Prosegue meritoriamente l’iniziativa culturale della collana ResPublica per i tipi di Rubbettino (Soveria Mannelli). Buon ultimo il volume di Georg Jellinek, “Il Tutto” e “l’Individuo”, scritti di filosofia, politica e diritto, a cura di Sara Lagi e consistente nella traduzione di quattro saggi “minori” del valente giuspubblicista, selezionati e tradotti dalla curatrice, dietro la scelta del rapporto dualistico tra l’esperienza singola, individuale, e la dimensione complessiva dell’agire sociale (politico, giuridico).
Il lavoro che presenta il volume (pp. 7-68) è un lungo studio in cui lo sforzo prevalente sembra essere stato quello di ricostruire la formazione culturale dello studioso e, soprattutto, le implicazioni di questa formazione nell’elaborazione concettuale che accompagnò Jellinek (pur non senza i ripensamenti ravvisabili nella datazione dei saggi) fino alla morte.
La curatrice elegge a esempio della complessiva prospettiva gnoseologica, antropologica ed epistemologica di Jellinek il costante raffronto tra Leibniz e Schopenhauer e, in qualche modo derivandola da quest’impostazione, le relazioni intrinseche tra il pensiero di Goethe e quello di Spinoza. Lo spunto sembra meritevole, oltre che nei fatti percorribile, senonché giustamente si nota che mentre tra Leibniz e Schopenhauer Jellinek lascia profilare una netta opposizione, non così è da osservarsi nel confronto tra il pensiero di Goethe e quello di Spinoza. Il dato sembrerebbe conseguenza di un’interpretazione corretta (benché non del tutto condivisibile) del pensiero di Jellinek, che, anche in nome della propria personalissima posizione estetica, trova Goethe e Spinoza sostanzialmente lungo la stessa linea. Un azzardo ricostruttivo che Jellinek percorre ben consapevole di come Goethe, in realtà, anche in modo espresso, ritenesse di non qualificarsi “spinoziano”.
Il dato fondamentale, realmente essenziale e fondativo anche per l’analisi teorico-giuridica, è il peculiare angolo prospettico attraverso cui il giurista fonda l’irriducibilità tra Leibniz e Schopenhauer (p. 71, ma, meglio, pp. 101-106): il primo ben collocato in una dimensione progressiva e relazionale della storia umana, il secondo schiacciato in un pessimismo che, in realtà, Jellinek declina essenzialmente come solipsismo e volontarismo a-intellettuale. È inevitabile che lo studioso si trovi a proprio agio soltanto nel primo solco: quello in cui la relazione è veridica e irrinunciabile, quello in cui le istituzioni giuridiche umane non sono malcelate trappole dell’intelletto, ma conquiste dello svolgersi dell’esperienza individuale.
Più forzosa in Jellinek è forse la traiettoria di comparazione tra Goethe e Spinoza, ma qui è bene intendersi su un punto. Non esiste teorico del diritto (quale che sia la casacca che ha scelto di indossare: giusrealista, giuspositivistica, giusnaturalistica, o le infinite sfumature di questa rudimentale divisione) che non risenta nella selezione degli argomenti espositivi delle proprie valutazioni personali. Nello Jellinek che ha cognizioni ampie di storia delle religioni e che ha un legame profondo con la tradizione ebraica (addirittura quella, coltissima, rabbinica e riformatrice), Spinoza appare il lungimirante teorico di una visione propositiva della stessa teologia, ordinata intorno al concetto del Deus sive Natura. Goethe rappresenta, invece, un modello di suggestioni, sensibilità e raffinatezza incontrastato nella generazione e nell’ambiente di studi nel quale, pur con una sua originalità, Jellinek è intrinsecamente incardinato. Il parallelismo tra i due risponde, perciò, limitatamente ad un orientamento esegetico e, pare di poter concludere senza troppe banalizzazioni, molto più a una questione affettiva, ideale, culturale.
