Alterum non laedere: il danno psichico. Criteri di individuazione e quantificazione

Dalla formula latina “alterum non laedere” trae origine il concetto di danno alla persona da fatto illecito. Com’è noto, il nostro sistema giuridico, obbliga il responsabile di un danno ingiusto a risarcire il danneggiato al fine di compensarlo per il torto subito.
In questo senso l’art. 2043 c.c stabilisce che ogni fatto doloso o colposo, che arrechi un danno ingiusto ad una persona obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. E’ possibile, quindi, suddividere il danno in due grandi categorie: il danno patrimoniale e il danno non patrimoniale.
Il primo riguarda i danni al patrimonio, sia nel senso della diminuzione in relazione a beni o situazioni produttive di cui il danneggiato godeva prima del fatto illecito c.d. danno emergente ex art. 1223 c.c., sia in relazione al mancato guadagno, che il soggetto avrebbe potuto produrre nel caso in cui il fatto illecito non fosse avvenuto c.d. danno da lucro cessante ex art 2056 c.c..
Il danno non patrimoniale, invece, riguarda i danni subiti da un soggetto a prescindere dalle conseguenze economiche, potendosi suddividere in danno morale, danno biologico e danno esistenziale, comprendendo in sé qualsiasi danno dovuto a comportamento ingiusto altrui che produca una sofferenza nella vita dell’individuo, o una lesione dell’integrità psicofisica, o un peggioramento della qualità della vita
derivante dalla lesione di valori fondamentali alla persona. Quindi qualsiasi lesione, ovvero alterazione patologica, nel corpo o nella mente, costituisce un danno biologico.
In un simile contesto, si inserisce il c.d. danno psichico definito come “ la compromissione durevole di una o più funzioni della personalità, intellettive, emotive, affettive, volitive, di capacità di adattamento e di adeguamento, di relazionarsi con gli altri, che possono giungere fino a condotte devianti, etero o autoaggressive, e che incide (o non incide) anche sul rendimento lavorativo”, provocato da un evento
traumatico di natura dolosa o colposa, che limita notevolmente ed in maniera durevole l’esplicazione di alcuni aspetti della personalità nel regolare svolgimento della vita quotidiana. A tal proposito il danno di tipo psichico va distinto dal danno morale, ex art. 185 c.p. definito (Corte Costituzionale sentenza n. 233/2003) come uno stato di tristezza e prostrazione causato dal trauma, che non sempre arriva ad alterare
l’equilibrio interno dell’Io e le modalità di relazionarsi con l’esterno.

