Dall’Impairment alla relazione di cura. Libertà personale e disabilità

Libertà e status personae

 

Un discorso, benché del tutto generale e non contestualizzato, sulla libertà, e sul connesso legame con la giustizia, prendendo in considerazione la globalità della condizione umana, di per sé fragile ma unita in una rete fitta di interrelazioni globali, non può, a parer mio, prescindere da un allargamento ad un tema a me caro, vale a dire la considerazione filosofica che possiamo avere della disabilità umana. Un argomento, in genere, molto spesso evaso dalla filosofia generale, e non soltanto per le difficoltà che lo stesso mette in mostra, e comporta sotto molti aspetti, ma anche per una sostanziale idiosincrasia che prende alla gola gli ingegni filosofici alle prese con lo “scandalo” stesso della condizione umana quando quest’ultima si manifesta in maniera tanto radicale quanto estranea a qualsiasi sintesi. Quel che accade è molto semplice: tanto più la nostra condizione materiale si manifesta integralmente e radicalmente quanto più i filosofi preferiscono di gran lunga sorvolare sull’argomento, glissare il tema, fingere che non sussista nemmeno un problema teorico.

Tuttavia, e con gran pena per gli ingegni filosofici, la limitatezza non è il frutto amaro capitato in sorte ad alcuni, ma l’orizzonte generale di ciascuno di noi, l’approdo finale al quale, chi prima, chi poi, tutti noi giungeremo lungo lo scorrere inesorabile del tempo. Da qui, forse, a mio modesto avviso, ha origine molta dell’antipatia mostrata nei confronti del tema presente, un tentativo vano quanto estremo di esorcizzare un destino inevitabile: fare esperienza diretta e completa della vulnerabilità umana.

La filosofa Martha Nussbaum ha il merito di aver affrontato in maniera efficace il tema presente, la fragilità umana[1], ma, a mio avviso, è importante porre tale argomento in relazione con il tema della libertà. Infatti, la presenza stessa del limite vincola qualsiasi possibile tendenza espansiva della libertà dei singoli. Ma un suo esame, per quanto parziale e circoscritto, consente di inquadrare meglio sia i termini del discorso sia l’orizzonte d’azione dell’umanità, con special riferimento alla condizione generale dei disabili, per i quali, infatti, ha senso riflettere sulla libertà personale in relazione al loro far parte di una comunità ospitante[2].

Come sostiene Magni, dobbiamo distinguere tra due tipi di libertà, 1) la libertà sociale o politica; e, 2) il libero arbitrio[3]. Mentre, infatti, la prima riguarda «la relazione fra l’individuo e gli altri individui (o la società o lo Stato)»[4], la seconda riguarda «la relazione fra l’individuo e la natura»[5]. Detto altrimenti, allora, la libertà sociale o politica riguarda le determinazioni concrete della «legislazione politica e sociale»[6] mentre il libero arbitrio riguarda «la legalità naturale»[7]. Ora, mentre la prima «rimanda alla coercizione»[8], l’altra rimanda «alla determinazione della scelta»[9]. A questo punto, Magni esplicita ulteriormente il concetto, e l’annessa distinzione tra due diversi tipi di libertà, attingendo alla riflessione modale. In particolare, alle leggi della natura fanno riferimento le nozioni modali di possibilità, impossibilità e necessità. Infatti,

 

Qualcosa è possibile quando non è in contrasto con le leggi di natura, impossibile quando è in contrasto con le leggi di natura, necessario quando il suo contrario è impossibile, cioè in contrasto con le leggi di natura[10]

 

Invece, la libertà politica e sociale fa riferimento alle nozioni deontiche di lecito, divieto ed obbligo. Infatti,

 

qualcosa è possibile quando è lecito, impossibile quando vietato, necessario quando è obbligatorio; e qualcosa è lecito quando è permesso dalle leggi, non è cioè in contrasto con esse, vietato quando non è permesso, obbligatorio quando non è permesso il suo contrario[11]

 

