Cyberbullismo ed educazione: politiche di contrasto alla luce della recente legge

Premessa

Con la L. n. 71 del 2017, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 3 Giugno 2017, e in vigore dal 18 Giugno 2017, il Legislatore italiano ha, per così dire, sanato una situazione di vuoto normativo in materia di condotte ascrivibili al tanto odioso quanto pericoloso fenomeno del cyberbullismo. Di conseguenza, è possibile considerare detto fenomeno entro due finestre temporali ben distinte: la prima, che considera la fattispecie prima del suo effettivo riconoscimento da parte della Legge; e, una seconda, che considera detta fattispecie ai sensi del suo riconoscimento da parte della Legge presente. Dedicherò alla prima parte una breve considerazione al fine di far meglio risaltare le novità previste dalla Legge e di far comprendere l’importanza che la stessa fosse alfine promulgata onde contrastare attivamente il preoccupante dilagare del fenomeno.

Tuttavia, anche per come si chiarirà in seguito, dedicherò alla presente legge pure alcune considerazioni  critiche, non soltanto per inverare il brocardo, secondo il quale “non è oro tutto quel che luccica”, ma perché tale dispositivo sembra, agli occhi di chi vive e lavora dentro la scuola, un ennesimo caso di ulteriore gravame senza gloria. Certo non si dubita della sua estrema importanza in termini di civiltà, ma ci si chiede come possa una scuola priva di mezzi e sempre più povera farsi carico di ulteriori pesi e correlate responsabilità.

 

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Prima della Legge n. 71

In assenza di una legge apposita, la fattispecie del cyberbullismo veniva integrata per analogia entro altre fattispecie previste in ordinamento, e in modo particolare dal codice penale. Si trattava, ovviamente, di integrare i vari reati connessi alla pratica in questione con specifiche aggravanti. In termini di tutela delle vittime, l’architrave era costituita dall’art. 120 c.p., ovvero dalle tutele previste nei casi di reati perpetrati nei confronti minori, e segnatamente, ai sensi del c.14 e dei cc. 14 – 18, le querele poste in essere contro i responsabili di detti reati, fermo restando, ovviamente, la procedibilità per i reati in quanto tali. Volendo semplificare, i vai reati che integrano un’ipotesi di bullismo sono:

 

a) percosse (ex art. 581 c.p.);

b) lesioni (ex art. 582 c.p.);

c) danneggiamenti a cose (ex art. 635 c.p.);

d) ingiurie (ex art. 594 c.p.);

e) diffamazioni (ex art. 595 c.p.);

f) molestie (ex art. 660 c.p.);

g) minacce (ex art. 612 c.p.);

h) atti persecutori (ex art. 612 bis c.p.);

i) sostituzione di persona (ex art. 494 c.p.).

 

Il sistema di tutele prevedeva, e lo prevede tuttora, anche se per casi non specificatamente di bullismo, la querela o la denuncia alle autorità competenti. Ma, siccome molto spesso, gli autori degli atti di bullismo sono minorenni, questi ultimi, a norma di legge, risultano non imputabili. Da qui, quindi, una marcata difficoltà nel garantire un’effettiva tutela delle vittime.

Nel prevedere una specifica tempistica, vale a dire entro tre mesi, salvo alcune eccezioni, dal giorno della notizia del fatto costituente reato, il legislatore non aveva peraltro previsto un adeguamento normativo teso a coprire tutte quelle fattispecie rese possibili dall’utilizzo delle tecnologie mediatiche. In tal senso, il codice penale è stato di volta in volta integrato da una serie di aggravanti in capo all’art. 609 c.p., e, in modo particolare, il legislatore ha individuato le seguenti aggravanti:

 

violenza sessuale online, ai sensi dell’art. 609 ter;

corruzione di minorenne, ai sensi dell’art. 609 quinques;

prostituzione minorile, ai sensi dell’art. 600 bis;

pornografia minorile, ai sensi dell’art. 600 ter;

adescamento di minore, ai sensi dell’art. 609 undecies;

cyberbullismo, ai sensi dell’art. 609 duodecies.

 

Per la violenza sessuale si intende commesso il reato anche in assenza di contatto fisico tra la vittima e l’aggressore.

