Premessa
L’emergenza epidemiologica da COVID-19 ha indotto il nostro Governo a varare tutta una serie di misure, straordinarie e urgenti, volte al contenimento del contagio.
Tali misure hanno drasticamente limitato la libera circolazione delle persone e hanno stabilito la temporanea chiusura di tutte le attività, sia a livello commerciale sia a livello industriale, ad eccezione di quelle riguardanti beni e servizi essenziali.
Il blocco delle attività produttive ed economiche ha comportato il crollo dei fatturati, generando così un’obiettiva crisi di liquidità che ha reso impossibile a molti adempiere i propri obblighi contrattuali.
Al riguardo, sono sorti dubbi sull’applicabilità delle regole e dei principi generali sulla responsabilità del debitore, che sembrerebbero essere stati risolti dal Governo.
Difatti, pur potendo la pandemia essere valutata (in quanto evento, oggettivo, straordinario, imprevedibile e inevitabile) causa di forza maggiore, come tale potenzialmente atta ad escludere, nel rispetto delle norme di legge, la responsabilità del debitore, l’Autorità Pubblica è comunque intervenuta in materia di ritardati o mancati adempimenti contrattuali, con l’art. 91 del D.L. n. 18/2020, il cui primo comma introduce, all’art. 3 del D.L. n. 6/2020, il comma 6-bis, il quale dispone che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Il decreto “Cura Italia” introduce una causa di esclusione della responsabilità del debitore
Se per alcuni tipi di contratto (quali ad es.: leasing; prestiti; mutui fondiari stipulati per l’acquisto di prima casa; trasporto aereo, ferroviario e marittimo; biglietti per spettacoli, musei e luoghi di cultura) il Governo è intervenuto in maniera diretta con norme mirate a disciplinare i rapporti già in essere e messi in crisi dalla situazione di emergenza, col comma 6-bis, invece, ha introdotto una causa di esclusione della responsabilità del debitore.
Di regola, in caso di mancato o ritardato adempimento, la colpa del debitore si presume, difatti, l’art. 1218 c.c. afferma che questi è tenuto al risarcimento del danno, salvo provi che l’impossibilità ad eseguire la prestazione dovuta sia riconducibile a una causa a lui non imputabile.
L’esclusione della responsabilità dipende, pertanto, da due elementi: impossibilità sopravvenuta della prestazione e derivazione di tale impossibilità da causa non imputabile al debitore.
Per “causa a lui non imputabile” si intende una causa che è estranea al debitore, meglio ancora, alla sua sfera volitiva… fuori dal suo controllo!
Queste cause impeditive possono essere ricondotte a più fattispecie, ma quella particolare che qui rileva è il factum principis.
Tale locuzione latina, in diritto, indica una causa di impossibilità oggettiva ad eseguire la prestazione, derivante da un ordine emanato dall’Autorità Pubblica.
Affinché una causa riconducibile a questa fattispecie possa essere valutata ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore, non basta però l’esistenza di un disposto autoritativo, ma occorre anche che il debitore abbia agito attenendosi all’ordine emanato e che tra l’inadempimento e l’osservazione della regola imposta vi sia nesso di causalità, che dev’essere provato dal debitore unitamente all’aver agito secondo l’ordinaria diligenza[i].
E’ innegabile, quindi, che la causa introdotta dall’art. 91 sia da annoverare nella fattispecie del factum principis e che sul debitore gravi l’onere probatorio di dimostrare che il rispetto delle misure autoritative per il contenimento dell’epidemia ha costituito un impedimento all’adempimento, non superabile con l’ordinaria diligenza.
Sarà poi il giudicante a valutare secondo le circostanze e a decidere se il rispetto delle norme di contenimento escluda la responsabilità del debitore oppure, nel caso in cui non la escluda, a stabilire anche il quantum da risarcire tenendo conto del disposto dell’art. 1223 c.c. (richiamato anch’esso dal comma 6-bis).