Tuttavia ciò non ci esime dal porci la seguente domanda: cosa succede a tutti quei soggetti ai quali le possibilità naturali sono ridotte in partenza? E per i quali, nello stesso tempo, la particolare strutturazione assunta dall’organizzazione sociale aggiunge ostacoli e limiti? Penso, in buona sostanza, che tutti costoro vengano danneggiati nell’espletamento della propria libertà. Ma mentre le limitazioni naturali riducono la libertà personale dei soggetti, impedendo l’espansione delle possibilità concrete per tutti costoro, le limitazioni sociali riducono la stessa identità personale dei soggetti, impedendo la determinazione individuale degli stessi[12]. Per inciso, allora, ritengo si possa asserire che se i limiti materiali incidono sulle possibilità di fare per i soggetti umani, e, quindi, sul libero arbitrio degli stessi, i limiti sociali o politici incidono sull’identità personale degli stessi. Detto altrimenti, il limite di per sé influenza negativamente le possibilità concrete di fare e di essere. Infatti, le limitazioni naturali diminuiscono le potenzialità d’azione per i soggetti umani (poter fare) mentre le limitazioni sociali, le quali in genere si sommano a quelle naturali, impediscono ai soggetti umani di essere (poter essere). Ciò rende conto, ad esempio, del dibattito moderno intorno alla cooperazione sociale nei termini di virtù morale. Infatti, senza poter cooperare con altri, i soggetti disabili non sono virtuosi. Ma non conseguendo la virtù, vale a dire non facendo il bene, non potendolo appunto fare, nei medesimi termini e alle stesse condizioni di tutti gli altri, e, quindi, alla pari con gli altri, non solo i disabili godono di minore libertà rispetto ai propri simili, ma, alla lunga, appaiono anche incapaci di assumere una ben precisa identità personale. Non poter fare, dunque, significa anche, per determinate categorie sociali, in genere quelle più svantaggiate, e per le persone disabili in modo particolare, non potersi costruire un’identità personale, valevole anche come riconoscimento rispetto alle identità personali di tutti gli altri attori sociali. Le due dimensioni, benché distinte, appaiono tra loro collegate: la minore libertà naturale implica una minor libertà sociale.

 

La libertà per persone con impairment

 

Ora, se è sicuramente vero che la disabilità, assieme ai soggetti che ne portano il peso, vale a dire i disabili, «sono concetti recenti»[13], è pur vero che la prima «è una condizione sociale, biologica ed esistenziale sempre esistita nella storia dell’umanità»[14]. Eppure, non disponiamo di documenti che ci forniscano un quadro storico preciso e capaci di illuminare un divenire storico di ampio respiro. Al massimo, ed entro certi limiti, possiamo tentare di illuminare specifiche situazioni locali del fenomeno, e non di più, riconoscere delle tracce di portata conoscitiva molto limitata. Bisogna anche aggiungere che le manifestazioni storiche della disabilità presentano peraltro un profilo differente da luogo a luogo. Asserisce, infatti, Schianchi, «Le persone con disabilità non sono sempre state considerate e trattate nello stesso modo»[15]. V’è, cioè, un problema storico che racconta di tante tracce, alcune antichissime, ma che solo in tempi recenti consente di cogliere una dinamica evolutiva del fenomeno in questione. E, d’altra parte, solo cogliendo appieno quest’ultimo diviene possibile apprezzare la percezione, e cognizione, che la cultura umana esperisce, e possiede, dello stesso.