Per tutti i casi presenti, la procedibilità è d’ufficio, pur in assenza di effettiva querela da parte della vittima interessata, e comunque sempre a partire dalla notizia del fatto costituente, appunto, reato.

In modo particolare, si osserva come prima della L. n. 71 del 2017, il cyberbullismo non costituiva una fattispecie propria, ma una mera aggravante di reati commessi contro i minori. In modo specifico l’art. 609 duodecies c.p. recita come segue «Le pene per i reati di cui agli articoli 609 bis, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 609 undecies, sono aumentate in misura non eccedente la metà nei casi in cui gli stessi siano compiuti con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche». Pur trattandosi di un’integrazione compiuta al fine di recepire in diritto interno la direttiva 2001/93/EU[1], è la stessa direzione entro cui l’ordinamento si è evoluto con la formulazione della L. n. 71 del 2017.

Prima dell’emanazione della legge in questione, il legislatore si è limitato ad integrare l’ordinamento recependo la fattispecie, analoga, ma distinta, del bullismo. Quest’ultimo va inteso come «una forma di comportamento aggressivo di tipo prevalentemente proattivo (detto anche strumentale) in cui uno o più bulli/e aggredisce ripetutamente un/a compagno/a di scuola (la «vittima») che non è in grado di difendersi»[2].

Al fine di meglio comprendere la novità posta in essere dalla legge, però, è bene porre attenzione a come il legislatore ha inteso tale fattispecie, poi confluita nella definizione contenuta nella L. n. 71. Infatti, il responsabile di atti di cyberbullismo è colui il quale usa la propria forza per intimorire o danneggiare, in maniera continuativa, una persona più debole per il tramite delle TIC (tecnologie per l’Informazione e la Comunicazione). Più nello specifico, le condotte ascrivibili a detta fattispecie sono le seguenti:

 

1) messaggi violenti o volgari diretti contro la vittima;

2) molestie dirette contro la vittima;

3) persecuzione della vittima;

4) denigrazione della vittima;

5) esclusione volontaria ed immotivata di un soggetto da una lista di amici.

 

Affinché possa parlarsi per i casi (1) – (5) di cyberbullismo è però necessario che dette condotte siano continuative e perduranti nel tempo, altrimenti si riconducono le stesse a una serie di reati operati ai danni di minori. La cornice temporale è, dunque, chiara; il legislatore ha inteso tutelare i minorenni, come soggetti particolarmente esposti ai fenomeni di cyberbullismo. D’altro canto, le condotte (1) – (5) appaiono essere una particolare declinazione della comunicazione mediale, resa possibile dalle TIC, in voga presso i più giovani. La devianza da un uso lecito, corretto e responsabile delle TIC, pur inscrivendosi all’interno di un ben più vasto ed inquietante deficit di cittadinanza digitale[3], ha delle vittime e dei persecutori ben precisi, ovvero dei minorenni. Tanto i primi quanto i secondi hanno distinti bisogni di tutela e di correzione. Tuttavia, sino alla L. n. 71 del 2017 v’è stato un vero e proprio vuoto normativo in materia di cyberbullismo. È sicuramente vero che la legislazione viene dopo l’evoluzione serrata dei comportamenti umani, ma si è proceduti con molta calma nel colmare detta lacuna, e, purtroppo, solo a seguito di incresciosi e drammatici episodi di cronaca nera.

 

Dopo la Legge n. 71

Il cyber bullismo non è solamente una forma di bullismo compiuto «mediante la rete telematica»[4]. È qualcosa di più sottile, infido e pericoloso. D’altra parte, proprio la strumentalità adoperata modifica sostanzialmente la pratica stessa del bullizzare, o della volontà atta a «imporre la propria personalità con atteggiamenti prevaricatori o di sopraffazione»[5]. Desiderando recuperare parte del tempo perduto, adeguando il diritto alle pratiche umane, il legislatore ha finalmente deciso di inquadrare legalmente la condotta del cyberbullismo.

