Dall’Antico Testamento al diritto penale dei nostri giorni

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Durante la lettura dell’Antico Testamento si è focalizzata la mia attenzione, per deformazione professionale, sulle condotte di reato – se così si possono definire con un paragone attuale – contenute al suo interno. Ho voluto, quindi, compiere un confronto per verificare se presenti nel nostro attuale codice penale. Premetto che, così come non intendo compiere una esegesi, pur limitata all’argomento preso in esame, sarebbe altresì fuorviante – perché decontestualizzato dal periodo storico e dagli usi e costumi presenti in quel tempo – richiamare le pene previste per coloro che le perpetravano. Non citerò quindi la sanzione massima, se non presente nella nostra Costituzione, analizzando peraltro soltanto alcune condotte contra ius.

Le norme ebraiche “a valenza penale” sono contenute nei cinque Libri, definiti com’è noto con il termine greco “Pentateuco” (denominati dagli Ebrei, “la Legge”, non a caso costituendo la base storica, religiosa e giuridica del popolo della salvezza) e, nello specifico, nel Deuteronomio, Numeri e nel Levitico.

Partirò comunque dall’analisi dei “dieci comandamenti”, per poi analizzare e paragonare successivamente le altre norme.

I DIECI COMANDAMENTI E LE ATTUALI CONDOTTE DI REATO

Nel secondo Libro dell’Esodo sono presenti “i dieci comandamenti” (c.20).

Se venisse interpretato il comandamento, “non pronunzierai invano il nome del Signore, Tuo Dio…”, semplicisticamente come “non bestemmiare” (vedasi anche “non bestemmierai Dio e non maledirai il principe del tuo popolo”), nel nostro codice penale è prevista tale condotta all’articolo 724 (all’interno del “Libro Terzo – Delle Contravvenzioni in particolare al Titolo I “delle contravvenzioni di polizia”).

In tal caso per il reato contravvenzionale di “bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti”, ovvero chi coram populo “bestemmia con invettive e parole oltraggiose contro la Divinità”, è prevista la sanzione amministrativa pecuniaria (nota: vedasi anche il titolo IV del nostro codice “dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti” – art. 403 e ss.).

OMICIDIO.

Affermava Saverio Siciliano: “L’omicidio tipico è delitto sommo, non soltanto perché si distrugge ciò che per la vittima normalmente costituisce il bene massimo: la vita, infliggendo dolore ed offesa irreparabili; il che spesso s’identifica col fine ultimo di colui che uccide (quando cioè l’uccisione non sia “strumentale”). Ma anche – e fondamentalmente – perché annulla, o comunque interrompe, la personalità dell’individuo: del microcosmo, da cui e per cui nascono l’esigenza e l’idea di giustizia, e dante l’impronta d’alterità al diritto nella sua genesi” (cfr. S. Siciliano, “L’omicidio”, Cedam 1965).

Orbene il (quinto) comandamento “non uccidere”, è ictu oculi intuitivo che sia presente nel nostro codice, così come in tutti gli altri.

Se si richiamasse il divieto senza ulteriori specificazioni – che al contrario sono presenti nel Testo Sacro -, sarebbe previsto dagli articoli 575 (“omicidio doloso); 578 (“infanticidio in condizioni di abbandono”); 579 (“omicidio del consenziente”); 580 (“istigazione al suicidio” – in senso più ampio); 584 (“omicidio preterintenzionale”); 587 (omicidio e lesione personale a causa di onore” – art. abrogato ex lege 05/08/1981 n.442); 588 co. II (rissa” aggravata) ed infine nell’art. 589 (“omicidio colposo”).

In un successivo passaggio contenuto nel Libro dell’Esodo” così si legge: “Ma quando un uomo attenta al suo prossimo per ucciderlo con l’inganno, allora…”.

Sovviene in questo caso l’aggravante del “mezzo venefico od altro mezzo insidioso” – forse più attinente quest’ultimo -, a cui si potrebbe accludere “quando vi è la premeditazione” (nota: se per “inganno” si vuol ritenere un’attività preparativa alla commissione del delitto di omicidio).

Le suindicate circostanze aggravanti” dell’omicidio sono contenute dagli articoli 576/ 577 del codice penale (nota: vedasi anche la circostanza aggravante comune, ai sensi dell’art. 61 n.3 c.p., ossia l’aver adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone”).

