legge (o comunque lo fa in misura decisamente ridotta rispetto a quello che dovrebbe), attività che viene invece svolta prevalentemente dal potere esecutivo. I padri costituenti, in effetti, avevano previsto alcune ipotesi (particolari) nelle quali il Governo potesse svolgere la funzione legislativa; una di queste è il cd. decreto-legge, da adottare in caso di necessità ed urgenza (l’esempio che viene normalmente presentato tra i banchi universitari è quello delle misure normative adottate dal Governo nei casi di terremoti ed altre catastrofi naturali, che per essere fronteggiate tempestivamente non possono aspettare i tempi d’azione, necessariamente più lunghi, delle camere parlamentari; oppure, facendo riferimento ai mesi che stiamo vivendo a causa della pandemia in corso, basti pensare a tutti i decreti legge adottati dallo scorso marzo).
La Costituzione prevede che nell’arco di 60 giorni dall’emanazione del decreto legge, questo debba essere convertito in legge dal Parlamento, altrimenti decade nei suoi effetti.
Quindi, nell’idea dei padri del testo costituzionale, il decreto-legge doveva rappresentare una sorta di “eccezione alla regola”: la regola è che sia il Parlamento ad esercitare il potere legislativo; l’eccezione è che in casi particolarissimi la funzione legislativa possa essere demandata al Governo (nel caso del decreto-legge, come sia diceva, le condizioni perché si verifichi questa eccezione sono quelle di necessità ed urgenza).
Il problema è che ad oggi il decreto-legge è diventato uno dei principali strumenti per legiferare: la maggior parte delle leggi createsi in Italia da molto tempo a questa parte sono infatti decreti convertiti in legge ordinaria. Vedendo la questione da un’altra prospettiva, potremmo dire che, nel nostro paese, una rilevante fetta della funzione legislativa viene esercitata dal Governo (quindi dal potere esecutivo).
Non può poi mancare un riferimento ad un altro strumento ampiamente utilizzato, quello della legge delega, vale a dire lo strumento attraverso cui le Camere possono attribuire all’esecutivo il potere di legiferare, fissando però alcuni vincoli di cui si dirà a breve. Come conseguenza della delega ricevuta dal Parlamento, il Governo emana un atto avente forza di legge che prende il nome di decreto legislativo.
Le legge delega e il successivo decreto legislativo, perciò, rappresentano un’altra ipotesi derogatoria rispetto alla regola generale prevista dall’articolo 70 della Costituzione (La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere).
Senza scendere in tecnicismi che esulano dalla presente indagine, l’istituto in discorso traccia delle “linee di confine” entro le quali il Governo deve operare: deve infatti avere un oggetto definito, indicare il tempo massimo entro il quale l’esecutivo deve emanare il decreto e deve infine individuare i principi e i criteri direttivi che il delegato deve seguire nell’esercizio del potere legislativo.
Impossibile non sottolineare, però, che più volte negli anni vi sono state pronunce della Corte Costituzionale che hanno dichiarato l’incostituzionalità dei decreti delegati per eccesso di delega, vale a dire casi in cui i criteri cui deve attenersi la delega (poc’anzi illustrati), non sono stati rispettati.
Le Camere parlamentari delegano l’esecutivo a legiferare in fattispecie generalmente caratterizzate da una certa competenza tecnica (e già questo, di per sé, dovrebbe far riflettere…) o nelle quali è richiesto un intervento tempestivo che il Parlamento non può garantire (si pensi all’attuale Codice dei Contratti Pubblici – D.Lgs. 50/2016 – scritto in fretta e furia dal Governo per evitare sanzioni all’Italia, che doveva obbligatoriamente recepire alcune direttive europee in tema di appalti pubblici).
Un po’ sulla falsa riga del decreto-legge, anche la legge delega e il conseguente decreto legislativo dovrebbero rappresentare un’eccezione alla regola: nei fatti, però, l’eccezione si è trasformata sempre di più in regola.
E la separazione dei poteri che fonda ogni democrazia? In Italia, di fatto, non è più così netta.
I Governi, di qualunque colore (o colori!) essi siano, abusano degli istituti sopra illustrati forzando costantemente quelli che dovrebbero essere casi eccezionali o comunque circoscritti per mutare il normale funzionamento degli organi costituzionali.
Sempre più disposizioni normative del nostro ordinamento giuridico sono frutto del lavoro del Governo e non di quello del Parlamento: quest’ultimo diviene quindi, sempre di più, un organo fortemente ridimensionato nelle sue funzioni e nel suo ruolo all’interno dell’impianto costituzionale.
Come si diceva, molte norme in Italia non sono il risultato della dialettica che dovrebbe verificarsi all’interno delle aule parlamentari, ma sono il frutto di un lavoro frettoloso e spesso approssimativo che l’esecutivo svolge con decretazione urgente o delegata: questo spiega anche perché intere materie di diritto presentano leggi tra loro disorganiche e talvolta contraddittorie.