La L. n. 71 del 2017, Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyber bullismo, si compone di sette articoli. Il primo definisce la fattispecie del cyber bullismo ed enuncia le finalità che il legislatore intende conseguire per mezzo della legge medesima. Il secondo articolo prevede una serie di misure al fine di tutelare la dignità dell’eventuale minore vittima del cyber bullismo. L’articolo tre formula un piano integrato di azioni da intraprendere al fine di contrastare attivamente il fenomeno in questione. L’articolo quattro individua, in capo al MIUR, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca,l’emanazione di linee di orientamento al fine di prevenire e contrastare il fenomeno presente in ambito scolastico. L’articolo cinque descrive i procedimenti da adottare al fine di informare le famiglie coinvolte e le sanzioni da irrorare in ambito scolastico e i progetti di sostegno e di recupero dei rei. L’articolo sei individua le risorse da utilizzare per dare attuazione alla legge medesima. Infine, l’articolo sette descrive l’istituto dell’ammonimento.

Entriamo nel dettaglio.

Il cyberbullismo viene definito, ai sensi dell’arti. 1 c. 2, «qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti online aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in essere un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo».

La ratio della legge è chiara: volendo recare danno ad un minore o ad un gruppo di minori, qualunque mezzo adoperato, tale da integrare l’uso delle TIC, la condotta è di cyberbullismo. A tal fine, il legislatore elenca le varie condotte che possano integrare l’ipotesi di reato denominato come cyberbullismo,

 

i) qualunque forma di pressione attuata tramite le TIC;

ii) qualunque forma di aggressione attuata tramite le TIC;

iii) qualunque forma di molestia perpetrata tramite le TIC;

iv) qualunque forma di ricatto operata tramite le TIC;

v) qualunque forma di ingiuria perpetrata tramite le TIC;

vi) qualunque forma di denigrazione realizzata tramite le TIC;

vii) qualunque forma di diffamazione operata tramite le TIC;

viii) qualunque forma di furto di identità realizzata tramite le TIC;

ix) qualunque forma di alterazione, acquisizione e trattamento illeciti di dati personali per il tramite delle TIC;

x) qualunque forma di diffusione online di contenuti riguardanti un minore o suoi familiari.

 

Trattandosi di minori, il legislatore, ex art. 1 c.1, intende realizzare «azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti». Di conseguenza, l’ambito educativo individuato per le azioni e le finalità previste dalla L. n. 71 del 2017 è la scuola. D’altro canto, il legislatore è, al riguardo, perentorio: «attuazione degli interventi senza distinzione di età nell’ambito delle istituzioni scolastiche».

L’art. 2 aumenta le tutele previste dall’ordinamento, rendendo possibile l’esercizio di una sorta di diritto all’oblio o all’oscuramento sulla rete del materiale che leda la dignità del minore offeso.

L’art. 3 prevede un’azione di sistema tra vari attori istituzionali, con l’istituzione di un tavolo tecnico «per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo» e che riguarda il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero della giustizia, il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero della salute, la Conferenza unificata Stato – Regioni, il Garante della privacy e il Garante per l’infanzia e l’adolescenza. Questo tavolo, entro sessanta giorni dal suo insediamento, ai sensi dell’art. 3 c. 2, redige «un piano di azione integrato per il contrasto e la prevenzione del cyber bullismo» e «realizza un sistema di raccolta di dati finalizzato al monitoraggio dell’evoluzione dei fenomeni e, anche avvalendosi della collaborazione con la Polizia postale e delle comunicazioni e con altre Forze di polizia, al controllo dei contenuti per la tutela dei minori». Parallelamente, si prevede per i gestori di servizi telematici un «codice di coregolamentazione» (c.3). Dalla istituzione del tavolo tecnico e dalle varie attività di monitoraggio non devono derivare nuovi oneri per le finanze pubbliche. Infatti, chi partecipa a questi tavoli non riceve «alcun compenso, indennità, gettone di presenza, rimborso spese o emolumento comunque denominato» (c. 3).

Il piano di cui al c. 2 coinvolge in primo luogo, ovvero primariamente, «i servizi socio – educativi presenti sul territorio in sinergia con le scuole».

