Credo ateo o agnostico: discriminazione religiosa e parità di trattamento delle forme di religiosità

La Suprema Corte, con l’ordinanza in epigrafe indicata, ha definitivamente posto la parola fine alla questione relativa alla discriminazione religiosa.

La prima Sezione civile, infatti, decidendo sul carattere discriminatorio del diniego di affissione di un manifesto di un’associazione di atei e agnostici, opposto dal Comune per le modalità grafiche ed espressive del mezzo, ha affermato che: “deve essere garantita la pari libertà di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente nelle forme più opportune, attesa la previsione generale dell’art. 19 Cost”.

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Il caso

In data 31 luglio 2013, l’UAAR – Unione Atei Agnostici Razionalisti – presentava apposita istanza al Comune di Verona affinché, tramite il servizio comunale di affissioni pubbliche, venisse autorizzata alla pubblicazione di dieci manifesti recanti la parola, a caratteri cubitali, “Dio”, con la lettera “d” scritta in stampatello e barrata da una crocetta e le successive lettere “io” in corsivo e sotto la dicitura, in corsivo e in caratteri più piccoli, “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c’è l’UAAR al loro fianco”.

La richiesta così come presentata veniva respinta dalla Giunta Comunale, la quale ravvisava il contenuto della comunicazione potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione.

 

I fatti di causa

La predetta associazione adiva, quindi, l’autorità giudiziaria chiedendo l’accertamento del carattere discriminatorio della condotta del Comune così come sopra descritta e la sua conseguente condanna al risarcimento dei danni ed alla pubblicazione della decisione su di un quotidiano, il tutto a spese dello stesso ente.

Resisteva il Comune contestando recisamente tutto quanto allo stesso addebitato e precisando come la propria condotta dovesse considerarsi priva da qualsivoglia aspetto discriminatorio.

Il Tribunale adito, con ordinanza depositata il 17 dicembre 2015, rigettava il ricorso ritenendo il diniego manifestato dal Comune come non integrante una forma di discriminazione[1].

La Corte d’appello di Roma, adita dall’appellante associazione, ritenendo non configurabile alcuna forma discriminatoria per assenza dei requisiti formali, confermava in toto la sentenza di primo grado condividendo il percorso argomentativo del giudice di prime cure [2].

Affermava, altresì, il giudice di secondo grado che “neppure l’affissione avrebbe potuto essere ancorata alla libertà di espressione del pensiero, ai sensi e per gli effetti dell’art. 21 Cost, atteso che il principio di laicità dello Stato implica, non certo l’indifferenza nei confronti dell’esperienza religiosa, ma – ben al contrario – la salvaguardia della libertà di religione nell’ottica del pluralismo confessionale e culturale e nel rispetto della dignità della persona umana”.

Il principio enucleato dalla corte suprema

 

La Corte, infatti, ha operato una interpretazione estensiva dell’articolo 19 della Costituzione che, come noto, prevede il diritto di tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata e di farne propaganda nonché di esercitarne in pubblico e privato il culto; la propaganda religiosa, d’altro canto, costituisce indubbiamente una forma di manifestazione del pensiero ai sensi dell’art. 21 della Costituzione. Il tenore letterale dell’art. 19 della Costituzione, al contrario dei dettami internazionali in materia, fa riferimento alla libertà positiva di religione, riconoscendo facoltà ampie, ma tipiche, ai fedeli di una determinata confessione religiosa, ai quali concede piena libertà di professione, di propaganda e di culto, con il solo limite che “non si tratti di riti contrari al buon costume”.

Tuttavia, il testo della norma non contiene una espressa e specifica menzione della libertà di coscienza intesa, nello specifico, come libertà di mutare credo e di non averne alcuno, ovverosia di professare una fede meramente laica o agnostica.

Questo tipo di interpretazione, restrittiva, ha inizialmente fondato un orientamento restrittivo della Consulta, secondo cui “l’ateismo comincia dove finisce la fede religiosa”, escludendosi, in tal modo, che anche il credo ateo o agnostico possa trovare fondamento nella disposizione dell’art. 19 della Cost[3].

Siffatto orientamento è stato, tuttavia, ampiamente smentito nel corso degli anni dalla successiva giurisprudenza costituzionale che – leggendo in combinato disposto la norma dell’art. 19 con quella di cui agli articoli 2 e 3 della Costituzione ha ritenuto che “la libertà di coscienza dei non credenti rientra nella più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall’articolo 19 della stessa Costituzione e dall’art. 21 Cost (libertà di opinione religiosa del non credente intesa quale manifestazione del pensiero), e da intendersi anche in senso negativo, escludendo il nostro ordinamento costituzionale ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa che dell’ateismo.[4]

La Consulta, pertanto, dal combinato disposto degli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione ha desunto il fondamento della “libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa” quale diritto fondamentale che, sotto il profilo giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2 della Costituzione e che, in quanto tale, spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici.[5]

In estrema sintesi, quindi, la Corte ha sancito l’obbligo di garantire la pari libertà di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, anche e soprattutto se si tratta di un credo ateo o agnostico, e di professarla liberamente oltre che, chiaramente, di farne propaganda nelle forme più opportune, attesa la previsione di cui all’articolo 19 della Costituzione e salvo il limite del vilipendio della fede da altri professata.

Il Giudice di merito, allo stesso tempo, sarà tenuto ad effettuare una rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, potendo negare questo diritto solo quando le predette modalità si traducano in un’aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata.

La Corte, inoltre, ha chiarito come debba essere sempre garantito il principio della parità di trattamento sancito dagli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 CE nonché dagli artt. 43 e 44 del dlgs 286 del 1998, tra tutte le forme di religiosità, in esse compreso anche il credo ateo o agnostico, determinando la violazione una discriminazione vietata che si verifica quando, nella comparizione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è, o sarebbe avvantaggiato rispetto all’altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall’autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata.

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Note

[1] Cfr ordinanza Tribunale di Verona del 17 dicembre 2015 secondo la quale “il diniego di affissione manifestato dal Comune in occasione dei succitati fatti non costituisce una forma di discriminazione, ai sensi della normativa internazionale e nazionale in materia, essendo state le ragioni del rifiuto ancorate, dal Comune di Verona, esclusivamente alle modalità grafiche ed espressive dei manifesti in discussione”.

[2] Cfr. sentenza n. 1869/2018 Corte d’appello di Roma secondo la quale “non è ravvisabile, nel caso di specie, una condotta discriminatoria, mancando, in primo luogo, una qualsiasi forma di propaganda a favore dell’ateismo o dell’agnosticismo, e difettando, in secondo luogo, un trattamento differenziato riservato all’associazione istante rispetto ad altre alle quali, nel medesimo contesto locale e temporale fosse stata – in ipotesi- concessa la possibilità di manifestare il proprio credo religioso

[3] Cfr. Corte Costituzionale n. 58 del 1960.

[4] Cf. Corte Costituzionale n. 117 del 1979.

[5] Cfr. Corte Costituzionale n. 334 del 1996, n. 149 del 1995 secondo cui la “libertà di coscienza è un diritto inviolabile dell’uomo che, come tale, esige una garanzia uniforme, o almeno omogenea nei vari ambiti in cui si esplica”.

Sentenza collegata

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Andrea Ribichesu

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