Ad ogni modo, e ai presenti fini, è interessante la citazione che Schianchi compie dello studio sociologico di Goffman sullo stigma. Quest’ultimo, infatti, «non è il sinonimo della menomazione, ma è una relazione sociale»[16]. Detto altrimenti, i fenomeni di stigmatizzazioni fanno riferimento non alla presenza del limite fisico nel soggetto disabile, ma alla maniera con cui quest’ultimo deve venir trattato. È, cioè, un’espressione sociale della disabilità, di come una cultura considera e tratta chi ne porta il marchio. Ciò è rilevante ai miei occhi in quanto associa la vulnerabilità umana sotto due aspetti differenti. Come dice Di Santo, «l’uomo è in ogni forma […], grado […], tempo […] e ambiente […] un essere limitato. Pertanto, il suo Essere si scontra inevitabilmente con due tipologie di forze differenti: la Natura e la Cultura»[17]. Come Magni, qui Di Santo scorge la sorgente della disabilità nell’azione contemporanea di due forze eterogenee, la natura e la cultura, ambedue capaci di infliggere limitazioni ai soggetti umani. Ancora, lo stesso autore aggiunge che «la disabilità è essenzialmente l’aspetto naturale della patologia che diventa handicap nel momento in cui gli aspetti negativi della Natura (patologia) si combinano con l’aspetto negativo della Cultura (stigma ed esclusione sociale)»[18]. Pertanto, da un lato, limitazioni naturali che gravano sulla vulnerabilità generale di ciascun essere umano, e, dall’altro lato, limitazioni sociali aggiuntive che gravano sulla stessa vulnerabilità generale di ogni essere umano moltiplicando gli ostacoli e le difficoltà. Ciò viene fatto da parte della società perché quest’ultima presume di essere l’esatto contrario di quel che è, cioè si considera invulnerabile, perfetta, potente. Pertanto, nel rendere visibile ciò nelle realizzazioni architettoniche o nelle interazioni sociali, non può che assumere uno standard fissato ad una normalità cui tutti gli uomini devono tendere. Ovviamente, siccome tutti noi siamo, al contrario, diversi per natura, tutti egualmente vulnerabili, ma alcuni più bisognosi di altri, ecco che la particolare organizzazione sociale fa sì che quanti differiscono dalla norma vadano allontanati, relegati ad una condizione subalterna, collocati al di fuori della normale condizione di condivisione del rapporto di cittadinanza[19]. L’istituto della segregazione, dunque, affonda le proprie radici nell’inconscio antropologico della società dei cosiddetti normali, di coloro cioè che presumono, probabilmente a torto, di incarnare la perfezione, di mandare ad effetto l’antico mito dell’invulnerabilità, dell’onnipotenza. L’effetto sociale consiste nel creare due mondi distinti, il mondo pubblico «dei cittadini normali»[20] e il «mondo nascosto delle persone disabili»[21]. Allontanare dalla vista le persone disabili, veri e propri soggetti marginali, oltre che improduttivi e incapaci, è la sanzione sociale finale per dei soggetti stigmatizzati, persone «prive del diritto di abitare il mondo pubblico»[22].

Questa è, in termini del tutto generali, la situazione complessiva di un soggetto disabile. Egli è disabile sia per effetto di limiti che, naturalmente, si appuntano sulla sua esistenza, sia per limiti aggiuntivi che la normale organizzazione sociale appunta sulle sue spalle vulnerabili. Per dirlo altrimenti, la minore libertà naturale esplica effetti negativi “a cascata” sulla libertà sociale. Se ciascun essere umano è naturalmente debole e soggetto al limite, lo è ancora di più chi già in partenza vive su di sé la presenza di limiti naturali o di difficoltà che la Natura gli ha imposto. Questo per dire che la disabilità non è il limite naturale, ma l’aggravio sociale che pesa sui soggetti umani. Detto altrimenti, non è disabile chi soffre di una patologia invalidante, ma è disabile chi incontra ostacoli sociali insormontabili nello svolgimento della propria esistenza[23].

Ovviamente, viene da aggiungere, la persona umana in situazione di disabilità è certamente più della propria disabilità, i confini della sua esistenza, così come della propria dignità, vanno oltre la limitazione che attiva la naturale vulnerabilità della nostra specie, finita sotto ogni punto di vista, sia esso storico, sociologico, antropologico o religioso. Ma è altrettanto indubbio che proprio la presenza di limitazioni naturali comporta l’elevata probabilità di incontrare ulteriori peggioramenti di natura sociale alla propria condizione esistenziale[24]. Secondo l’OMS, sino alla classificazione ICD-10, ad esempio, la disabilità è una serie di «scostamenti per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso»[25]. La disabilità, dunque, in una cornice medico – biologica, viene intesa nei termini di minor capacità a causa di un impedimento o di una menomazione (Impairment) a carico del soggetto[26]. La presenza di questa incapacità comporta, di conseguenza, la presenza di un handicap, vale a dire di «una condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali»[27]. Un soggetto disabile, allora, si caratterizza per prestazioni inferiori rispetto alla media.

Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che ciò accade proprio perché un soggetto disabile incontra ulteriori difficoltà per via della particolare organizzazione che la società ha voluto darsi, per gli standard motori, relazionali e comunicativi che sono stati imposti. Infatti, l’«handicap rappresenta pertanto la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e come tale riflette le conseguenze (culturali, sociali, politiche, economiche ed ambientali) che per l’individuo derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità»[28]. È la somma di due limitazioni differenti, naturali e sociali, a comportare la situazione di svantaggio generale per i soggetti disabili. Così, possiamo dire che lo «svantaggio proviene dalla diminuzione o dalla perdita di capacità di conformarsi alle aspettative o alle norme proprie all’universo che circonda l’individuo»[29].