Vi sarebbe da richiamare, altresì, l’istituto della “difesa legittima” previsto, in senso lato, nell’Antico Testamento e contenuto nel nostro codice all’articolo 52.

In un passaggio del Deuteronomio viene poi fatta una distinzione tra le tipologie di omicidio: “Chiunque avrà ucciso il suo prossimo involontariamente, senza che l’abbia odiato prima, come quando uno va al bosco con il suo compagno a tagliare la legna e, mentre la mano afferra la scure per abbattere l’albero, il ferro sfugge dal manico e colpisce il compagno così che muoia..”.

È pacifico che, con l’esempio “di caso fortuito” indicato, non possa che trattarsi del c.d. omicidio colposo.

ADULTERIO.

Il comandamento indicato nell’Antico Testamento, ossia “non commettere adulterio” , era inserito nel nostro codice, come condotta di reato, all’articolo 559. Puniva la “moglie adultera” e, “con la stessa pena” – reclusione sino ad un anno –, era “punito il correo della adulterina”. Il presente delitto, procedibile a querela, è stato dichiarato incostituzionale con una prima sentenza del dicembre 1968 (nr.126) e con un’altra dell’anno successivo (nr.147/1969).

Se ci si volesse soffermare, al contrario, sul “concubinato”, se non erro nella Bibbia se ne parla sovente – ma non come condotta “illecita” -, nel nostro codice era anch’esso punito (vedasi delitto di “concubinato”) sino all’anno 1969 (cfr. sent. C.C. nr.147/69) e prevedeva la pena della reclusione “sino a due anni” nei confronti del “marito che tiene una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove..”. Interessante il concetto del “notoriamente altrove” che sta palesemente ad indicare una manifesta, pubblica conoscenza del fatto, quale elemento prodromico per la configurazione del reato. Termino sul punto specificando che, sempre nel Deuteronomio, era prevista una pena molto grave se un uomo “veniva colto in fallo con una donna maritata”.

FURTO.

Il successivo comandamento (il settimo) è l’altrettanto noto “non rubare”.

In questo caso sussiste un problema per così dire tecnico. Se si dovesse infatti “prenderlo alla lettera”, il nostro codice prevede molteplici attività o modalità per perpetrare la suddetta condotta contra ius, tutte finalizzate “all’ingiusto profitto” ed a una deminutio patrimonii nei confronti della persona offesa (vedasi dal “furto” alla “rapina”; alla “appropriazione indebita”, alla “truffa”; ai delitti di “frode” et c.). Mi limito quindi a richiamare la condotta generica di “furto”, così come indicata dall’articolo 624 e seguenti: “Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto…” (Furtum est contrectatio rei frudolosa lucri faciendi gratia”).

Una sottile precisazione.

Nel codice sono previste anche le ipotesi di “furti punibili a querela dell’offeso”, ex art. 626, ove sono annoverate condotte, per così dire, più blande (c.d. bagatellarie). Tra queste vi è la spigolatura nel fondo altrui”, che esplicitamente nella Bibbia non era considerata una condotta ingiusta. Si cita, infatti, nel quinto Libro del Deutoronomio: “Se entri nella vigna del tuo prossimo, potrai mangiare uva, secondo il tuo appetito, a sazietà, ma non potrai metterne in alcun recipiente. Se passi tra le messe del tuo prossimo, potrai coglierne spighe con la mano, ma non mettere la falce nella messe del tuo prossimo”.

Interessante altresì la differenziazione, contenuta nell’Antico Testamento, in un passaggio successivo ai “dieci comandamenti”, e riguardante la c.d. condotta attiva del ladro: “Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito a morte, non vi è vendetta..”. Estremizzando la circostanza, si potrebbe configurare la scriminante della “difesa legittima” ex art.52 c.p., nei confronti del proprietario-omicida. Ma l’esempio riportato era differente. Così, infatti, prosegue: “Ma se il sole si era già alzato su di lui, a suo riguardo vi è vendetta..”. In tal caso la presente differenziazione tra la perpetrazione del furto (o “rapina”, forse) “di giorno” o “nelle ore notturne” non è discriminata nel nostro ordinamento (ad onor del vero è prevista la circostanza aggravante comune, ex art.61 n.5, dell’aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o...”).

