In un contesto economico di tipo dinamico, i rapporti contrattuali tendono ad una complessità più elevata rispetto a quella che è possibile riscontrare in contesti di tipo statico; essi tendono ad intersecarsi con situazioni giuridiche soggettive ed ulteriori rapporti giuridici, rispetto ai quali hanno potenzialità di incidenza diretta o, quanto meno, mediata.
Di conseguenza, il comportamento tenuto durante l’iter formativo e/o in sede di esecuzione di rapporti obbligatori, è suscettibile di produrre effetti che oltrepassano il rapporto al quale il comportamento era funzionalizzato, incidendo quindi in misura più o meno ampia su situazioni giuridiche soggettive e/o rapporti giuridici a latere.
Orbene, non costituisce esimente dal generale divieto di neminem ledere posto dall’articolo 2043 cod. civ. la derivazione dell’evento lesivo dall’iter formativo e/o dall’esecuzione di un vincolo obbligatorio, nel caso de quo di un contratto.
Il medesimo accadimento storico è quindi potenzialmente idoneo ad incidere sia sull’assetto di interessi che le parti avevano inteso plasmare mediante la conclusione uno specifico negozio, sia sul complesso di situazioni giuridiche soggettive che a queste fa capo.
Può quindi accadere che dall’inesecuzione o da un adempimento incompleto e/o difforme da quanto pattuito scaturiscano conseguenze che travalicano i confini del rapporto giuridico che le parti avevano inteso porre in essere ed incidono su situazioni soggettive diverse facenti capo alla sfera giuridica dell’una o dell’altra parte.
In tal caso si verifica un cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
L’ammissibilità del cumulo è stata riconosciuta dal Supremo Collegio a partire dal 1949 (Cass. n.2630 del 31 dicembre 1949; n.740 del 17 marzo 1950, in Riv. Circolaz., 1951, 17 con nota di Rosso e in Resp. Civ. e Prev., 1950, 313, con nota di Gentile; n.302 dell’8 febbraio 1951; n.719 del 30 marzo 1951; n.861 dell’11 aprile 1951; n.933 del 16 aprile 1951, in Foro It., 1951, I, 1190, con nota di Russo, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1951, 2°, 69, con nota di Brasiello e in Riv. Dir. Comm., 1952, II, 1; n.1574 del 16 giugno 1951, in Resp. Civ. e Prev., 1951, 509) con una frequenza crescente (per tutte si vedano Cass. n.1767 dell’8 giugno 1955, in Mass. Giur. It, 1955, 432; n.2038 del 20 settembre 1961, in Sett. Cass., 1961, 1276; n.2441 del 7 agosto 1962, in Mass. Giur. It., 1962, 838; n.1430 del 17 giugno 1967, in Mass. Giur. It., 1967, 549; n.2903 del 30 luglio 1969, in Giur. It., 1969, 1188; n.4437 del 7 agosto 1982, in Giur. It, 1982, 1125; n.2278 del 29 marzo 1983, in Giur. It., 1983, 588).
La dottrina ha analizzato a più riprese il fenomeno, qualificando la fattispecie come concorso di norme o come concorso di azioni (“nel senso più volte rilevato che compete all’attore proporre l’una o l’altra azione, o assieme ed alternativamente entrambe le azioni”, Scognamiglio, in Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, Noviss. Dig. It., XV, 1968, 679); tale impostazione deve però essere condivisa solo in parte.
Infatti, il concetto di cumulo di responsabilità è ben più ampio di quello di concorso di azioni, ricomprendendo, il primo, ipotesi nelle quali ad una responsabilità di natura contrattuale si aggiunge una responsabilità extracontrattuale derivante dal medesimo episodio storico, il secondo, ipotesi nelle quali è possibile fondare alternativamente la propria pretesa su un titolo contrattuale o extracontrattuale.
Una ricostruzione ragionevole del fenomeno discende dalle premesse esposte in precedenza.