L’art. 4 declina in concreto le finalità previste all’art. 1. Entro trenta giorni, il MIUR, sentito il Ministero della giustizia, «adotta linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyber bullismo nelle scuole, anche avvalendosi della collaborazione della Polizia postale e delle comunicazioni». Il c. 2 dell’art. 4, più nel dettaglio, precisa come tali linee di orientamento prevedano

 

1) la formazione del personale scolastico, prevedendo anche la partecipazione di un referente per ogni autonomia scolastica;

2) la promozione di un ruolo attivo di studenti ed ex studenti  per la prevenzione e il contrasto del cyber bullismo nelle scuole;

3) la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti;

4) un sistema di governance diretto dal MIIUR, che possa tenere sotto controllo il fenomeno e le correlate attività messe in campo sul territorio nazionale.

 

La realizzazione di tali linee di orientamento non devono produrre «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

La figura del referente di istituto è descritta nel c. 3 del medesimo articolo. Esso viene individuato da ciascun istituto, nell’ambito della propria autonomia, ed ha il compito di «coordinare le iniziative di prevenzione e di contrasto del cyber bullismo, anche avvalendosi della collaborazione delle Forze di polizia nonché delle associazioni e dei centri di aggregazione giovanile presenti sul territorio».

A livello di prossimità territoriale con le singole istituzioni scolastiche, l’art. 4 c. 4 prevede che gli USR promuovano la pubblicazione di bandi «per il finanziamento di progetti di particolare interesse elaborati da reti di scuole», attraverso sinergie con i servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia, le prefetture, gli enti locali, i servizi territoriali, le Forze di polizia, le associazioni e gli enti, «per promuovere sul territorio azioni integrate di contrasto del cyberbullismo e l’educazione alla legalità al fine di favorire nei ragazzi comportamenti di salvaguardia e di contrasto». La prevenzione, pare chiaro, viene affidata al sistema integrato di educazione dei minorenni, vale a dire alle scuole, pur in cooperazione con altre agenzie pubbliche, di livello nazionale o locale, e con altre agenzie private, come associazioni od enti.

Tuttavia, il successivo comma 5 all’art. 4 appare, se possibile, ancora più imperativo. Infatti, esso recita come segue: «le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, nell’ambito della propria autonomia e nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, promuovono l’educazione all’uso consapevole della rete e ai diritti e doveri connessi all’utilizzo delle tecnologie informatiche, quale elemento trasversale alle diverse discipline curricolari, anche la realizzazione di apposite attività progettuali aventi carattere di continuità tra i diversi gradi di istruzione o di progetti elaborati da reti di scuole in collaborazione con enti locali, servizi territoriali, organi di polizia, associazioni ed enti». In altri termini, il possibile finanziamento, di cui all’art. 4 c. 3, diventa qui obbligo per le istituzioni scolastiche di tutto il Regno onde avviare percorsi trasversali in luogo della didattica curricolare, progetti attraverso i vari gradi di istruzione oppure progetti di scuole in rete. Sempre consentendo la possibilità di avvalersi in ciò della collaborazione di servizi territoriali, di polizia, associazioni ed entri.

L’art. 4 c.6 specifica la posizione delle associazioni coinvolte nelle attività di cui all’art. 4 cc. 3 e 4, vale a dire la realizzazione di «specifici progetti personalizzati volti a sostenere i minori vittime di atti di cyber bullismo nonché a rieducare, anche attraverso l’esercizio di attività riparatorie o di utilità sociale, i minori artefici di tali condotte».

L’art. 5 consta di due commi. Il primo impone al dirigente scolastico, il quale sia venuto a conoscenza di comportamenti qualificabili come cyberbullismo, di informare «tempestivamente i soggetti esercenti la responsabilità genitoriale ovvero i tutori di minori coinvolti e attiva adeguate azioni di carattere educativo». L’istituzione scolastica, dunque, sensibilizza, previene, contrasta, avvia alla rieducazione dei responsabili, ancorché minorenni, di atti di cyberbullismo. A tal fine, il comma seguente prevede l’integrazione dei regolamenti delle istituzioni scolastiche e del patto di corresponsabilità «con specifici riferimenti a condotte di cyber bullismo e relative sanzioni disciplinari commisurate alla gravità degli atti compiuti».

