Il cyberstalking è un reato del quale si parla poco nonostante, al giorno d’oggi, si faccia un uso intenso di internet, chat, social network, newsletters e message boards.
Occorre precisare che non esiste nel codice penale o in altra fonte giuridica una definizione vera e propria di cyberstalking. Con tale termine si intende l’utilizzo di dispositivi informatici di comunicazione come internet o la posta elettronica con la finalità di molestare una persona.
Per inquadrare la fattispecie giuridica del reato in esame occorre procedere ad un excursus tra i reati di molestia (art.660 c.p.), di minaccia (art.612 c.p.) e di atti persecutori (art.612-bis c.p.).
L’art.660 c.p. prevede che “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”. Esaminiamo la fattispecie di reato con riferimento al bene giuridico tutelato, alla condotta tipica ed all’elemento soggettivo.
Quanto al bene giuridico, la norma tutela l’ordine pubblico sotto il profilo della minaccia alla tranquillità pubblica. In tema di condotta tipica, la fattispecie de qua punisce tutti i soggetti che, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero per mezzo del telefono arrechino ad altri disturbo o molestia. Ma cosa si intende per disturbo o molestia? Per molestia deve intendersi ciò che altera in modo doloso, con fastidio ed in modo inopportuno la condizione psichica di una persona. Per disturbo, invece, si considera ciò che altera le normali condizioni di svolgimento di un’attività da parte di un soggetto. Secondo la disposizione normativa sia la molestia che il disturbo vanno valutati con riferimento alla psicologia normale delle persone e cioè tenendo conto del modo di vivere delle stesse. Inoltre la condotta deve essere posta in essere in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Un piccolo passo in avanti è stato fatto nel 2004 dalla giurisprudenza (Cass. Pen., Sez. III, 26.03.2004, n.28680) la quale ha ammesso anche la punibilità della molestia commessa a mezzo del telefono includendo anche l’invio di sms. Infine, quanto all’elemento soggettivo, l’art.660 c.p. richiede che il soggetto agente sia mosso da petulanza o da altro biasimevole motivo. Ciò implica che la condotta posta in essere sia caratterizzata dal dolo specifico ed infatti si richiede che il fine specifico sia quello di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà. Anche qui occorre interpretare cosa si intenda per petulanza e per biasimevole motivo. Per petulanza si intende l’atteggiamento di colui che insiste ad interferire nell’altrui sfera di libertà pur accorgendosi che tale intervento non è gradito. Per biasimevole motivo, invece, va inteso un comportamento, diverso dalla petulanza, ma che è ugualmente riprovevole in sé o in relazione alla persona molestata.
L’art.612 c.p. prevede, al suo co.1, che “Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 1.032”. Occorre procedere, anche nel reato di minaccia, all’esame degli elementi costitutivi del reato: il bene giuridico protetto, il soggetto attivo, il soggetto passivo, la condotta e l’elemento soggettivo. Con riferimento al bene giuridico tutelato, l’individuazione dello stesso appare controversa. Parte della dottrina lo ha individuato nella libertà morale e psichica del soggetto che può essere compromessa a causa del timore ingenerato dalla minaccia altrui (Pisapia); secondo altra parte della dottrina, invece, il bene direttamente offeso va individuato nella tranquillità individuale e cioè nell’interesse di ciascun individuo a vivere libero da ogni preoccupazione (Antolisei, Fiandaca-Musco, Mantovani). Quanto ai soggetti, il reato di cui al 612 c.p. è un reato comune e, pertanto, il soggetto attivo può essere chiunque; al contrario il soggetto passivo deve essere determinato o determinabile. In relazione alla condotta incriminata, essa deve consistere nella minaccia ad altri di ingiusto danno. Per minaccia si deve intendere la prospettazione ad una persona di un danno o di un male futuro, la cui verificazione dipende soltanto dalla volontà dell’agente e il cui destinatario deve essere il soggetto passivo oppure un terzo a quest’ultimo legato da vincoli di parentela o di altro tipo. L’elemento essenziale della minaccia consiste nella capacità di intimidire il soggetto passivo del reato e nel male ingiusto prospettato, dovuto alla volontà dell’agente. Va da sé che la capacità intimidatoria deve essere accertata in modo rigoroso sulla base di un parametro di valutazione standard, di carattere medio. Occorrerà, quindi, tenere conto di volta in volta delle condizioni oggettive (tempo e luogo) e delle circostanze soggettive (condizioni fisiche e psichiche del soggetto passivo). La minaccia si può realizzare con parole, con gesti e persino con atteggiamenti psicologici e deve essere percepita o, quantomeno, percepibile. Essa, altresì, deve essere idonea a produrre una intimidazione e cioè deve essere capace, mediante un giudizio ex ante, di ingenerare un senso di timore e di paura nel soggetto passivo. Infine, riguardo all’elemento soggettivo del reato in esame, esso è dato dal dolo generico e consiste nella coscienza e nella volontà di minacciare ad altri un ingiusto danno fornendo, in tal modo, sia la percezione della minaccia che l’ingiustizia del danno.