Tuttavia, tale approccio, del tutto prono al confronto con una presunta normalità, o con uno standard elevato ed aprioristicamente imposto, ha generato non poche perplessità, anche ai fini di una corretta comprensione della condizione esistenziale esperita dai soggetti disabili. Così, l’OMS ha proceduto ad una profonda revisione dei suoi paradigmi conoscitivi e dei propri metodi d’analisi sino a superare l’approccio medico-biologico, alla base delle classificazioni ICD, e ad introdurre nel 2001 un approccio del tutto differente chiamato ICF, vale a dire International Classification of Functioning, Disability and Health.

 

L’interrelazione tra identità personale e relazioni sociali

 

Non più la considerazione dello scostamento nelle capacità, ma «un profilo completo della salute dell’individuo e delle inabilità in tutte le sfere della vita»[30]. Il mutamento è rivoluzionario dal momento che soppianta del tutto l’impianto precedente per puntare l’attenzione sia sulla natura prettamente sociale della disabilità e per inglobare comunque i soggetti disabili all’interno dell’unica specie umana. Questo significa che l’ICF non è una classificazione dei vari tipi di disabilità, ma una classificazione dell’intera specie umana, e che riguarda tanto la salute quanto la malattia di tutti i soggetti umani. È uno strumento condiviso «tra popoli, comunità e paesi»[31]. D’altra parte, all’unidirezionalità di menomazione, disabilità, e, quindi, handicap, si sostituisce adesso «la varietà di interrelazioni tra le dimensioni definite costituenti lo stato di salute di una persona in un preciso momento della sua vita»[32]. Ora alla disabilità e all’handicap subentrano le attività e la partecipazione alla vita sociale di un soggetto. Questi due domini prevedono due differenti qualificatori, la performance e le capacità. Il primo «descrive ciò che un individuo fa nel suo ambiente attuale»[33] mentre il secondo «descrive le abilità di un individuo di eseguire un compito o un’azione»[34]. L’ICF «non è una classificazione delle conseguenze di una qualsiasi Disease ma esprime una nuova concezione ove l’attore sociale non è più inteso come un soggetto ai margini del dinamismo sociale bensì si pone al centro del complesso rapporto corpo/ambiente/società»[35]. Questa classificazione, dunque, pone in essere una filosofia del tutto innovativa che «non ammette l’idea del diverso e dell’anormale e omette qualunque espressione negativa o stigmi vari»[36]. Dunque, secondo l’OMS, «la disabilità non è la caratteristica di un individuo, ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali create dall’ambiente sociale»[37]. La conseguenza naturale è allora che la disabilità «richiede azioni sociali, una responsabilità collettiva che consentirebbe modifiche ambientali e relazionali necessarie per la piena partecipazione delle persone con limitazioni strutturali e funzionali»[38]. E con questo torniamo a Martha Nussbaum. Infatti, secondo la filosofia statunitense, la disabilità non è il destino ineluttabile di singolarità umane, particolarmente sfortunate, ma la situazione indotta dal particolare tipo di organizzazione funzionale scelto dalla società umana. Il trattamento delle persone con disabilità, dunque, è una questione politica, è un affare di giustizia sociale, è un tema imprescindibile dall’agenda delle priorità politiche[39].

In Le nuove frontiere della giustizia, la Nostra prende di petto la teoria politica moderna, in modo particolare la tradizione contrattualista, mettendone in luce i principali luoghi problematici, i principali punti critici, e tra questi rientra appunto la disabilità. In modo particolare, il contrattualismo è colpevole di aver sancito, in termini di principio, l’esclusione sostanziale, già operante nelle prassi concrete, dei soggetti disabili stabilendo come non possano far parte del gruppo di coloro che sono chiamati ad elaborare l’insieme dei principi politici fondamentali per una società politica[40]. A rigore, l’esatto contrario di quel che si richiederebbe per costoro, persone alla stregua dei non – disabili. E in tale direzione va esattamente la classificazione ICF la quale «introduce nella valutazione del profilo di funzionamento della persona il coinvolgimento della stessa nella vita sociale e di comunità»[41]. Ma è l’inabilità produttiva dei soggetti disabili a costituire il problema principale per le teorie contrattualiste per le quali, in genere, la società politica viene configurata nei termini di impresa cooperativa per il mutuo vantaggio[42]. Ma che vantaggio possono offrire o garantire i soggetti disabili? I teorici del contratto sociale, proprio al contrario della condizione concreta che abitano, «immaginano gli agenti contraenti che progettano la struttura di base della società come «liberi, eguali e indipendenti» e i cittadini, di cui rappresentano gli interessi, come «membri normali e pienamente cooperativi della società per tutta la vita»»[43]. Non contenti, poi, immaginano costoro «come persone caratterizzate da una razionalità alquanto idealizzata»[44]. Pertanto, in simili teorie si presume «un’approssimativa uguaglianza fisica e mentale fra i partecipanti»[45].