L’art. 6 stanzia delle risorse per finanziare le finalità della presente legge. In modo particolare, il primo comma stabilisce che la Polizia postale e delle comunicazioni, con cadenza annuale in sede di tavolo tecnico, relaziona sugli esiti delle misure di contrasto al fenomeno in oggetto. Il comma 2 stanzia la cifra di € 203000 per ciascun anno del triennio 2016 – 2019. Il comma 3 stabilisce come l’importo di cui al comma precedente gravi per intero sulla spesa vigente, per il tramite di corrispondente definanziamento del bilancio triennale sul fondo  di riserva in capo al Ministero dell’economia e delle finanze. Per far ciò, il comma 4 autorizza il Ministero predetto «ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio».

L’art. 7 introduce un interessante strumento, non contemplato in precedenza, ovvero l’istituto dell’ammonimento. Infatti, fatti salvi il trattamento penale del caso, e in assenza di querela da parte degli aventi diritto,  quando minori di età superiore ai quattordici siano responsabili di atti di cyber bullismo nei confronti di altri minorenni, «è applicabile la procedura di ammonimento», ai sensi del D.L. n. 11 del 2009, convertito, con modifiche, nella L. n. 38 del 23 Aprile 2009. Il comma 2, al riguardo, esplicita la prassi dell’ammonimento. Infatti, il questore «convoca il minore, unitamente ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la responsabilità genitoriale» ed ammonisce il responsabile delle pratiche di cyber bullismo, ai sensi dell’art. 8 della L. n. 38 del 2009. Gli effetti dell’ammonimento, però, cessano «al compimento della maggiore età», come precisato dal c. 3 dell’art. 7 della L. 71 del 2017.

 

Prospettive e problematiche aperte

Come visto, la L. n. 71 ha degli aspetti indubbiamente positivi, ma altri quantomeno controversi o di difficile realizzare.

Anzitutto, appare riduttivo circoscrivere gli interventi di prevenzione e di contrasto al mondo scolastico. È pur vero che molto spesso questi atti avvengono all’interno delle mura scolastiche o nelle loro immediate pertinenze, ma questo si attaglia meglio al bullismo, e non  al cyberbullismo. È, infatti, certo come le condotte configurabili nei termini di cyber bullismo non abbiano luogo necessariamente durante la presenza di minori a scuola. Anzi, proprio per sua esplicita definizione, le pratiche dei cyber bulli non hanno confini temporali lungo l’arco della giornata, proprio per via del medium adoperato per perseguitare le proprie vittime (email; messaggistica istantanea; gruppi social; reti sociali; chiamate anonime; etc.). Già da questo suona quantomeno strano attribuire alla scuola il compito di vigilare sulle condotte che cadano sotto l’ipotesi di cyberbullismo. E come potrebbe senza autorizzazioni e capacità di investigazione? Al riguardo, probabilmente, e a mio sommesso parere, il legislatore ha pasticciato un po’, equivocando concettualmente tra le due fattispecie, trasferendo una certa politica educativa dal primo al secondo, centrando sulla realtà scolastica l’onere principale della rieducazione dei responsabili del cyberbullismo[6]. Ma, a ben guardare, in realtà, v’è un refuso che torna puntualmente nelle politiche scolastiche degli ultimi trent’anni, vale a dire il principio della culpa in vigilando. Una responsabilità tanto precisa quanto ineluttabile, e a prescindere dalle concrete modalità di realizzazione del servizio scolastico in quanto tale, che discende dagli artt. 357 e 361 c.p., a loro volta emanazione del disposto di cui all’art. 28 Cost., il quale, appunto, così recita «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Quindi, la scuola deve attivarsi concretamente con azioni e misure atte a prevenire, contrastare, rimuovere eventuali atti di bullismo. E il cyberbullismo? Come può la scuola occuparsene? Come contrastarlo? Nelle Linee di orientamento, di cui all’art. 4 c. 2 della L. n. 71 del 2017, si punta il dito sulla formazione del personale scolastico, sulla figura del referente di istituto, su misure rieducative dei minori coinvolti e un maggior raccordo con Ministero, la Polizia postale, le scuole di rete, le associazioni e gli enti che insistono sul territorio … e basta? Tutto qui? È poco, ad onor del vero, e non si capisce realisticamente quali siano le effettive aspettative o pie speranze del legislatore.