ABIGEATO.

Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo scanna e lo vende, darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame minuto per il montone”.

Anche con questo esempio la condotta, pur riconducibile palesemente al furto (di bestiame – “abigeato” – vedasi circostanza aggravante, ex art.625 n.8 c.p.), prevede, come sanzione esclusivamente un indennizzo, pur maggiorato, della stessa natura.

Dichiara Cesare Beccaria nel suo scritto: “I furti che non hanno unito violenza (traduz.: non rapina) dovrebbero esser puniti con pena pecuniaria”. Ma, ritenendo anche questa tipologia di sanzione poco incisiva (“..ma come le pene pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello dè delitti..”), egli afferma che: “La pena più opportuna sarò quell’unica sorta di schiavitù che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla…” (cfr. C. Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, XXII, “furti”).

FALSA TESTIMONIANZA.

Infine richiamo il comandamento del “non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo”. La presente condotta contra legem è prevista dall’articolo 372 (“falsa testimonianza”) a cui mi sento di aggiungere l’art. 368, ossia la “calunnia”, in cui si incolpa taluno di un reato pur sapendolo innocente, ergo con dolo.

Per il vero la suindicata attività illecita prevista nel Testo Sacro tra i dieci comandamenti, è solo una anticipazione di ulteriori e possibili “false testimonianze”. Si recita infatti che: “Non spargerai false dicerie. Non presterai mano al colpevole per essere testimone di un’ingiustizia. Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in un processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia..” (c.23)

Vi sono altre “prescrizioni” ma saranno opportunamente indicate in un breve capitolo ad hoc che ho definito “diritto processuale penale”.

ALTRE CONDOTTE

Nel Libro dell’Esodo vengono esplicate ulteriori condotte assolutamente da non commettere.

PERCOSSE E LESIONI.

Si parla testualmente di “percosse e ferite”.

Nel codice penale è effettivamente previsto sia il reato di “percosse” (art. 581) che di “lesioni” (artt. 582; 586; 590). Per il vero nell’Antico Testamento, erano considerati molto gravi – quasi un’aggravante – le “percosse e ferite” in danno dei genitori; meno gravi, o comunque con una sanzione differente, se in danno di “altri uomini” o degli schiavi (nota: come ho già anticipato, la presente disquisizione deve esser letta non dimenticando il contesto storico e comunque scevra da valutazioni morali).

RISSA.

Quando alcuni uomini rissano” se non era conseguenziale l’evento morte e si limitavano a procurare lesioni guaribili (cfr. “e questi non è morto”), era previsto un mero risarcimento dei danni (cfr. “dovrà pagare il riposo forzato e procurargli le cure”). Secondo il nostro ordinamento si tratterrebbe, quindi, di una condotta non punibile penalmente – rectius: perché il fatto non costituisce reato – ma solo risarcibile sotto il profilo civilistico. In altri passaggi del Testo Antico si trovano ulteriori riferimenti all’istituto del “risarcimento del danno”, “dell’indennizzo” e “dell’ammenda” sia in senso penalistico che civilistico (risarcimento “pecuniario” vero e proprio ovvero “in natura”, tramite la consegna di bestiame).

Degno di nota risulta esser la condotta particolare in cui “alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire. Se non vi è altra disgrazia, si esigerà una ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato”.

Il reato di “rissa” attualmente sussiste e si suddivide in due commi: il primo punisce la mera partecipazione (previsto, ex art.81 cpv c.p., il concorso con il reato di lesioni, se presenti). Il capoverso riguarda, invece, l’evento morte come conseguenza della rissa (con pena aggravata).

SEQUESTRO DI PERSONA / ACQUISTO E ALIENAZIONE DI SCHIAVI.

Un’altra condotta non ammessa era nei confronti di “colui che rapisce un uomo e lo vende…”.

Più’ che dell’attuale delitto di “sequestro di persona” (art. 605) o di “sequestro di persona a scopo di estorsione”, (art. 630) si potrebbe parlare più correttamente di “vendita”.

Ritengo, quindi, possa rientrare nella condotte più ampie ma specificatamente previste e punite dagli articoli 601 (“tratta di persone”) e 602 (“acquisto e alienazione di schiavi”).