Il bicameralismo perfetto
La struttura del Parlamento italiano è bicamerale: come tutti sappiamo, la funzione legislativa è esercitata da due aule, la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica. Nel nostro paese, però, a differenza della maggior parte delle nazioni che presentano un organismo legislativo bicamerale, le aule parlamentari hanno le medesime funzioni: si parla di bicameralismo perfetto o paritario.
Questa struttura nasce, come diversi elementi della nostra costituzione, come reazione ad uno dei periodi più bui della nostra storia, il fascismo.
Vista la deriva autoritaria che il paese aveva conosciuto, i padri costituenti optarono per un sistema parlamentare composto da una camera “alta” (Senato) ed una camera bassa (Camera dei Deputati), che dovevano svolgere la funzione legislativa esercitando comunque il controllo l’una sull’operato dell’altra, in quello che a tutti gli effetti era studiato come un meccanismo di tutela della democrazia.
Se vogliamo azzardare un parallelismo storico, il sistema di controllo delle aule parlamentari non è così distante, nella sua logica, dal sistema dei due consoli romani, dove uno poteva esercitare sulle azioni dell’altro il cd. ius intercessionis, una sorta di diritto di veto.
Viene da chiedersi, però, se questo impianto mantenga ancora la sua validità al giorno d’oggi: rispetto al 1948 sono cambiati radicalmente tantissimi aspetti salienti del mondo intero, basti pensare al ruolo che oggi gioca l’Unione Europea a livello politico e non solo per tutti i suoi stati membri oppure, ragionando in senso più ampio, a quello svolto da internet nella trasmissione delle informazioni a livello internazionale, e che in quegli anni non era nemmeno un’idea.
Queste riflessioni, come si accennava, fanno sorgere spontanea una domanda: non sarebbe opportuno superare il bicameralismo perfetto (con tutto l’“appesantimento” conseguente) con una sola aula parlamentare oppure con due camere alle quali siano però attribuiti differenti ruoli nello scacchiere costituzionale?
La questione di fiducia
La questione di fiducia non trova la sua fonte direttamente nella Costituzione, ma è prevista dai Regolamenti interni di Camera e Senato.
Spesso se ne ignora l’importanza e, soprattutto, la distorsione democratica che produce nel nostro ordinamento giuridico.
Cerchiamo di spiegare, semplificandone la ratio, in cosa consiste l’istituto in parola: il Governo pone la questione di fiducia sulle leggi che vuole far approvare senza alcun emendamento (quindi senza modifiche) rispetto al testo proposto.
In sostanza, l’esecutivo chiede al Parlamento di approvare un testo di legge nella sua versione originaria, senza la modifica di “nemmeno una virgola”: se le Camere danno il loro consenso, la legge viene approvata esattamente nella versione voluta da Governo; in caso contrario, viene a mancare il rapporto fiduciario, costituzionalmente sancito, che deve sempre essere presente nei rapporti tra l’esecutivo ed il Parlamento, motivo per cui il Governo dovrà rassegnare le sue dimissioni.
L’idea di fondo della questione di fiducia non è sbagliata: viene concessa la possibilità al Governo di chiedere fiducia nell’approvazione di un testo esattamente così come è stato pensato senza alcuna modifica, altrimenti “si va tutti a casa”. Il problema è che questo istituto è oramai completamente abusato dai Governi in carica: questi, qualunque sia lo schieramento politico preponderante, utilizzano la questione di fiducia per fare approvare leggi (si pensi alle finanziarie di fine anno, ma non solo), per superare l’ostruzionismo delle opposizioni o, talvolta, addirittura quello all’interno della stessa maggioranza.
La questione di fiducia, vedendola da un certo punto di vista, è un’ulteriore dimostrazione di quanto già si diceva: in Italia, oramai, la funzione legislativa è prevalentemente esercitata dal Governo, con buona pace del principio della separazione dei poteri che dovrebbe fondare ogni democrazia.
Conclusioni
E’ impossibile, in questa sede, effettuare una disamina di tutti i singoli aspetti dell’attuale impianto costituzionale che andrebbero superati.
Chi scrive si è limitato, perciò, a porre l’attenzione su alcuni tra quelli più rilevanti.
Una cosa è certa: abbiamo un testo costituzionale bellissimo, che però ad oltre settant’anni dalla sua nascita andrebbe revisionato: il mondo, nel 1948, era ben diverso da quello in cui viviamo oggi, e tante idee assolutamente apprezzabili dei padri costituenti hanno finito per incorrere, nei decenni, in distorsioni che ne hanno completamente mutato il significato.
Per questo andrebbe fatta una riflessione sulla Costituzione: e con riflessione, si badi bene, non può che intendersi un ragionamento ben più ampio e significativo rispetto ad un semplice taglio dei parlamentari.
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