Tuttavia, ad onor del vero, il disposto previsto dai vari articoli della presente legge ha anche un altro effetto, poco nobile certo, ma funzionale e semplice, ovvero scaricare, in fin dei conti, sulle realtà locali la responsabilità di riempire di contenuti e di azioni la cornice vuota delineata dalla legge. E, cosa che è peggio, in aggiunta a tutte le responsabilità, oneri e funzioni già adesso in carico all’istituzione scuola. Il successivo c. 5 dello stesso articolo, infatti, affida alle scuole, fatta salva la loro autonomia statutaria e «nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente» pratiche educative sull’uso consapevole della rete internet e della connessa comunicazione mediale tramite le TIC. Tradotto in scuolese, ciò significa: molta gloria, poca remunerazione. Ovvero, il legislatore affida ulteriori compiti e funzioni alla scuola, ma senza fornire gli strumenti finanziari per realizzarli a pieno. Come a dire che, da un lato, e solennemente, il legislatore affronta l’odiosa pratica del cyberbullismo, e, dall’altro lato, non reputa rilevante la pratica stessa dal momento che ogni intervento dovrà realizzarsi a costo zero, vale a dire senza alcun incremento della spesa pubblica e a legislazione vigente. Dire che è un modo di procedere pilatesco, probabilmente, anzi molto probabilmente, non rende giustizia alla pochezza dello strumento messo in campo contro il cyberbullismo. Questa intima fragilità, o questo “gigante” dai piedi di argilla, senza adeguate risorse e/o dotazioni strumentali, viene a galla quando, entrando a gamba tesa sulle funzioni curricolari delle singole istituzioni scolastiche, il legislatore impone a queste ultime interventi educativi sulle TIC e la correlata comunicazione social da svolgersi in alternativa alla didattica curricolare. Ora, è vero che all’interno della propria autonomia, ciascuna istituzione scolastica ha margini di flessibilità della propria offerta formativa, ma, configurandosi quale onere aggiuntivo, e che non sostituisce nessuno di tutti gli altri già gravanti, e nel caso specifico segnatamente quello relativo agli apprendimenti curricolari, perché le scuole dovrebbero occuparsene? Solo per spirito di dovere? Per nobile idea di missione? Trattandosi di un nuovo obbligo, l’ennesimo a costo zero, verrà ottemperato, ma con quale animo? Con che qualità? Con quale professionalità? D’altro canto, la professionalità non va riconosciuta in quanto tale? Non la si paga? Non la si riconosce economicamente? A scuola, invece, le cose vanno diversamente dal mondo: si devono fare tante altre cose, aggiuntive rispetto al servizio scolastico in quanto tale, ma sostanzialmente gratuitamente. Si dirà che per l’aggiornamento professionale vi sono le misure previste dalla L. n. 107 del 2015, ma è facile replicare che ciò ha “drogato” il mercato, moltiplicando gli attori e le correlate offerte formative, inflazionandone il costo relativo. Si dirà anche che la stessa 107 ha istituito un bonus premiale che potrebbe essere adoperato, appunto, per premiare questo nuovo impegno assunto dalla collettività scolastica. Ma, a parte il fatto che si tratta di un fondo piuttosto ristretto e con il quale si deve premiare una molteplicità di impegni scolastici, praticamente esplosi e accresciuti a dismisura negli ultimi anni, la sua natura accessoria, sottoposta a ritenute fiscali e previdenziali non indifferenti, oltre che la sua aleatorietà, dal momento che può venir concesso o meno dal dirigente scolastico a sua insindacabile scelta, lo rendono poco attraente per il personale scolastico. Figuriamoci, poi, se congruo a premiare un nuovo impegno da parte del personale docente riguardo al cyberbullismo.