Al contrario, la disabilità dovrebbe spingere a ripensare radicalmente gli assetti che abbiamo dato alle nostre società, cercando di dare risposte urgenti a due distinti problemi di «giustizia sociale»[46]: 1) dare «equo trattamento»[47] alle persone con menomazioni; e, 2) risolvere l’«onere che grava sulle persone che provvedono a prendersi cura di coloro che vivono in condizioni di dipendenza»[48]. Rispondere ad ambedue le esigenze impellenti, ovviamente, è molto oneroso, ma ciò non autorizza a non far nulla[49]. D’altra parte, non si tratta solamente di dare risposte ad un numero limitato di soggetti, ma di garantire l’intera specie umana la quale, proprio come risultato del progresso tecnologico e medico, va incontro ad un allungamento notevole dell’aspettativa di vita e, quindi, a legittime considerazioni in merito all’attuale indipendenza di cui gode la maggior parte dei soggetti umani, condizione non più garantita per tutta la vita, ma sempre più «una condizione temporanea»[50]. Ma l’obiezione relativa all’onere finanziario è molto forte[51]. Infatti, aggiunge Nussbaum, la dottrina del contratto sociale non è disposta ad includere i soggetti disabili all’interno della propria teoria «per le ragioni di produttività e di costo sociale che sono proprie di tutte le persone con menomazioni»[52]. In realtà, si potrebbe aggiungere, a ben vedere, questa esclusione appare solamente la sanzione formale di una istituzionalizzata condizione materiale secondo la quale le persone disabili sono escluse dalla cittadinanza perché «non si conformano all’immagine alquanto idealizzata di razionalità morale usata per definire il cittadino nella società ben ordinata»[53].

Per venire incontro a questi bisogni e alle connesse questioni di giustizia sociale, Nussbaum utilizza il proprio approccio alle capacità[54]. Ma la cosa rilevante, ai miei occhi, è che proprio il dover affrontare queste questioni di giustizia dovrebbe spingerci a ripensare integralmente la nostra stessa teoria morale, la nostra stessa concezione di giustizia, il nostro attuale modello di società civile[55]. Noi siamo «esseri animali dotati di bisogni»[56], vale a dire siamo esseri vulnerabili bisognosi di aiuto ed assistenza, ossia di cura[57].

 

La relazione di cura

 

Come scrive Laura Palazzani, la «cura presuppone e implica una relazione asimmetrica»[58], vale a dire che prendersi cura di qualcuno «significa riconoscere che l’altro esiste»[59] ed anche «riconoscere che il rapporto che è possibile stabilire con l’altro non sempre è paritetico o simmetrico»[60], in senso analogo «ad un rapporto contrattuale»[61]. La giustizia sociale, cioè, non può in alcun caso venir prodotto da un contratto sociale, l’identità personale scaturire dalla cooperazione di persone fittiziamente eguali, la libertà personale dalla mera espansione della natura.

Il riconoscimento della condizione di bisogno significa mettere in campo concrete azioni di giustizia nei confronti della vulnerabilità di un mio simile, nella convinzione intima che l’altro esiste ed ha un valore irriducibile alla manifestazione radicale della finitezza umana, ossia dell’impairment o della disabilità, come conseguenza nefasta di una patologia invalidante. L’etica della cura presuppone questo, richiede esattamente questo concreto sforzo di giustizia nei confronti di chi ha bisogno, di chi necessita di «sollecitudine e responsabilità»[62].