Più precisamente viene identificato con la “sofferenza”, cioè con lo stato di sconforto e abbattimento
provocato dall’evento dannoso. Quindi mentre il danno morale affligge e disturba per un breve lasso di tempo la vita quotidiana, rendendola un peso da sostenere con difficoltà, il danno psichico impedisce, temporaneamente o permanentemente, alcuni o molti degli aspetti della vita quotidiana. Più complicata risulta, invece, la distinzione tra danno psichico e danno esistenziale, inteso quest’ultimo, come un’alterazione in senso peggiorativo del modo di essere di una persona nei suoi aspetti sia individuali
che sociali; questo perché mentre il danno psichico può determinare anche un danno esistenziale, un danno esistenziale non implica necessariamente anche la presenza di un danno psichico.
E’ chiaro che il danno psichico ed il danno da pregiudizio esistenziale devono essere risarciti, quali danni non patrimoniali, ex art. 2059 c.c. In particolare, il danno psichico, coerentemente con la lettera dell’art. 1223 c.c., richiede il risarcimento come lesione dell’integrità psichica e le conseguenti mancate utilità non patrimoniali. Infatti, lo stesso Legislatore, con il D.p.r. 37/2009, nel richiedere anche il risarcimento da
sofferenza e da turbamento dello stato d’animo, oltre a quello biologico, indica proprio agli interpreti di non tralasciare i profili psichici, ricadenti pure sulla vita quotidiana.
Però, pur essendo pacifico il risarcimento di tale danno (Cassazione civile 13547/2009), non è chiaro come si possa procedere alla sua quantificazione, in modo tale da assicurare l’integralità del risarcimento (Cass. civ. SS.UU. 26972/2008), il rispetto della vittima e la solidarietà verso la stessa, ex art. 2 Cost. Infatti, data la
complessità nello stabilire con certezza la connessione causale tra un certo fatto ed un disturbo psichico, è necessario che lo psicologo esperto in psicologia forense faccia una corretta diagnosi differenziale, attraverso l’analisi della struttura dell’Io e della sovrastruttura, per inquadrare i sintomi all’interno di fasi solo attuali – dunque post trauma – o di fasi precedenti.
La dottrina medico-legale, a tal proposito, ha stabilito una serie di criteri al fine dell’accertamento del nesso di causalità- utilizzati sia in presenza di danni fisici che in presenza di danni psichici- individuando il criterio dell’idoneità o efficienza lesiva dell’evento che valuta l’entità del preteso danno fisico e/o psichico subito; il criterio cronologico, che valuta il tempo intercorso tra l’evento dannoso e il lamentato danno fisico e/o psichico; il criterio topografico, che valuta la corrispondenza tra il luogo dove si è verificato il trauma sul corpo del danneggiato e le lesioni accertate; il criterio di continuità fenomenologica, che verifica se sussiste una successione ininterrotta di segni o sintomi tra l’azione lesiva iniziale e l’evento patologico finale (per esempio a seguito del sinistro il soggetto ha cominciato a non guidare più; il criterio della esclusione delle altre cause, che verifica l’assenza di altre cause che possano aver interrotto il nesso di causalità con l’evento dannoso; il criterio statisticoepidemiologico, che verifica con quale frequenza un determinato effetto scaturisce come causa da una determinato evento traumatico ed infine il criterio anatomopatologico
che utilizza strumenti, come il riscontro diagnostico o l’autopsia giudiziaria, per raccogliere informazioni utili ad accertare il nesso causale. In tali ipotesi, quindi, Il CTU, non dovrà solo accertare l’esistenza del danno psichico come conseguenza del fatto illecito, ma dovrà anche quantificarlo, ossia stimarne la sua gravità. Per tale ultimo aspetto, diverse sono le metodologie utilizzate per la quantificazione del danno psichico. Una di queste utilizza quattro indici di riferimento: l’intensificazione e permanenza, a distanza di un anno di sintomi nell’ambito delle funzioni cognitive e della vita affettiva: 10-15%; la presenza di sintomi psicopatologici più gravi: idee di suicidio, frequenti attacchi di panico, anomalie della condotta, alterazioni significative del tono dell’umore: 20-30%; la diminuzione delle capacità critiche nell’esame della realtà, episodi di disorientamento temporo-spaziale, alterazioni gravi del comportamento: 30-40%; la significativa alterazione della capacità di comunicare nella relazione con gli altri: 40-50%”.
Un’altra metodologia, invece-proposta dall’Ordine degli Psicologi del Lazio (2009)- prende in considerazione non solo i casi di vera e propria patologia psichica, ma anche le ipotesi di “alterazioni della personalità e dell’assetto psicologico, delle alterazioni delle relazioni familiari e affettive e delle attività realizzatrici”, suddividendo il danno in fasce di gravità: danno lieve (6-15%), danno moderato (16-30%) danno medio
(31-50%), danno grave (51-75%), danno gravissimo (76-100%).
In definitiva, non esistendo ancora nel nostro ordinamento una disciplina unitaria ed oggettiva per l’individuazione e la quantificazione del danno psichico, spetterà al Giudice sulla scorta degli elementi probatori acquisiti nel processo e dalla valutazione del CTU, stabilire se l’evento illecito ha provocato un danno psichico risarcibile e quantificarlo in termini monetari.

Manuale del risarcimento per il danno alla persona

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