L’art.612-bis c.p. – titolato “Atti persecutori” – è stato introdotto, per fornire una disciplina al fenomeno sempre più diffuso dello stalking, con il D.L. 23 febbraio 2009, n.11 ed è stato parzialmente modificato dal D.L. n.93/2013 convertito poi in L. 119/2013.
La Cassazione, infatti, proprio per colmare la lacuna della mancata punibilità dello stalking, ha talvolta ricondotto gli atti persecutori nel reato di molestie o di disturbo alle persone ex art.660 c.p., manipolando la relativa contravvenzione attraverso la modifica del bene giuridico tutelato e spostando, in tal modo, l’attenzione dalla tranquillità pubblica alla quiete privata. Ciò ha portato ad incidere anche sugli elementi costitutivi del reato, trasformando la contravvenzione da reato di mera condotta a reato abituale.
Sotto la tutela dell’art.660 c.p. ricadono le molestie telefoniche, anche tramite sms, ma non quelle attuate dallo stalker mediante posta elettronica in quanto, anche se astrattamente riconducibili al mezzo epistolare, non sono sufficienti a realizzare la fattispecie incriminatrice della norma de qua, in quanto con l’invio di e-mail non si determina un’intrusione immediata nella sfera privata del destinatario, essendo necessaria la sussistenza di altre circostanze dettate dalla norma, quali il luogo pubblico o l’uso del telefono. L’esigenza di espandere la tutela del bene protetto della tranquillità della sfera della libertà privata ha incontrato un limite nei principi di legalità e di tipizzazione delle condotte illecite, sanciti dall’art.25, co.2 Cost. e dall’art.1 c.p., pertanto il mezzo della posta elettronica non è stato equiparato all’utilizzo del telefono.
L’art.612-bis c.p., tuttavia, non contempla e non disciplina il reato di cyberstalking, menzionando soltanto in via generica gli “strumenti informatici o telematici” al suo co.2.
Vediamo, adesso, i tratti che accomunano e che distinguono i reati di stalking e di cyberstalking.
L’art.612-bis co.1, c.p. prevede che “è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Anche per questa fattispecie di reato è doverosa l’analisi dei suoi elementi costitutivi: il soggetto attivo, la condotta tipica e l’elemento soggettivo. Il bene giuridico protetto è la libertà morale. Tuttavia, con riferimento ai casi in cui la condotta criminosa determini nella vittima uno squilibrio psicologico, l’interesse tutelato tende a coincidere con l’incolumità individuale. Il soggetto attivo può essere chiunque, trattandosi di un reato comune. La condotta tipica consiste nella reiterazione di comportamenti minacciosi (art.612 c.p.) o molesti (art.660 c.p.) tali da ingenerare “un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Il delitto in esame è, dunque, costruito secondo lo schema del reato di evento. Per l’esattezza, la norma individua tre tipi alternativi di evento, che devono essere causati dal comportamento criminoso tenuto dall’agente, in mancanza dei quali non si configurerebbe il reato di atti persecutori ma si integrerebbero soltanto plurimi reati di minaccia o di molestia. Infine l’elemento psicologico è dato dal dolo generico, pertanto l’agente non solo si rappresenta l’evento ma lo vuole come conseguenza della propria azione.
Nel cyberstalking appare più difficoltosa l’individuazione degli elementi costitutivi del reato.
Il cyberstalker agisce secondo diverse modalità di azione: l’invio di quantità enormi di e-mail spesso caratterizzate da toni offensivi o sgradevoli; l’intrusione nel sistema informatico della vittima con programmi atti ad assumerne il controllo (trojan horses) o a danneggiarlo (virus); l’assunzione dell’identità del perseguitato spendendo il relativo nome in rete (chat, newsletters, message boards) e associandovi contenuti lesivi della dignità della persona.
Non tutte queste condotte di incursioni telematiche sono suscettibili di essere ricondotte nel delitto di atti persecutori, ma solo quelle che costituiscono “minacce” e “molestie” dirette verso la persona offesa, così come espressamente disciplinato dall’art.612-bis c.p. Ciò porta ad escludere dal novero degli atti persecutori punibili quelle condotte di cyberstalking che, pur non indirizzate precisamente e direttamente alla vittima, costituiscono misure di accerchiamento della stessa da parte dello stalker, quali ad esempio la diffusione telematica di video che la riguardano e gli interventi anonimi in chat o forum.