La relazione di cura, per dirlo in altro modo, è un’«attitudine interiore e impegno attivo di attenzione responsabile gratuita nei confronti di chi è vulnerabile»[63]. Ma, attenzione, ciascuno di noi, se non attualmente, di sicuro in potenza, e in determinati periodi della sua esistenza mortale, è un essere umano vulnerabile, ossia bisognoso dell’aiuto, o della cura, degli altri. Aggiunge, infatti, Palazzani:

 

La vulnerabilità è l’esperienza di tutti, a partire dal nostro venire al mondo. Tutti siamo figli: abbiamo consapevolezza di essere nati da altri. L’alterità è strutturale: nessuno si autocrea, ma ha bisogno di altri per nascere e per esistere. Ha bisogno degli altri nella malattia, nella marginalità, nella debolezza, nell’avvicinarsi alla morte. L’esperienza del limite è esperienza di non autosufficienza dell’io, di bisogno dell’altro e della cura dell’altro. L’io ha bisogno dell’altro per essere pienamente se stesso, per acquisire la sua identità; ha bisogno della relazione, quale condizione e manifestazione dell’identità umana[64]

 

Ora giustizia e cura sono certamente due cose diverse, ma s’integrano reciprocamente dal momento che «consentono la combinazione tra universalismo astratto e specificità concreta»[65].

Come dicevo all’inizio, allora, a termine della presente riflessione, la libertà personale e l’identità dei soggetti devono conformarsi alla giustizia e alla relazione di cura in maniera tale che possibili svantaggi di partenza, di varia natura ed eziologia, possano essere riequilibrati nel pieno vantaggio di tutti. I disabili, infatti, non sono gli altri, ma ciascuno di noi in un momento qualsiasi della nostra finita parabola esistenziale. D’altro canto, la cittadinanza stessa può venir intesa, correttamente a mio avviso, come la «possibilità di avere un posto nel mondo, una volta venuti al mondo»[66]. E questo non è certo vero solamente per le persone disabili, ma per ciascuno di noi[67]. La differenza, però, è che il posto di una società per esclusione viene ora occupato da una società inclusiva che tenga conto dei bisogni concreti di ciascuno e che lo faccia contemperando la libertà dei singoli con la giustizia di tutti[68].

 

Bibliografia

 

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[1] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 20132, p. 355: «In linea di principio, gli esseri umani sono tutti disabili sotto un certo aspetto: sono mortali, hanno la vista debole, debolezza di carattere, soffrono terribili mal di schiena e dolori cervicali, hanno la memoria corta e via dicendo».

[2] Ivi, p. 355: «un handicap non esiste semplicemente “per natura”, se questo significa indipendentemente dall’azione umana […] Ma quando queste menomazioni colpiscono la maggioranza (o il gruppo più potente), la società si adatta per venire loro incontro».

[3] Cfr. F. S. Magni, Teorie della libertà. La discussione contemporanea, Carocci, Roma, 2005, p. 17.

[4] Ibidem.

[5] Supra.

[6] Ibidem.

[7] Supra.

[8] Ibidem.

[9] Supra.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 18.

[12] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere … op. cit., p. 356: «fino a tempi recenti, il benessere delle persone affette da menomazioni è stato raramente preso in considerazione nella progettazione degli edifici, nei sistemi di comunicazione e nelle strutture pubbliche d’accoglienza».

[13] Cfr. M. Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del Welfare, Carocci, Roma, 2013, p. 11.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 12.

[16] Ivi, p. 24.

[17] Cfr. R. Di Santo, Sociologia della disabilità. Teorie, modelli, attori e istituzioni, Franco Angeli, Milano, 2013, p. 79.

[18] Ibidem.

[19] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere … op. cit., p. 356: «le persone “normali” si considerano perfettamente a posto, mentre ritengono che le persone affette da handicap inconsueti siano le uniche ad aver pecche: sono le mele marce del canestro, il cibo avariato disseminato tra il cibo sano. E cosa si fa del cibo avariato? Si mette da parte (o lo si butta via), altrimenti si rischia di contaminare il cibo buono».

[20] Ivi, p. 358.

[21] Ibidem.

[22] Supra.

[23] Ivi, p. 362: «La struttura fondamentale della società viene progettata senza tenere minimente conto di questi soggetti, e i loro bisogni sono lasciati da parte perché ritenuti marginali. In realtà, la finzione dell’indipendenza, che è a sua volta un genere della finzione della perfezione, occulta efficacemente i bisogni asimmetrici di questi soggetti».

[24] Ivi, p. p. 369: «Non dovremmo permettere che la finzione narcisistica di una perfezione o di un’invulnerabilità surrogate servano da giustificazione per negare il diritto di vivere nel mondo ad un gran numero di persone, la cui accresciuta vulnerabilità è il risultato delle disposizioni sociali organizzate in base ai bisogni di un gruppo dominante».