Conseguenze della sopravvenuta impossibilità ad adempiere la prestazione, per causa non imputabile al debitore, sono quelle previste dall’art. 1256 c.c., ossia, nel caso di impossibilità definitiva, l’obbligazione si estingue e il contratto si risolve de iure; in caso invece di impossibilità temporanea, l’adempimento rimane sospeso finché essa perdura. In quest’ultima ipotesi, il legislatore ha stabilito che l’obbligazione non si estingue a meno che l’impossibilità duri “fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”.
Diversamente, qualora l’impossibilità sopravvenuta ad adempiere sia parziale, l’art. 1258 c.c. prevede che il debitore si liberi dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile, mentre riguardo ai contratti a prestazioni corrispettive, l’art. 1464 c.c. permette di recedere dal contratto al contraente che non ha più un interesse apprezzabile all’adempimento parziale della controparte, oltre ad attribuirgli il diritto alla riduzione della propria prestazione.
E’ evidente che a far optare per la risoluzione del contratto sia il venir meno dell’interesse del creditore, provocato dal mutamento delle condizioni contrattuali (per accadimenti esterni) che non permette il raggiungimento dello scopo per cui l’accordo era stato concluso. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “L’impossibilità parziale ha effetto risolutivo solo quando, avuto riguardo all’interesse delle parti, investa l’essenza stessa dell’operazione negoziale, privando il resto, in parte significativa, di utilità o, comunque, mutando significativamente lo scopo perseguito con il negozio, ai sensi degli artt. 1362 e ss., c.c.” (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 4939/2017).
In ogni caso, l’esclusione della responsabilità del debitore per il rispetto delle misure di contenimento comporta anche la disapplicazione di clausole collegate all’inadempimento. E benché il comma 6-bis parli di “decadenze e penali”, si presume che la regola vada estesa anche ad alcuni rimedi normalmente utilizzabili dalla controparte per far valere il proprio diritto a conseguire la prestazione, in particolare all’azione di risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c., salvo che l’impossibilità sia sopravvenuta durante la mora del debitore ex art. 1221 c.c.
Exceptio inadimpleti contractus
Date le precedenti considerazioni, viene da chiedersi se il creditore, apparentemente privo di azione nei confronti del debitore protetto dal comma 6-bis, sia costretto a subire le conseguenze derivanti da questo stato emergenziale o se possa, nonostante i presupposti differenti di cui all’art. 1460 c.c., avvalersi dell’exceptio inadimpleti contractus per sospendere la controprestazione.
La risposta sembrerebbe essere a favore del creditore, in quanto la giurisprudenza, interrogata più volte riguardo a casi di impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, ha affermato che l’eccezione possa essere attivata anche nei confronti di inadempimenti incolpevoli. In particolare, con la sent. n. 21973/2007, la Suprema Corte ha asserito che “L’esercizio dell’eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c., che trova applicazione anche con riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, nonché in presenza di contratti collegati, prescinde dalla responsabilità della controparte, atteso che come posto in rilievo in dottrina è meritevole di tutela l’interesse della parte a non eseguire la propria prestazione senza ricevere la controprestazione, al fine di evitare di venire ad essere posta in una situazione di diseguaglianza rispetto alla controparte. E ciò pure allorquando il mancato adempimento della prestazione dipende dalla sopravvenuta relativa impossibilità per causa non imputabile al debitore.”.
La ragione di tale affermazione è evidente. La caratteristica dei contratti a prestazioni corrispettive consiste nel dare vita a un rapporto (definito anche sinallagma) basato sulla volontà di scambiarsi diritti e obbligazioni attraverso reciproche prestazioni; la mancata esecuzione della prestazione di una parte metterebbe in crisi l’equilibrio del sinallagma. Pertanto, se non si riconoscesse la possibilità di sospendere l’esecuzione nel caso di mancata prestazione di uno dei contraenti, anche quando dovuta a impossibilità sopravvenuta per causa a questi non imputabile, l’effetto sarebbe che soltanto la controparte rimarrebbe onerata per l’esecuzione della controprestazione, generando così un’effettiva diseguaglianza tra i contraenti.
Analogicamente, ciò si verificherebbe anche nel caso di impossibilità sopravvenuta per rispetto delle norme autoritative di contenimento o a causa della stessa pandemia.
