Dal decalogo di San Martino 2019: i fatti di causa oggetto di Cass. 11 novembre 2019, n. 28989
La sentenza n. 28989 del 2019 merita di essere segnalata anche per un ulteriore aspetto dalla stessa trattato, oltre che per il profilo relativo all’onere della prova e alla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, e cioè quello della liquidazione a favore del creditore-danneggiato tanto del danno morale soggettivo quanto del danno esistenziale da perdita del rapporto parentale.
Infatti, con il quarto motivo di ricorso, l’Azienda ospedaliera censurava la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1218 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente liquidato, in favore degli attori, una somma a titolo di risarcimento del danno morale soggettivo dopo aver già riconosciuto, in favore degli stessi soggetti, il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, con la conseguente indebita duplicazione degli importi risarcitori riferiti a un medesimo pregiudizio, e per avere altresì riconosciuto, in favore degli attori, l’importo massimo previsto dalle tabelle utilizzate per la liquidazione del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale, nonostante la sopravvivenza di altri congiunti e il mancato venir meno dell’intero nucleo familiare dei danneggiati.
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Le motivazioni e i principi affermati da Cass. 11 novembre 2019, n. 28989 nell’ambito del decalogo di San Martino 2019
Nel ritenere fondato il motivo, il collegio osserva che, seguendo l’iter motivazionale dipanato nella sentenza impugnata, la corte territoriale abbia liquidato, in favore degli attori, un risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale unitamente a un risarcimento a titolo di danno morale soggettivo per lo stesso fatto, procedendo, dunque, dopo la liquidazione del primo danno, a un’ulteriore maggiorazione a titolo di danno morale, in tal modo pervenendo a una vera e propria duplicazione, ossia a una doppia considerazione della stessa lesione di interessi, consistente nel peculiare patimento che affligge una persona per la perdita del rapporto parentale.
A tal riguardo, la III sezione ha cura di richiamare il proprio precedente reso a Sezioni Unite nel 2008[1], secondo il quale: “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato”.
La conclusione è stata riaffermata, come ricorda il collegio, tra le altre, da successive pronunce[2] in cui si ribadisce come, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di risarcimento, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico-relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito, sì integralmente, ma anche unitariamente.
Allo stesso modo, in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca.
Le richiamate esigenze di integralità e di unitarietà del risarcimento, in particolare, trovano radice nella più recente elaborazione della giurisprudenza della stessa terza sezione, là dove è intervenuta a delimitare i contorni del compito liquidatorio del giudice in caso di danno non patrimoniale, precisando come la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario concetto di danno non patrimoniale, in tanto è ammessa, in quanto è evidente la diversità del bene o interesse oggetto di lesione[3].
Tali principi hanno trovato ulteriore conferma nelle più recenti acquisizioni della corte di legittimità secondo cui in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale). Al contrario, non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione[4].
ciò posto, il collegio ritiene che, in caso di risarcimento del danno da perdita, o da lesione, del rapporto parentale, ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità delle ricadute della condotta, sarà compito del giudice di merito procedere alla verifica, sulla base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale sussistenza di uno solo, o di entrambi, i profili di danno non patrimoniale in precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita).
Ed è proprio in tale quadro che, nella prospettiva dei giudici di legittimità, dovrà emergere il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale.
così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato[5], o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita (come, ad es., l’età delle parti del rapporto parentale) che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere.
ciò che comunque resta scolpito nella pietra, come si legge nella motivazione della sentenza de qua, sono i principi che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale. Il che significa che, ad esempio, nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso e ulteriore rispetto alla sofferenza morale (rigorosamente comprovata) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche[6].
Rimane, infine, altresì ferma la netta distinzione tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della onnicomprensività della liquidazione – di liquidazione unitaria.
Il presente contributo sui principi affermati nel decalogo di San Martino 2019 è tratto da “La prova del danno da errore medico” di Cristina Maria Celotto.
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[1] Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972.
[2] La sentenza richiama testualmene: Cass., sez. III, sentenza n. 25351 del 17 dicembre 2015, rv. 638116 – 01 (v. altresì cass. 8 luglio 2014, n. 15491; cass. 23 settembre 2013, n. 21716).
[3] Sul punto la sentenza de qua richiama Cass. 9 giugno 2015, n. 11851 e Cass. 8 maggio 2015, n. 9320.
[4] La sentenza richiama espressamente Cass., sez. III, ordinanza n.7513del27marzo 2018, rv. 648303 – 01, successivamente confermata da sez. III, ordinanza n. 23469 del 28 settembre 2018, rv. 650858 – 02.
[5] La sentenza richiama, in tema di rapporto tra nonno e nipote, Cass., sez. III, sentenza n. 21230 del 20 ottobre 2016, rv. 642944 – 01, e cass., sez. III, sentenza n. 12146 del 14 giugno 2016, rv. 640287 – 01.
[6] Sul punto si vedano anche Cass., sez. III, sentenza n. 21060 del 19 ottobre 2016, rv. 642934 – 02; Cass., sez. III, sentenza n. 16992 del 20 agosto 2015, rv. 636308 – 01.
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