INTRODUZIONE DI ANIMALI NEL FONDO ALTRI E PASCOLO ABUSIVO.

Quando un uomo usa come pascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare nel campo altrui, deve dare un indennizzo con il meglio del suo campo e con il meglio della sua vigna” (c.22 ).

Secondo il nostro codice, a differenza del Testo Sacro che prevedeva unicamente un “indennizzo”, la condotta in esame si configura all’art. 636 (“Introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo). Come si può notare, alcune condotte, “minori”, erano già state “depenalizzate” ,nell’Antico Testamento.

MALTRATTAMENTI CONTRO FAMILIARI E CONVIVENTI.

Il nostro delitto di “maltrattamenti”, ex art. 572 c.p., punisce “chiunque..maltratta una persona della famiglia o comunque convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. All’interno del Libro dell’Esodo (“prescrizioni varie”) si parla di tale condotta, ma riferita nello specifico al maltrattamento della “vedova o l’orfano”, come se fosse una aggravante. Per il vero i “maltrattamenti” vengono anche ripresi nel Levitico (termine greco indicante il fatto che tale Libro riguarda i sacerdoti d’Israele, i quali appartenevano alla tribù di Levi) in cui si specifica ulteriormente (cfr. “per colpe contro la famiglia”): Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà..”. Una tutela ulteriore nei confronti dei genitori oltre al comandamento in cui si impone di “onorarli”.

INCESTO.

Sempre nel Levitico, in più passaggi, viene indicato il divieto di avere rapporti intimi con consanguinei (cfr. “se uno ha rapporti con la matrigna..con la nuora..la figlia..la propria sorella…la sorella di tua madre o di tuo padre..”). Il suddetto divieto è, com’è noto, presente nel nostro codice penale come delitto di “incesto” (art. 564) che punisce “chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente o con un affine in linea diretta..”.

USURA.

Nel nostro ordinamento il prestito “privato” di danaro od altra utilità è chiaramente ammesso (oltre che il ricorso al prestito bancario). Si incorre però nel delitto di usura (art. 644) allorché, in seguito ad un prestito, ci si “fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di danaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari” ossia interessi oltre una soglia stabilita ex lege.

Nell’Antico Testamento così si scrive: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse”. Quindi, il prestito era ammesso ma non ad “interessi usurari”.

Vero è che, per precisazione, nel Deuteronomio (“prescrizioni varie”) si specificava ulteriormente: “Non farai al tuo fratello prestiti ad interesse, né di danaro, né di viveri, né di qualunque cosa si presta ad interesse. Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non al tuo fratello…”. Viene quindi rafforzato il divieto di usura specificando che è possibile prestare ad interesse “allo straniero” ma non al “proprio fratello” (estendendo, come interpretazione, con tale termine – “fratello” – il proprio “connazionale”).

VIOLENZA SESSUALE.

Nel Deuteronomio, in un altro passaggio, si potrebbe configurare la perpetrazione del reato di violenza sessuale, ai sensi dell’art.609 bis codice penale. Si scrive: “..Ma se l’uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza pecca con lei…nella fanciulla non c’è colpa…perché egli l’ha incontrata per i campi: la fanciulla fidanzata ha potuto gridare, ma non c’era nessuno per venirle in aiuto”. È palese che la “fanciulla” non fosse certamente consenziente, dimostrazione del fatto che avrebbe “gridato” evidentemente per chiedere soccorso.

Per concludere la presente trattazione, si sono analizzate soltanto alcune delle condotte che, come riportato, non erano ammesse a quei tempi, come da Testo Sacro. Come si è potuto notare prevedevano sanzioni differenti in base alla gravità del fatto. A mio avviso, la “modernità” delle stesse – ed ergo l’attualità del Testo – sta nella circostanza per cui alcuni fatti-reato, anche apparentemente di minore gravità, erano già previsti e ben spiegati con esempi facilmente intuibili per il popolo, per la cittadinanza. Oltre ai precetti vi erano anche le sanzioni, differenti nella misura e nella specie (nota: come ho anticipato alcune pene, pur indiscutibilmente previste, le ho omesse perché non presenti nè nel nostro codice né nel nostro ordinamento).

DIRITTO PROCESSUALE PENALE

Delle “prescrizioni”, che con un parallelismo potrebbero accomunarsi al nostro concetto di “giusto processo” e “buon andamento della giustizia”, sono contenute nel Libro quinto, il Deuteronomio.