E’ doveroso precisare però che, pur essendo l’eccezione di inadempimento uno strumento di autotutela, avente effetto sospensivo volto a preservare il rapporto sinallagmatico, bisogna comunque effettuare una prudente valutazione caso per caso, tenendo conto dell’entità del disequilibrio generato dall’inadempimento e della buona fede ex art. 1460, comma 2, c.c. di cui più volte in giurisprudenza è stato evidenziato lo stretto nesso con gli artt. 1375 e 1175 c.c.[ii].
Impossibilità sopravvenuta per eccessiva onerosità
Potrebbe anche verificarsi che a sopravvenire non sia l’impossibilità, ma l’eccessiva onerosità della prestazione. In tal caso, non si esclude possa essere invocato il rimedio di cui all’art. 1467 c.c., in quanto è indubbio che la pandemia, quale evento straordinario e imprevedibile, come tale non rientri nella normale alea del contratto. Perciò, la parte, la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa, può chiedere la risoluzione del contratto, mentre l’altro contraente, per evitare la risoluzione, può offrire di modificare equamente le condizioni dell’accordo (c.d. reductio ad aequitatem).
Alla luce delle considerazioni svolte finora, sebbene non sussista in linea generale un obbligo di rinegoziazione, come invece sostenuto (in particolare, in ambito di contratti di durata o a esecuzione differita) da una parte minoritaria di dottrina e giurisprudenza[iii], tenuto conto della situazione emergenziale che ha colpito tutti, nel rispetto della legge e in ottica di risollevamento economico del Paese, sarebbe comunque preferibile, ove possibile, una rinegoziazione, basata sul contemperamento degli interessi e sull’equilibrio delle prestazioni tra le parti, piuttosto che una risoluzione dei contratti già in essere travolti dagli effetti della pandemia.
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Note
[i] Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 14915/2018: “La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione può verificarsi, secondo la previsione degli artt. 1218 e 1256 c.c., solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione. Pertanto, nel caso in cui il debitore non abbia adempiuto la propria obbligazione nei termini contrattualmente stabiliti, egli non può invocare la predetta impossibilità con riferimento ad un ordine o divieto dell’autorità amministrativa (“factum principis”) sopravvenuto, e che fosse ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto della assunzione della obbligazione, ovvero rispetto al quale non abbia, sempre nei limiti segnati dal criterio della ordinaria diligenza, sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità.”; Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 6594/2012: “Perché l’impossibilità della prestazione costituisca causa di esonero del debitore da responsabilità, deve essere offerta la prova della non imputabilità, anche remota, di tale evento impeditivo, non essendo rilevante, in mancanza la configurabilità o meno del factum principis”.
[ii] Corte Cass., sent. n. 16918/2019 : “Dato atto che la giurisprudenza di legittimità ha sempre precisato che la buona fede cui si riferisce l’art. 1460, comma 2, non è soggettiva (la mera incolpevole ignoranza di ledere il diritto altrui non può quindi legittimare l’inadempimento) bensì oggettiva, onde per stabilirne la sussistenza il giudice di merito deve verificare se l’inadempimento della controparte abbia davvero influito sull’equilibrio sinallagmatico del contratto, così da legittimare la sospensione “reattiva”, l’arresto rimarca pure che la buona fede oggettiva esige, altresì, che “la difesa sia proporzionata all’offesa”, per cui soltanto un inadempimento integrale legittima una sospensione integrale della prestazione corrispettiva.”
[iii] Secondo una parte minoritaria di dottrina e giurisprudenza, nel principio di buona fede che sorregge il rapporto contrattuale rientra l’obbligo di cooperazione che impone alle parti, in caso di mutamento delle condizioni originarie del rapporto per accadimenti in fase di esecuzione, di fare “aderire il regolamento contrattuale, a suo tempo predisposto, alla reale situazione di fatto nel frattempo evolutasi in un certo modo”, ciò al fine di ripristinare l’equilibrio tra le prestazioni, in modo da garantire la prosecuzione del rapporto contrattuale. F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996 pagg. 320-323
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