Il saggio più interessante, in una prospettiva più marcatamente giuridica, è verosimilmente l’ultimo riprodotto (“Il diritto delle minoranze”). Non si fa torto né a Jellinek né alla meticolosità della curatela -che correda le originarie citazioni bibliografiche di Jellinek con ulteriori riferimenti dottrinali- ritenere il penultimo lavoro (“Il futuro della guerra”) non solo promanante da una specifica visione della filosofia della storia, ma non minormente versione più ridotta e accessibile di convincimenti che Jellinek ha meglio espresso anche in altre sedi. Forse, qui si coglie come Jellinek sia duplicemente avvinto in due posizioni teoriche non del tutto originali sul crinale tra XIX secolo e XX secolo. Oltre all’evidente afferenza al filone della giuspubblicistica tedesca affermatasi in modo assolutamente preponderante dopo la seconda metà dell’Ottocento, si nota, infatti, un’indole essenzialmente pacifica dell’A. in cui, però, la guerra non è del tutto espunta dall’orizzonte della politica. Anzi, in qualche misura, la contraddizione di questo ambito teorico è esattamente in ciò: ritenere che un “quantitativo minimo” di belligeranza nel diritto internazionale possa risultare funzionale al sempre migliore avanzamento della sua componente pacifica, conciliativa, arbitrale. E, in effetti, molto Jellinek ha scritto a favore di una visione arbitrale di forme (negoziali) di giurisdizione internazionale tra gli Stati.
Quanto al diritto delle minoranze, Jellinek lo colloca in una dimensione prettamente liberale. Scevra da formalismi, certo (p. 165), al punto che l’idea che un sistema politico-parlamentare possa garantire l’esercizio delle libertà soltanto nell’analitica trattazione degli aspetti quantitativi della rappresentanza è logicamente e fortemente bandita (p. 169). Eppure, a queste dinamiche Jellinek non è insensibile: da giuspubblicista, sa che in qualche momento del suo operato concreto un ordinamento giuridico dipende dalla rispondenza e dall’accuratezza dei suoi istituti. Tra gli esempi su cui Jellinek gioca il delicato equilibrio tra la rilevanza specialistica del riformismo giuridico e la natura non esclusivamente giuridico-formale del sistema politico, due paiono degni di specifica menzione. In primo luogo (p. 173), l’influenza di puritani e indipendentisti nei movimenti rivoluzionari anglosassoni , dei quali, in realtà, Jellinek richiama con forza soprattutto l’idea di una distribuzione pienamente comunitaria del potere terreno e di quello spirituale. Oltre alle simpatie per il mondo evangelico, in questa sede si nota pure come Jellinek conoscesse il modello teologico-organizzativo anglicano, ove si parla correntemente di una Chiesa “alta”, di una Chiesa “media” e di una Chiesa “bassa” (meno legalista, ma più percepibilmente devota alla tradizione puritana).
In più, Jellinek nota pure il mutevole atteggiarsi dell’elemento “demos” nei processi di costituzionalizzazione, sino a definire alcune scelte “bizzarre” e “particolari” -come l’inserto nella Costituzione svizzera del divieto di macellazione. Il comparatista di oggi, alleato a quello di ieri, può notare come le Costituzioni più dettagliate spesso siano anche quelle di comunità politiche relativamente ristrette, per le quali nel testo costituzionale la norma di dettaglio è tutto fuorché episodica, anzi attualissima anche come tecnica di produzione del diritto (si ricordi, di recente, l’introduzione del divieto dell’edificazione di minareti).
È assai più controverso capire da quale accezione di “minoranza” muova Jellinek. La lunga analisi dei modelli di diritto parlamentare ci lascia intuire, però, che si tratti di un significato essenzialmente “borghese” di minoranze. Indicando con ciò due aspetti. Che ad essere oggetto dell’attenzione non è né una teoria giusfilosofica delle minoranze, né una sua analisi materiale o di classe, quanto piuttosto la possibilità del loro esercizio delle libertà politiche. E, soprattutto, che la garanzia delle minoranze non possa che legarsi a filo doppio con la libertà dei propri appartenenti, singolarmente considerati. Jellinek è, in fondo, più che teorico dello Stato liberale, teorico “nello” Stato liberale, dove, ad esempio, il diritto di libertà religiosa è risolto nell’irrilevanza della professione religiosa per l’esercizio dei diritti politici e civili. Jellinek intuisce l’insufficienza di questo modello -e ne patirà le conseguenze, se limitato alla sua dimensione formale, ma ancora non riesce a proporvi (né gli interessa) una visione radicalmente alternativa.
Per comprendere le illusioni politiche della cultura europea tra XIX e XX secolo Jellinek, perciò, ci torna utile quasi quanto lo è leggere Der Mann ohne Eigenschaften per comprenderne il seguito. Lì, per stare alle belle suggestioni letterarie della curatrice, Schopenhauer si è imposto. Trovando Nietzsche come alleato sulla sua strada.
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