Prendendo infatti in considerazione il contesto e la funzione degli istituti della responsabilità contrattuale e della responsabilità aquiliana, si evince che nel primo caso il legislatore ha inteso predisporre rimedi diretti a realizzare in via sostitutiva, quanto meno mediante una riparazione per equivalente, quel determinato assetto di interessi che le parti avevano voluto porre in essere mediante la conclusione di uno specifico negozio giuridico; nel secondo caso il legislatore ha predisposto strumenti di reazione nei confronti di ingerenze dolose o colpose nell’altrui sfera giuridica, dalle quali sia derivato un danno ingiusto.
Non appare quindi possibile negare che, qualora da un determinato inadempimento contrattuale, o da un adempimento parziale o non conforme ai patti, discendano, per taluno dei contraenti, conseguenze patrimoniali negative che trascendono gli stessi interessi regolamentati dalla fonte delle obbligazioni, si ricada, quanto meno per il danno ulteriore rispetto agli interessi riconducibili all’obbligazioni inadempiuta, nel dominio della responsabilità aquiliana, essendosi prodotto quel danno ingiusto che, ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ., legittima giuste pretese risarcitorie della parte lesa.
É oramai acquisito che da un contratto discendano obblighi di protezione ulteriori rispetto a quello inerente l’adempimento dell’oggetto principale dell’obbligazione; tra questi devono a pieno titolo ritenersi ricompresi, quanto meno per ascrizione agli articoli 1325 e 1375 cod. civ., tutti gli obblighi di comunicazione di notizie rilevanti per le determinazioni circa l’an e/o il quomodo della conclusione del contratto e l’esecuzione dell’accordo formalizzato; la violazione di tali obblighi, oltre ad incidere potenzialmente sull’iter formativo ed esecutivo del contratto, può produrre conseguenze ulteriori, coinvolgendo interessi a latere di quelli contrattualmente dedotti, in seguito, ad esempio, all’incolpevole affidamento di una delle parti nelle notizie fornite dalla controparte in sede di formazione o esecuzione del contratto ed al pregiudizio patrimoniale subito in conseguenza della lesione di situazioni giuridiche diverse da quelle nascenti dal rapporto contrattuale, a causa dalla falsità delle notizie comunicate (in materia di responsabilità dell’appaltatore per lesione di diritti non assoluti, la Cassazione, con sentenza n.5638 del 1983, in RFI, 1983, voce Resp. Civ. n.56, ha ritenuto applicabile il cumulo “Quando un medesimo fatto violi diritti indipendenti dal contratto e da un preesistente rapporto giuridico” e contemporaneamente “diritti derivanti da un contratto o comunque da un vinculum iuris già esistente”).
In caso di cumulo di responsabilità, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento psicologico minimo di ascrizione di responsabilità aquiliana, ma anche contrattuale, cioè la colpa, non è possibile trascurare il ruolo centrale rivestito dal flusso di informazioni; in argomento una dottrina molto recente ed interessante si è espressa in questi termini: “quando invece la colpa operi nell’ambito di un preesistente rapporto contrattuale ovvero nel contesto di un rapporto che, pur non avendo i connotati di un rapporto obbligatorio, sia determinato anche contrattualmente (…) o si tratti di un rapporto fondato sulla prossimità di beni (…), ovvero si versi in un contesto in cui esista un rapporto contrattuale ma si sia in presenza di un flusso informativo determinato dall’esistenza di una catena di relazioni contrattuali, o ancora nell’ipotesi di relazioni sorgenti da rapporti di cortesia, il contenuto del dovere del potenziale danneggiante sorge determinato anche in sede extracontrattuale in quanto esiste un destinatario diretto di quel dovere, determinato e determinabile. Una delle caratteristiche essenziali, che distingue questi contesti da quelli descritti in precedenza, è data dalla circostanza che esiste un flusso informativo tra le parti (…) destinato ad incidere sensibilmente sulla struttura dei modelli di condotta e dunque dei criteri di valutazione della violazione” (Cafaggi, Profili di relazionalità della colpa, Padova, 1996, 166 ss.).