Occorre, infine, precisare una delle differenze fondamentali tra stalking e cyberstalking: i cyberstalkers possono rimanere quasi anonimi. C’è una percezione comune erronea sul fatto che il cyberstalking sia meno pericoloso dello stalking poiché non implica il contatto fisico. Lo stalker decide di non confrontarsi con la vittima, l’anonimato di internet, invece, permette all’individuo di minacciare e molestare tramite le comunicazioni elettroniche: l’ambiente del cyberspazio consente al cyberstalker di superare le proprie inibizioni personali. Il carattere di anonimato fa sì che il molestatore superi qualsiasi “dubbio” sulla propria condotta, così perpetuandola. L’anonimato rende difficile identificare, localizzare e anche arrestare i cyberstalkers che, a loro volta, usano la tecnologia per eliminare e cancellare le loro tracce.
In definitiva, viste le carenze nella tecnica di formulazione dell’art.612-bis c.p., alla giurisprudenza è stato affidato il difficile compito di sostituto del legislatore nel delineare il perimetro di punibilità del delitto di stalking. I principi espressi dai giudici di legittimità nelle sentenze se, da un lato, si sforzano di recuperare le carenze di determinatezza della norma dall’altro finiscono per rendere ancora più ampi ed incerti i confini della fattispecie di atti persecutori non eliminando i dubbi di legittimità costituzionale della fattispecie. L’importanza del principio costituzionale di tassatività e determinatezza della fattispecie penale è stata ribadita dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza 24 marzo 1988, n.364 che ha sancito il ruolo fondamentale del principio di colpevolezza nel diritto penale. Nella rilettura dei principi costituzionali che presiedono alla materia penale, il giudice delle leggi si è soffermato anche sul principio di determinatezza, ancorando il principio di colpevolezza all’effettiva possibilità di conoscere la legge penale, che costituisce necessario presupposto della rimproverabilità dell’agente. Di conseguenza si è statuito l’obbligo per il legislatore di formulare “norme precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento” in modo tale che il destinatario della norma possa trovare prescrizioni tassative che gli rendano chiaro ciò che è lecito e cosa, invece, gli è vietato.
Proprio al fine di colmare la lacuna legislativa é intervenuta la Corte di Cassazione con la pronuncia n.36894/2015. Nel caso di specie si trattava di una relazione terminata in cui l’ex fidanzato, condannato sia in primo che in secondo grado per il reato di atti persecutori, non rassegnandosi, insisteva nel minacciare e nel perseguitare la donna ponendo in essere atti violenti nei confronti della stessa. Il cyberstalking si configurava, quindi, nel particolare atteggiamento tenuto dall’uomo. Egli, infatti, creava profili falsi a nome della vittima su social network frequentati da maniaci sessuali, i quali la contattavano credendola disponibile per i propri interessi. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché la condotta sopra citata, insieme ai ripetuti episodi di minacce, persecuzioni e atti di violenza nei confronti della parte offesa integravano senza dubbio il reato di stalking.
In materia di cyberstalking esistono altre pronunce della Suprema Corte che hanno aperto la strada alla sentenza del 2015. La prima sentenza è la n.32404/2010. In quell’occasione l’imputato aveva posto in essere continui episodi di molestie concretatisi in telefonate, invii di sms e di messaggi di posta elettronica, nonchè, di un filmato che lo ritraeva durante un rapporto intimo con la vittima pubblicato a mezzo Facebook. Con la pronuncia n.25488/2011 la Cassazione ribadisce che anche l’invio di continui messaggi di minacce su Facebook, unitamente alle altre condotte persecutorie, integra il reato di stalking.
Le pronunce sul cyberstalking, tuttavia, al momento rimangono ancora in numero esiguo e, non esistendo una norma che disciplini tale reato, si fa ricadere sempre questa nuova fattispecie di reato in quello di stalking.
Concludendo, in Italia le tecnologie informatiche stanno conoscendo il massimo sviluppo in questi anni con una diffusione sempre più capillare di connessioni internet nelle famiglie e nei luoghi di studio e di lavoro. Sarebbe, pertanto, opportuna una rielaborazione del reato di molestia e disturbo alle persone per garantire tutela nei confronti delle condotte attuate con mezzi come la posta elettronica o istant messenger, i quali non possono rientrare nel luogo pubblico richiesto dalla norma e possono essere considerate attuate con il mezzo del telefono solo con una interpretazione estensiva in malam partem dell’art.660 c.p.
Sarebbe, infine, altresì auspicabile, visti i numerosi episodi che si stanno verificando, che il legislatore rivedesse la norma del 2009, adeguandola alla nuova realtà.
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