[25] Cfr. R. Di Santo, Sociologia .. op. cit., p. 36.

[26] Cfr. S. Soresi, Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Il Mulino, Bologna, 1998, 19.

[27] Cfr. R. Di Santo, op. cit., p. 37.

[28] Ibidem.

[29] Supra.

[30] Ivi, p. 40.

[31] Ibidem.

[32] Ivi, p. 42.

[33] Ibidem.

[34] Supra.

[35] Ivi, p. 44.

[36] Ibidem.

[37] Ivi, p. 46.

[38] Ibidem.

[39] Cfr. A. Pizzo, Chi è il libero, eguale ed indipendente? Martha Nussbaum su disabilità e giustizia, in “Diritto & Diritti”, 8 Aprile 2014, ISSN 1127-8579, contenuto on – line: https://www.diritto.it/docs/36133-chi-il-libero-eguale-ed-indipendente-martha-nussbaum-su-disabilit-e-giustizia.

[40] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 84.

[41] Cfr. F. Stasolla – V. Albano, ICF e PEI nelle Disabilità dello Sviluppo, Libellula, Tricase, 2013, p. 13.

[42] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 77.

[43] Ivi, pp. 115 – 116.

[44] Ivi, p. 116.

[45] Cfr. M. C. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 86.

[46] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 117.

[47] Ibidem.

[48] Ivi, p. 118.

[49] Cfr. M. C. Nussbaum, Creare … op. cit., p. 143: «rendere giustizia alle aspettative delle persone disabili vuol dire mettere in discussione un’idea fondamentale del liberalismo classico, e cioè che obiettivo e la stessa ragion d’essere della cooperazione sociale sta nel vantaggio reciproco, ove vantaggio va inteso in termini strettamente economici».

[50] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 119.

[51] Cfr. M. C. Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 48: «Anche se dovessimo convincerci che l’esistenza dell’umanità ci impone doveri di giustizia ma non di aiuto materiale, avremmo comunque un problema da affrontare, perché i doveri di giustizia costano denaro. Promuovere la giustizia necessita di aiuto materiale».

[52] Cfr. M. C. Nussbaum, Le nuove frontiere … op. cit., p. 154.

[53] Ibidem.

[54] Cfr. M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 40: «una società non viene valutata in base al semplice ammontare del reddito e della ricchezza che offre alle persone, ma alla misura in cui essa rende queste ultime capaci di varie e importanti attività».

[55] Ivi, p. 34 e sgg.

[56] Ivi, p. 40.

[57] Ivi, p. 39 e sg.: «una teoria basata sul concetto di cura dovrebbe promuovere politiche pubbliche in grado di prevedere forme generalizzate di sostegno ai bisogni dei cittadini per tutto l’arco della loro vita».

[58] Cfr. L. Palazzani, Una introduzione filosofica al diritto, Aracne, Roma, 2011, p. 99.

[59] Ibidem.

[60] Supra.

[61] Ibidem.

[62] Supra.

[63] Ivi, p. 100.

[64] Ivi, p. 101.

[65] Ivi, p. 102.

[66] Cfr. O. Osio, Introduzione, a: O. Osio – P. Braibanti (eds.), Il diritto ai diritti. Riflessioni e approfondimenti dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 11.

[67] Cfr. M. C. Nussbaum, Giustizia e aiuto materiale … op. cit., p. 75: «attribuire a un essere umano (il quale possiede quelle facoltà di base) un livello meramente animale, un livello di vita in cui le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità sono completamente svuotate, è immorale e inammissibile».

[68] Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere … op. cit., p. 362: «noi tutti soffriamo di menomazioni» e «la vita umana non comprende soltanto i bisogni “normali”, ma anche periodi di dipendenza, più o meno prolungati, dal carattere inconsueto e fortemente squilibrato, durante i quali la situazione dei soggetti “normali” si avvicina, per uno o più aspetti, a quella di una persona affetta da una disabilità. Questo significa che se noi vogliamo garantire le condizioni sociali della dignità anche ai cittadini”normali”, dobbiamo al tempo stesso pensare alla dignità dei disabili che portano un handicap per tutta la vita e cercare di trovare vie per riconoscere e sostenere la loro piena umanità e individualità di persone. Riflettere su di loro è riflettere su di noi».

Pizzo Alessandro

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