Prescindendo per un attimo dall’esistenza di profili di responsabilità aquiliana, sembra opportuno soffermarsi un momento sugli obblighi risarcitori conseguenti all’inadempimento contrattuale.
La dottrina dominante, confortata dalle decisioni del Supremo Collegio ha più volte ribadito che il risarcimento del danno ha la funzione di porre il patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato senza l’evento lesivo (per tutte Cass. 87/7389 e Cass. 69/2145).
Negli ultimi anni la giurisprudenza ha cercato di delimitare l’area del danno risarcibile alla luce della funzione indennitaria riconosciuta agli istituti risarcitori.
Tra gli orientamenti emersi dalla giurisprudenza della Cassazione ve ne sono alcuni di particolare interesse, sui quali appare utile, nonostante si tratti di precedenti giurisprudenziali consolidati, soffermarsi un attimo.
Il Supremo Collegio, a partire dal 1988 ha affermato che, poichè il risarcimento è diretto alla completa restitutio in integrum del soggetto leso, la misura del danno non deve essere necessariamente contenuta nei limiti del valore del bene danneggiato ma deve avere per oggetto l’intero pregiudizio subito dal soggetto che ha subito il danno (per tutte Cass. 88/6856); ci permettiamo di ricordare, inoltre, che si considera risarcibile anche il pregiudizio mediato che sia causalmente collegato all’inadempimento o all’adempimento parziale e/o non conforme ai patti (per tutte Cass. 87/6325).
All’interno di una più ampia nozione di danno risarcibile, come tutti ben sappiamo, si collocano due concetti ulteriori, il danno emergente ed il lucro cessante.
Sui caratteri del danno emergente non sembra opportuno soffermarsi, quanto meno per non tediare il lettore con disquisizioni a lui ben note; qualche riflessione merita invece il lucro cessante.
Una definizione minimale del concetto citato, porta ad identificare nel lucro cessante quanto il danneggiato avrebbe ricavato in caso di adempimento dell’obbligazione; orbene, tale definizione appare riduttiva, in quanto esclude dall’area del danno risarcibile la perdita di chance.
Essa non è quindi minimamente condivisibile, in quanto, nel momento in cui le parti regolamentano un determinato assetto di interessi mediante la conclusione di un negozio che ha, nei loro confronti, forza di legge ai sensi dell’articolo 1372 cod. civ., pianificano, o quanto meno sono potenzialmente in condizione di farlo, determinate strategie relazionali future; rimanendo ancorati ad una definizione minimale del lucro cessante, sfuggirebbe all’area del danno risarcibile qualunque lesione alla capacità pianificatoria ed all’attività relazionale, a meno che non si ritenga di dover collocare tali pregiudizi nell’area della responsabilità aquiliana.
Negare una qualsivoglia forma di tutela alla lesione della capacità pianificatoria ed all’attività relazionale, determinerebbe, ad avviso dello scrivente, una violazione mediata degli articoli 2 e 41 della Costituzione, ed immediata dell’articolo 1223 cod. civ. o, per chi colloca tali fenomeni nell’area della responsabilità aquiliana, dell’articolo 2043 cod. civ..
Il diniego di tutela alla capacità pianificatoria ed all’attività relazionale appare inoltre idoneo a determinare distorsioni sul piano allocativo, causando quindi una lesione dell’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato.
Argomentazioni a sostegno di tale prospettazione possono essere desunte dall’oramai consolidata risarcibilità del danno futuro che tragga origine da una causa efficiente già in atto (per tutte Cass. 68/3597); appare infatti innegabile che la nozione di danno futuro sia strettamente collegata al concetto di capacità pianificatoria ed a quello di attività relazionale.
Sul carattere di debito di valore dell’obbligazione di risarcimento e sulla quantificazione del pregiudizio subito, alla luce di quanto già depositato non sembra utile soffermarsi ulteriormente.
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