Non sono a conoscenza se vi fossero dei tribunali come oggi li possiamo intendere, non credo, ma certamente delle persone che dovevano “giudicare” le controversie, erano già previste nell’Antico Testamento. Si recita nei “doveri dei giudici”: “Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città che il Signore tuo Dio ti da, tribù per tribù. Essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze…”. Ed ancora: “. Non farai violenza al giudizio, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti”.

In verità, pur non essendo chiaro se a giudicare i comportamenti illeciti o le controversie fossero come detto dei tribunali, come oggi sono previsti, in composizione monocratica o collegiale, si legge a chiare note che essi dovevano pronunciare “giuste sentenze”, non “facendo violenza al giudizio” e “non accettando regali”.

Azzardo nella valutazione che a giudicare una causa, un processo, fossero più “magistrati” tosto che singoli soggetti (giudici monocratici). La circostanza che fosse più opportuna la presenza di un organo collegiale rispetto ad uno monocratico, lo rivela molti secoli dopo Cesare Beccaria, il quale afferma che vi era una ragione sottostante ben precisa: “Un altro mezzo di prevenire i delitti si è da interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza di esse che alla corruzione. Quanto è maggiore il numero che lo compone, tanto è meno pericolosa l’usurpazione sulle leggi, perché la venialità è più difficile tra membri che si osservano tra di loro…” (cfr. C. Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, XLIII, “magistrati”).

Al di fuori del fatto che la sentenza doveva e deve ancor oggi esser giusta ed equa nella sua determinazione, in tal caso si parlerebbe, secondo il nostro codice, del delitto di “corruzione in atti giudiziari” ex art. 319 ter c.p. Quanto al divieto di accettazione di doni, è palese che si tratti di corruzione per evitare quello che, se non erro, Esiodo chiamava “giudici corrotti mangiatori di doni” (“l’ingiustizia esige una punizione che solo giudici onesti possono determinare”).

TESTIMONIANZA.

Un altro monito fondamentale – per rendere giustizia ed emettere una “retta” sentenza evitando errori giudiziari -, è il seguente: “Colui che dovrà morire, sarà messo a morte sulla deposizione di due o più testimoni. Non potrà esser messo a morte sulla deposizione di un solo testimonio”.

Ed ancora sul punto: “Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato. Qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”.

La presente regola giuridica si tradurrà nel noto brocardo latino “unus testis, nullus testis” (nota: principio risalente al diritto romano post-classico, secondo cui l’acquisizione di una sola testimonianza era irrilevante ai fini della decisione di un giudizio. Un solo teste non era considerato, infatti, prova sufficiente. Tale regola rimase in vigore anche in Francia, sino alla rivoluzione francese: la testimonianza resa da una persona, benché di onestà indiscussa, non era considerata attendibile. Il convincimento del giudice si formava, infatti, solo sulla base di dichiarazioni rese da almeno tre testimoni).

Vorrei altresì aggiungere quanto affermava Beccaria: “Più di un testimonio è necessario, perché fintanto che uno asserisce e l’altro nega, niente vi è di certo e prevale il diritto che ciascuno ha d’esser creduto innocente” (cfr. “Dei delitti e delle pene”, “dei testimoni” – cfr. anche Montesquieu, “L’esprit des loix” libro XII cap. II).

Nel nostro attuale codice di procedura, specificatamente nel libro III (“prove”) è presente, tra i c.d. “mezzi di prova”, la “testimonianza” (capo I). E’ noto che tale “mezzo di prova” dichiarativa non preveda un numero minimo di persone che, con la loro escussione dibattimentale, possano acclarare con certezza un fatto (da provarsi processualmente). Vero è che, se un procedimento penale si basi unicamente su un teste, senza riscontro alcuno, raggiungere oltre ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità di un imputato non è assolutamente cosa semplice.

Volgendo al termine la presente comparazione, ritengo di poter affermare che, secondo tale lettura dell’Antico Testamento, il Testo Sacro può esser indiscutibilmente considerato anche un “codice” di diritto penale e civile con molti spunti di riflessione, anche critici certamente.

In fondo, ubi societas, ibi ius.

Alessandro Continiello

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