L’unico stanziamento ulteriore di risorse previsto è quello stanziato all’art. 6 c. 2 il quale integra il fondo finanziato dall’art. 12 del Dgls n. 48 del 2008, Fondo per il contrasto della pedopornografia su internet e per la protezione delle infrastrutture informatiche di interesse nazionale. Poca roba, la quale, peraltro, non va direttamente a rimpinguare le già scarse casse scolastiche. Peraltro, il seguente c. 3 precisa che l’aumento di spesa salvaguarda i saldi finali, lasciandoli invariati. Infatti, le risorse vengono reperite riducendo il fondo speciale in capo al Ministero dell’economia e delle finanze per il bilancio triennale 2017 – 2019. Così stando le cose, appare davvero improbabile che gli interventi realizzati possano essere di qualità. Infatti, dipendenti costretti gratuitamente a nuovi oneri gloriosi non possono che cercare di ottimizzare il loro profitto, vale a dire cercare di evitare una prestazione ulteriore di natura gratuita. Sì, la formazione è obbligatoria, permanente e strutturale, ma la stessa, prevista dalla L. 107 del 2015, è vittima della stessa politica legislativa la quale impone nuovi obblighi ma a saldi invariati. Pertanto, l’obbligo viene imposto, ma non finanziato. Di conseguenza, si lascia agli autogoverni delle varie istituzioni se, e in che misura, deliberare collegialmente l’adesione a percorsi di formazione interna o di rete. Perché i collegi dei docenti dovrebbero imporsi ulteriori carichi di lavoro e di aggiornamento a costo zero? Sì, ci sarebbe il FIS ma la sua natura esigua fa automaticamente sì che venga adoperato per altre spese, più direttamente connesse all’effettuazione del servizio scolastico vero e proprio, vale a dire gli apprendimenti degli alunni e gli interventi di sostegno e recupero, e non la sensibilizzazione o l’aggiornamento in materia di cittadinanza digitale.

In conclusione, per terminare la presente rassegna di criticità inerenti al presente provvedimento, vorremmo accendere l’attenzione su un aspetto più di sistema, ma in genere taciuto. Purtroppo, il legislatore, ma in ciò in buona compagnia con molti altri attori della società civile, conserva gelosamente un’idea retorica della scuola, per nulla attinente a quella reale, e a partire da quest’ultima tende a considerare la dinamica delle pratiche di insegnamento e apprendimento del tutto lineare, credendo, a torto, che ad un determinato input X corrisponda un preciso e solo quello output Y. Non è così. Forse lo era un tempo, oppure non lo è mai stato, comunque non è realistico immaginare una tale linearità nell’operato della scuola. Chiunque abbia familiarità con la scuola di oggi e con gli alunni attuali sa bene come un input X non generi automaticamente il risultato desiderato, ovvero Y. Prova ne sia che se così fosse, le carenze o le insufficienze o le ripetenze o gli abbandoni sarebbero trascurabili. A meno che non vi siano dei dipendenti infedeli, fannulloni, oziosi, viziosi, … Ma questo è un corollario alla precedente idea retorica di scuola. Ciò significa che interpretare la scuola, come si è fatto sempre più, e a partire dal D.P.R. n. 275 del 1999, come luogo di formazione ed educazione sia un corollario a questa falsa immagine di scuola ove basti pigiare il tasto X per sortire l’effetto Y. Ma gli alunni non sono materia inerte, beni materiali che non oppongano alcuna resistenza al proprio modellamento. Sono un capitale umano, ovvero immateriale, e profondamente complesso, non riducibile alla semplice linearità X – Y! Eppure, il legislatore si ostina a pensarli così, a immaginare idealisticamente la scuola come un luogo di (facile) educazione al cui interno diligenti educatori educhino magnifici educandi! Trascurare ciò, a ben guardare, si presta ad un’altra interpretazione, di certo più malevola della semplice buona fede errata. Ovvero, ricondurre, quando non più opportunamente demandare, determinate pratiche all’educazione comporta probabilmente sì dei risultati qualitativamente inferiori ai desiderata, ma comunque, e sicuramente, dei risultati incomparabilmente più economici. Di fronte a questo ragionamento, risultati di bassa qualità a costo quasi zero, dunque, dilegua ogni possibile speranza futura di nuovo finanziamento equo, oltre che congruo, dell’istruzione pubblica. E parimenti eclissa una risposta di qualità al cyberbullismo nel caso specifico, a meno che dipendenti eroici non vogliano sacrificare il proprio tempo, libero e professionale, per assicurare una risposta di prevenzione, contrasto e sensibilizzazione riguardo al cyberbullismo di qualità, ovvero che vada ben oltre gli angusti limiti di una disposizione di legge imperativa ma asfittica. D’altro canto, chi lavora a scuola sa benissimo che le pratiche didattiche, così come quelle educative, sebbene ben condotte in ambito scolastico, hanno scarsa, quando nessuna, efficacia formativa per gli alunni se queste stesse non sono collegate alle pratiche domestiche. In assenza, infatti, di coordinamento e di raccordo tra scuola e famiglie, quando non del tutto di alleanza educativa, nessun risultato apprezzabile può venir raggiunto[7]. E con buona pace del decisore politico così come della pubblica opinione!

 

Alessandro Pizzo

http://alessandropizzo.blogspot.it

 

 

Bibliografia

  1. Garofano – L. Puglisi, La prepotenza invisibile. Bulli e cyber bulli: chi sono, come difendersi, Infinito, 2016.
  2. Gini, Comprendere ed affrontare il bullismo a scuola, in D. Ianes – S. Cramerotti, Dirigere scuole inclusive. Strumenti risorse per il dirigente scolastico, Erickson, Trento, 2016, pp. 237 – 251.
  3. Longo, Introduzione, a: M. Berti – S. Valorzi – M. Facci, Cyerbullismo. Guida completa per genitori, ragazzi e insegnanti, Reverdito, Trento, 2017, pp. 7 – 9.
  4. n. 71/2017.

http://www.altalex.com/documents/news/2016/10/12/cyberbullismo

http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-ii/art609duodecies.html.

http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=bullismo.

http://legale.savethechildren.it/Operatori/Tag/Details/6c00c90b150142edb404a9ebc84454ff.

http://www.treccani.it/vocabolario/cyberbullismo_%28Neologismi%29/.

 

 

[1] Cfr. http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-ii/art609duodecies.html.

[2] Cfr. G. Gini, Comprendere ed affrontare il bullismo a scuola, in D. Ianes – S. Cramerotti, Dirigere scuole inclusive. Strumenti  risorse per il dirigente scolastico, Erickson, Trento, 2016, p. 240.

[3] Spesso si annovera, con stupore, la capacità dei più giovani, a differenza dei non più giovani, a saper utilizzare le nuove TIC. Si tratta, ad uno sguardo più smaliziato, di un errore di prospettiva. Infatti, saper utilizzare i nuovi dispositivi o i nuovi linguaggi non equivale a saperlo fare in scienza e coscienza, vale a dire in maniera pienamente consapevole. Cfr. D. Longo, Introduzione, a: M. Berti – S. Valorzi – M. Facci, Cyberbullismo. Guida completa per genitori, ragazzi e insegnanti, Reverdito, trento, 2017, p. 7: «La capacità tecnica di usare uno strumento informativo non significa che lo si sappia usare consapevolmente».

[4] http://www.treccani.it/vocabolario/cyberbullismo_%28Neologismi%29/.

[5] http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=bullismo.

[6] Questo sostanziale equivoco trova adeguata spiegazione sul portale Altalex ove si legge che «La versione da ultimo approvata riproduce, nella sostanza, quella del disegno di legge come originariamente concepito. Gli emendamenti aggiunti dalla Camera nel settembre 2016, che avrebbero allargato l’ambito di applicazione della legge a fenomeni di “bullismo” in generale, consentito l’accesso alla procedura di oscuramento, rimozione o blocco dei contenuti ritenuti offensivi a chiunque (e non solo ai minori), e inasprito l’impianto sanzionatorio anche sul piano penale – tutti fortemente criticati da professionisti ed esperti del settore – sono infatti stati espunti dal Senato in seconda lettura.

La norma torna quindi a configurarsi quale strumento legislativo speciale, rivolto al solo fenomeno del cyberbullismo fra i giovani e fondato su un approccio più “educativo” che “repressivo”: l’unica misura sanzionatoria aggiuntiva prevista nei confronti del minore che abbia compiuto atti di cyberbullismo è infatti rappresentata dall’ammonimento, già prevista per il reato di stalking ed esperibile fino all’eventuale querela o denuncia». Cfr. http://www.altalex.com/documents/news/2016/10/12/cyberbullismo.

[7] Cfr. L: Garofano – L. Puglisi, La prepotenza invisibile. Bulli e cyber bulli: chi sono, come difendersi, Infinito, 2016, p. 15: «le strategie anti-bullismo e le punizioni scolastiche non possono funzionare da sole, se non coordinate con un serio intervento in ambito familiare».

Pizzo Alessandro

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